Fra memoria e ricordi: scuola, identità, destrutturazione

Riflettendo su «FRAMMENTI», un laboratorio del 1979.

di Giuliano Spagnul

I computer sono dotati di una buona memoria ma non hanno ricordi: era la battuta di un film francese (forse di Claude Sautet) del secolo scorso. Non so quanti si ricordino di una forma di audiovisivo in auge sino a pochi decenni di anni fa: il diatape, cioè l’uso di diapositive accompagnate da un commento sonoro; di fatto al riguardo non esiste neanche una voce Wikipedia. Una serie di scatti, di immagini singole scorrono tenute insieme da una narrazione sottolineata, o meno, da brani musicali. Il diatape, proprio nel suo fissare una singola immagine al flusso di un sonoro, è stato forse lo strumento che più di ogni altro ha mostrato la differenza tra memoria e ricordi. Ricordiamo una singola immagine alla volta nello scorrere continuo dei nostri pensieri. Siamo portati a pensare la memoria come quel deposito in cui i fatti del passato trovano una sistematizzazione più veritiera possibile e ci irritiamo quando di un singolo episodio non riusciamo a trovare la giusta collocazione temporale. I ricordi invece si evocano nella loro singola presa, un’istantanea che emerge, spesso con aggiunte sinestesiche, da quel mare di memoria caotica che non si è mai riusciti a sistematizzare in modo coerente. Negli anni Settanta, fin dentro gli anni Ottanta, il Movimento antagonista e controculturale ha prodotto molto lavoro e ricerca sui temi legati alla conoscenza di sé (decisivo l’innesco dato dal femminismo) e l’animazione ebbe in questo una parte determinante. La ricchezza di tutte queste esperienze fu poi ampiamente sfruttata dal capitale che ne fece non solo una merce ma anche – soprattutto – una componente della formazione del lavoro sia subordinato che manageriale. Varrebbe la pena per tutti quelli che come noi si ostinano ancora a lottare e a costruire forme di contropotere ripensare a ciò che siamo riusciti a fare in quegli anni per trovare forme di comparazione con quello che si sta facendo oggi e, se mai, avere qualche mezzo in più per contrastarne la rapina da parte del potere. Quello che segue è uno dei tanti lavori nascosti o abbandonati che si trovano nelle nostre soffitte: un laboratorio per animatori teatrali (anno 1979/80) in cui si è sviluppato un percorso interiore, sia individuale che collettivo, sulla memoria scolastica. Torna ancora più attuale oggi se ci si chiede quale vissuto troverà posto nella memoria individuale dei giovani e giovanissimi che stanno vivendo ora un’esperienza così devastante, da più punti di vista, come quella della pandemia in atto. Il corso composto da 17 donne e 2 uomini con due conduttrici era situato all’interno di un programma di “Psicologia e Pedagogia” che si proponeva di «analizzare il territorio dell’interdisciplinarietà a partire dalla didattica teatro-pedagogica da cui parte l’animazione, guardando gli ultimi 15-20 anni, per cogliere i nodi problematici e le discipline fondamentali che l’hanno attraversata». Da questo filone teorico è emersa l’esigenza di porlo a confronto con l’esperienza individuale. «Ci siamo infatti accorte che se da un lato tutte noi, in quanto impegnate didatticamente, conoscevamo lo sviluppo di teorie e di esperienze presenti in quegli anni nella pedagogia e nella scuola, dall’altro ben poco di tutto questo era stato filtrato nel nostro vissuto personale, e che questo era così ricco e denso di situazioni, dati, informazioni da permetterci di ricostruire una mappa della scuola di quel periodo».

Discussioni e racconti a ruota libera sono stati la base per costruire questo lavoro che tramite lo strumento del diatape ha provato a ricomporre i frammenti di memoria (suoni, ricordi, immagini, sensazioni, emozioni, odori, dati, ecc.) non nel tentativo di una ricostruzione organica e razionale ma immediatamente emotiva. «Si è cominciato a scrivere relativamente al primo impatto con la scuola, negli anni dell’asilo, delle elementari, che, salvo alcune disomogeneità, coincidevano per tutti con il decennio degli anni ’60, prima della contestazione studentesca. (…) Gli scritti individuali sono stati smembrati e classificati in una serie di categorie, individuate da una prima analisi degli elaborati, e per ognuna di queste abbiamo studiato il linguaggio iconico più idoneo. Le finalità di questo lavoro erano due: sperimentare tecniche comunicative diverse e rendere in maniera efficace e fedele i differenti messaggi della memoria».

