«First Man»

recensione di GIULIANO SPAGNUL al film di Damien Chazelle

Se il futuro è morto, il passato non sta certo messo meglio. In «First Man» – questa vera e propria riscrittura della storia della seconda metà del Novecento a opera di Chazelle – si riduce il ’68 (il più grande sommovimento globale che ha tentato di opporsi al dominio altrettanto globale del capitalismo maturo) a un insignificante rumore di fondo e si presenta oggi, alla vigilia del cinquant’anni dell’allunaggio, come il de profundis dell’essere umano in quanto tale. Non del mito dell’eroe, come una lettura superficiale potrebbe portarci a credere. Il vero bersaglio è quella scomoda figura di essere vivente portato all’eccedenza di significato, a quell’eccesso di immaginazione che la capacità linguistica ha permesso nel tempo di evolvere; una madre natura, forse distratta, ha prodotto questo sbaglio a cui ora la nostra civiltà, più evoluta e matura, deve saper porre rimedio.

Come osserva giustamente (anche se, forse, senza l’accento critico che qui gli si vuole dare) una recensione : con Neil Armstrong «non alluna un eroe, ma un sopravvissuto, come è forse l’America tutta a se stessa, come lo è di certo l’umanità: non si balla, si frigge tra le stelle, non si agogna, si pianifica, non si sogna, si esegue. E ne viene un’educazione sentimentale in cui l’anaffettivo è lessico familiare, precipitato del lutto, almeno per Neil: se la moglie Janet lo esorta a parlare ai figli prima di partire, e forse non tornare, Neil chiede a loro se hanno altre domande. Sicché quando Janet dice al piccolo che papà andrà sulla Luna, non potrà che sentirsi rispondere: ‘Ok, posso uscire a giocare?’» (1) È un panorama alla Ballard. La famiglia Armstrong, per come qui viene descritta, potrebbe rispecchiarsi drammaticamente in uno dei suoi racconti più atroci: Riunione di famiglia (2) in cui i componenti, ormai abituati a vivere separati, comunicano tra loro solo tramite estensioni tecnologiche e nell’improvviso desiderio di incontrarsi fisicamente, almeno una volta, vanno incontro a un’inevitabile impulso di distruzione reciproca. E se è pur vero che qui non si tratta di eroismo – non siamo a Dunkirk (3) – è solo perché questi eroi tali non sono, perché sono già tutti morti, ancora prima di mettere a rischio la loro vita apparente.

A leggere le numerosissime recensioni entusiastiche del film rimbalzano e si rincorrono parole come amore, coraggio, sfida, rischio ma soprattutto ossessione, come quella cosa, quest’ultima, che serve a dare “senso e motivazione” a compiti che altrimenti non potrebbero essere definiti veramente umani. Terrificante incubo di morte First Man può, a buon diritto, rivendicare un posto di rilievo in quell’immaginario odierno fatto apposta per un “pubblico triste” (4). Un pubblico che si vuole docile e rassegnato non tanto a una possibile fine del mondo, rischio concreto nella realtà odierna, quanto a una necessità di mutare in modo coatto verso l’unica sopravvivenza che ci viene spacciata come possibile. Aiutandoci con un’altra recensione possiamo capire meglio: «Sia Neil che Janet, entrambi personaggi molto più avanti rispetto agli anni Sessanta in cui si ambienta la storia, sono due esseri umani apparentemente freddi, ma che semplicemente non amano condividere la propria emozione, in particolar modo il dolore. I loro sono sguardi lunghi e silenziosi, complici. Nella solitudine dei loro pensieri, dei loro sguardi nel vuoto, trovano la forza di sfogare quel dolore. Quel senso di debolezza e disequilibrio che Armstrong annulla proprio attraverso il suo lavoro». E ancora Janet è: «Sicuramente una donna molto diversa dal tipico modello della donna degli anni ’60, anticipando non di poco quella che sarà una figura ben più moderna della moglie-madre che vediamo – o almeno dovremmo – vedere oggi». (5)

L’ispirata enunciazione di Neil sul “punto di vista che ti cambia la prospettiva” di fronte agli esaminatori della NASA è poi questo: un viaggio interiore nel deserto della solitudine in cui il cambiamento avviene ben esemplificato da quell’impossibilità del contatto finale, tra i due (ancora umani?) che cercano di toccarsi attraverso un vetro, e forse ancora di più, nel gesto di Neil che schiaccia la mosca cronenberghiana infiltrata nella cabina, onde evitare un qualsiasi possibile rischio di contaminazione della propria algida purezza raggiunta.

Sulla Luna Armstrong avverte l’immensità del Nulla. Ed avendo lui saputo spegnere la pericolosità del vivere può ricevere, come dono, la promessa dell’eternità e farne, a sua volta, dono all’intera umanità.

Nota 1: https://www.cinematografo.it/recensioni/first-man/

Nota 2: J.. G. Ballard, Riunione di famiglia, (The intensive care unit, 1977)

Nota 3: https://www.labottegadelbarbieri.org/ancora-su-dunkirk-e-sulle-polemiche/

Nota 4: Walter Benjamin, Il dramma del barocco tedesco

Nota 5: http://leganerd.com/2018/08/30/recensione-first-man/

 

Redazione
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2 commenti

  • “Il dramma barocco tedesco”, per favore, almeno le citazioni!

  • Giuliano Spagnul

    Con estremo ritardo mi sono accorto di questo commento a cui mi sento in dovere di rispondere non tanto per far ammenda di un errore che ritengo banale e normale (letto e riletto il testo l’errore rifiuta di evidenziarsi, che vogliamo fare?) quanto piuttosto per cogliere l’occasione di far ammenda di un errore ben più grave: quello del citazionismo eccessivo e inutile. C’è sempre da imparare e un po’ alla volta impareremo! Grazie comunque per la correzione.

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