Purtroppo di quel lavoro (il diatape durava 1 ore e 20 minuti, con 285 diapositive) rimane solo la parte scritta: molte delle diapositive erano costituite anche da materiale organico, facilmente deperibile, inframmezzato tra i due vetrini. “FRAMMENTI. Destrutturazione di memoria scolastica” rimane comunque, oltre che un testo di gradevole e spesso divertente lettura, anche un documento di un’epoca (che sembra lontana anni luce nonostante i suoi protagonisti siano tutt’ora, perlopiù, vivi) su cui riflettere da vari punti di vista, non ultimo quello di un possibile confronto fra un vissuto interiore di allora e quello di un oggi che potrebbe rivelare inaspettati e sorprendenti parallelismi.

FRAMMENTI

Destrutturazione di memoria scolastica

(condotto da Marisa Bello e Anna Cattaneo)

La scuola, i miei ricordi, rispetto alla maestra, agli altri bambini. Non so: non ci pensavo da anni. Anzi non ci ho mai pensato veramente. È un percorso che non ho mai ricostruito. Come donna ho ripensato, vivisezionato i miei rapporti personali, come soggetto politico ho riflettuto un po’ sui miei entusiasmi, utopie, attività. Come soggetto capace di produrre cultura anche. Spesso! Ma la scuola è sempre stata fuori da tutto questo, come se non facesse parte della mia vita. Eppure per 15 anni ha occupato quasi tutto il tempo delle mie giornate, tutti i miei problemi erano lì. Tutto rimosso! Me ne sono resa conto solo ora.

RAPPORTO CON GLI INSEGNANTI

Le Suore vestite di nero mi sembravano gigantesche, in particolare una che terrorizzava i bambini.

Per muovermi dovevo sempre guardare negli occhi la maestra, che mi torceva il braccio per far fermare tutta la fila.

Alla quarta avevo un maestro ligure, completamente diverso dalla figura della “tipica” maestra assaggiata fino allora o nell’immagine familiare. Usavamo tutti i materiali possibili, lavoravamo, avevamo impegni, responsabilità precise, era tutto molto vivo.

La mia insegnante era anziana e robusta e ricordo che portava spesso a scuola caramelle per tutti.

La mia insegnante era vecchia, grassa e puzzava, io allora dicevo che puzzava di troppo mangiare. Noi alunni l’immaginavamo al mare, con un grosso copertone di ruota di camion come salvagente.

Ricordo una professoressa di francese enorme (dovevamo aprire entrambe le porte per farla entrare) che fumava sigari e si teneva un orrendo cane cieco sotto la cattedra (che poi fece cremare…).

Ricordo fatti strani e caratteristiche folli sui professori: persone anziane, lontane e pazze sul serio (quello di matematica, terza media, si beveva litri di acqua che noi a turno gli portavamo e negli ultimi mesi, oltre a strani salti che faceva in classe, camminava per le strade del paese a ginocchioni).

Il professore di lettere, noiosissimo severo, mi faceva dormire per ore e ore sul banco ascoltando le sue spiegazioni senza fine di cose che non mi interessavano affatto.

Al posto del noioso professore di lettere ebbi, quell’anno, un insegnante tutta vestita di nero e con i baffi, che, a mio parere, non capiva niente.

La mia maestra era anziana, rigida, tradizionale, aveva le gambe grosse a tronco; dovevo andare a trovarla con la torta o i fiori alle feste comandate e a fine anno; aveva una bella biblioteca e un marito in pensione.

Devo sentir volare quella mosca” diceva la maestra. Ricevo immediatamente un rimprovero che viene dalla cattedra, ma io non so chi è quella donna e da dove viene. Mi hanno detto di guardare il suo nome scritto su una targhetta fuori dalla porta e me l’hanno ripetuto; io cerco di impararlo ma è lunghissimo e ripetendolo lo storpio. A casa me lo fanno ripetere per mettersi a ridere a crepapelle; cosa ha che fa ridere? Forse perché finisce con il cognome D’Amore, ma dovrebbe essere bello e promettere bene un nome simile; perché gli adulti ridono?

Un giorno appena rientrata in classe dopo l’intervallo di mezzogiorno la suora ci mise tutti in castigo in piedi accanto al proprio banco per tanto tempo… troppo tempo… infatti io mi sentivo male e lo dissi alla suora la quale non volle credermi e quando io svenni e caddi per terra disse che lo avevo fatto apposta!

Il professore di greco trascorreva l’ora del compito in classe scandendo i minuti, in questo modo: “mancano cinquanta minuti alla fine dell’ora e voi non riuscirete a tradurre il brano, mancano quarantanove minuti eccetera”.

Le devo insieme a un’educazione familiare culturale, le prime repressioni verso il mio sesso ma forse anche le prime ribellioni. Adorava i maschi, li privilegiava chiaramente sempre a scapito nostro.

Ricordo la maestra dell’asilo: aveva i capelli neri, ricci e mi faceva paura.

Così poco suora da buttarci addosso tutta la contraddizione della sua realtà, le sue frustrazioni, i suoi slanci per un mondo che non poteva appartenerle più di tanto.

La classe formata da alcuni elementi piuttosto vivaci e spiritosi, non andava a genio a molti professori.

Professoressa d’italiano, strabica e terribile, mi interroga sei volte (anche all’esame) sulla resurrezione del Manzoni che non riesco e rifiuto di imparare a memoria.

È inutile che tenti di ricordare quello che facevo a scuola o le facce dei miei professori: nebbia. Invece i miei compagni benissimo, tanti di loro li ho ritrovati negli anni del “movimento” e sarà anche per questo.

RAPPORTO CON GLI ALTRI

I primi giorni e per tutto l’anno rammento una sensazione di disagio: non andavo a scuola volentieri; mi sentivo estranea verso i miei compagni, nonostante tre di loro abitassero proprio vicino a casa mia…

Le compagne di classe mi annoiavano: avevano voci gentili e grembiulini perfetti, stavano sempre intorno alla maestra: facevano bella figura, erano delle “vere bambine”.

Io stavo meglio con i maschi, facevamo gli stessi giochi (in cui la forza e la robustezza erano indispensabili). Scoprii l’altro sesso e ne parlottavo con due amiche più grandi: le donne non erano più così stupide, c’era qualcosa di cui si poteva parlottare con loro.

Fu il periodo del misticismo religioso; non avevo amici. Pensai che avrei fatto la suora e mi ci preparavo.

Non avevo amiche. Non ricordo un nome o un volto delle ragazze della mia classe. Ero amica dei componenti di una classe mista, l’unica della scuola e non vedevo l’ora che arrivasse l’intervallo per stare con loro.

Ricordo chiaramente le prime emozioni di rivalità nei confronti dei maschi. Diventavano una entità astratta: i maschi. Bisognava servirli, rispettarli. Occorreva vincerli in qualche modo.

Assieme ad alcune mie amiche diventavo una delle più in gamba, strumentalmente, della classe. Il primo tacito, non consapevole sodalizio femminile, vissuto sempre con lo stesso gruppo per anni.

Ricordo le osservazioni pesanti che i maschi facevano alla professoressa di calligrafia tutte le volte che arrivava con un cappellino nuovo (la paragonavano a vasi da notte; ecc.).

Ricordo le sensazioni di disagio che provavo quando ero interrogata e dovevo uscire dal posto; il fatto di trovarmi di fronte ai miei compagni, i maschi soprattutto, i quali si divertivano facendo commenti poco piacevoli sul nostro conto riferendosi al vestito o ad alcune parti del corpo.

Le mie compagne non avevano questi problemi, anzi sembrava che a loro facessero piacere le osservazioni dell’altro sesso; anzi alcune di loro vestivano da adulte con gonne strette e maglioni attillati. Una di queste era una mia carissima amica, uscivamo spesso insieme e a me dava fastidio sentire delle frasi pesanti indirizzate a lei.

Scuola media: prima occasione di autonomia, anche se limitate da mia madre, nel senso che andavo a scuola da sola (nelle elementari frequentavo la stessa scuola dove lei insegnava) e i contatti con le compagne e la scelta delle amicizie non erano più soggetti come prima al suo occhio vigile.

I rapporti tra di noi erano profondamente segnati da tutto ciò dentro la scuola e cambiavano rispetto a fuori. Si aveva quasi la sensazione che le amicizie non potessero esistere lì dentro, perché l’unica legge possibile era quella del “si salvi chi può”.

Ricordo che avevo paura il primo giorno di scuola e i bambini non li conoscevo mentre molti di loro erano amici.

Io mi sentivo diversa e anomala fin da piccola sia rispetto ai miei compagni che vedevo molto più liberi di me nei confronti della vita scolastica (capivo che loro chissà quali cose bellissime facevano insieme fuori e che l’importante per loro era fuori e non dentro la scuola), sia rispetto alla tradizione di famiglia (ordinati, precisi, razionali, amabili, lavoratori, ecc.).

Mia madre ci proibiva il contatto con gli altri bambini, il gioco, il gruppo, la compagnia (al massimo tra cugini).

Mi mancavano sempre i compagni fuori dalla scuola.

Al liceo di compagni ne ho persi 37; molte fughe dalla classe e un tentato suicidio.

Non mi riesce di ricostruire il rapporto che avevo con le mie compagne, mi vedo sola, isolata da tutti, come se tutto ciò che fosse accaduto nei cinque anni delle elementari riguardasse solo me.

Mi ricordo abbastanza bene il secondo anno delle elementari, quando sono arrivata nella classe altre 18 bambine provenienti dal Vallone, quartiere che era sorto da poco. Queste non me le ricordo tutte, anzi ne ricordo solo due, forse perché hanno avuto una storia particolare e perché alcuni fatti accaduti a loro di recente me le hanno richiamate.

Del primo anno di scuola ho la visione della classe formata da 11 bambine: le ricordo tutte con i visi di allora.

Amavo M. B. una mia compagna che era “pazza” secondo la gente, la invidiavo perché non aveva le mie paure, perché lei aveva più coraggio e si ribellava e tirava il pongo sul soffitto, rompeva i vetri e beveva l’inchiostro. Io facevo tutte quelle cose ma con paura, lei ne rideva e non aveva sensi di colpa.

la soddisfazione più grande l’ebbi quando agli esami di quinta elementare ebbi 10 in matematica quando anche la più brava della classe aveva sì dei bei voti nelle altre materie ma solo 8 in matematica, mi sembrava giusto: avevo risolto un problema con il teorema di Pitagora!

Ma ero sola: i miei compagni di classe forse mi invidiavano, ma non erano amici miei, quando mi avvicinavo smettevano di parlare. Allora tornavo a gironzolare intorno agli insegnanti che mi davano dei disegni sempre più difficili da fare.

Ricordo anche la ragazza con la quale eravamo amiche, anzi era più amica di mia sorella che mia, perché secondo me erano ”grasse” tutte e due.

Ricordo solo quelle antipatiche, le più ubbidienti.

(All’asilo), mi ricordo che i miei compagni di gioco preferiti erano i maschietti e una piccola tartaruga.

Quando sento l’appellativo di burattino ho l’impressione che tutti mi odino. Devo fare qualcosa per fare capire agli altri che non sono scema come sembrano credere.

Mi chiedevo sempre nel fuoco del mio banco, pieno di scritte e scarabocchi, cosa passava nella testa degli altri, in modo particolare mi sarebbe piaciuto sapere come loro ci stavano a scuola, se davvero stessero seguendo o solo fingevano.

Molti maschi e poche bambine; con i maschi stavo bene e mi sentivo libera, potevo muovermi e correre e sfogarmi.

Ho sempre cercato di farmi degli amici ma non ci sono mai riuscita e i pochi rapporti di amicizia femminili sono finiti troppo presto.

Il racconto degli episodi mi sembrano ridurre il peso delle sensazioni ma del resto è sempre così difficile esprimere cose di questo tipo soprattutto per me che con tanta fatica sto cercando di recuperarmi in tutti i sensi, possibilmente senza vittimismo (è sempre un rischio per me) questo lungo periodo che mi sono negata per lungo tempo.

LO SPAZIO

La prima cosa che ricordo è la scelta del banco: in prima fila perché durante le elementari ero sempre seduta nell’ultima fila.

Quindi andare a scuola per me era uscire dal cancello e entrare nell’altro portone.

La scuola era scalcinatissima e noi tantissimi: tant’è vero che l’anno dopo ne sono venute fuori due classi.

Due anni in una scuola così pezzente che in quinta elementare giuro che mi hanno dato la borsa di studio perché li ho fatti versare lacrime sulla stufa fumosa, su noi incappottati e melograni divisi in classe. Avevo imparato da De Amicis.

Nelle medie eravamo nell’edificio comunale, senza scuola, tanti, con insegnanti dei più vari.

Mi ricordo che dovevo fare più di due chilometri da scuola a casa e avevo sempre le borse pesantissime.

Ricordo come prima impressione il grigiore dell’aula, situata a piano terra, con delle finestre enormi sbarrate e con delle pesanti tende piene di polvere, che contrastava in modo impressionante col sole fuori.

Ho capito che nel tema intitolato” la mia aula” non potevo scrivere che la bidella non puliva bene, che le pareti erano sporche e piene di ragnatele (anche se le stesse cose le diceva a volte la maestra). I banchi vecchi e scomodi, perché quando l’avevo scritto la maestra mi aveva messo un punto interrogativo?

All’Istituto d’Arte facevamo laboratorio di pittura in corridoio, c’era tanta luce, dalle grandi finestre si vedeva il mare.

C’era una stanza con tante mensole per le cartelle coi disegni e dei grandi vasi di terracotta con dentro i colori a tempera: ne potevamo prendere anche tanto, che felicità.

Il corridoio era lungo e a volte correvo.

Mi è rimasta la sensazione di uno spazio enorme: del locale in cui andavo all’asilo.

La scuola era per me una prigione: avevo paura del chiuso, di quel poco spazio che era la mia classe.

In generale di quegli anni mi ricordo che mi sentivo crescere e facevo le cose in un modo che mi apparteneva abbastanza: sentivo l’euforia del pensare sulle cose, del produrre pensieri miei, dell’avere un mio modo di pensare.

IL CORPO

Mi nascondevo a malapena le ferite e i segni del lavoro in campagna e le mie mani erano un tormento.

Ero piena di aggressività e di forza repressa, odiavo il mio corpo (ero altissima e robusta) e nello stesso tempo ne ero fiera, ma solo quando ero all’aperto.

L’insofferenza dei “Fermi! Zitti!” c’era tutto il corpo da negare, da nascondere. Alle medie c’erano i miei ridicoli codini, c’erano le mie calze di nylon messe troppo presto, c’erano le mie minigonne rattoppate, tutto un corpo da prossima puttana, non da bambina seria.

I miei capelli non volevano stare a posto per quanto li tirassi, pettinassi, erano sempre arruffati e all’aria.

Mi tormentava l’idea di essere pazza perché non riuscivo a star ferma, perché odiavo quella scuola, perché non capivo cosa si diceva. Avrei voluto essere piccola come un pulcino e nascondermi sotto il banco. Mi sentivo sempre sulle spine ero sempre fuori posto.

Il corpo fu chiuso in lane, cappotti, banchi, stivali, appartamenti. La libertà del giardino, del mare, lontani. Tutto chiudeva, tutto soffocava. Diventai introversa, scontrosa. Tutte le difficoltà legate al mio corpo permanevano ed erano sparite le occasioni in cui ne potevo essere fiera. Avevo messo gli occhiali e ne soffrii immensamente.

Mi sentivo prigioniera del banco e mi sentivo un corpo grasso e schiacciato. Ricordo quando ho chiesto di andare al gabinetto, non ricordo bene per quale motivo la mia maestra non mi ha mandato, e io mi sono fatta addosso in classe seduta nel banco, la cacca.

Nel banco mi sentivo inquieta, obbligata, rigida; per fortuna la fantasia mi salvava, con la testa andavo lontana.

Ma in tanta tensione, attraverso gli anni, una parte importante di me era stata bruciata nella sua negazione quotidiana, nel far finta continuamente che il mio corpo non esistesse, mentre qualcosa dentro di me sembrava continuamente sul punto di esplodere. Io vivevo gli anni delle superiori nell’attesa di questa esplosine liberatrice, ma sapevo che essa non mi avrebbe ripagata delle ore trascorse in una scuola vuota di significato, che mi aveva da troppo tempo catturata psicologicamente anche con le sue gratificazioni, senza lasciare uno spazio per l’acquisizione di una reale coscienza di me come persona intera.

Ho cominciato poco per volta a capire che la scuola non mi voleva con il mio corpo e ho imparato a stare seduta nel banco, facendo andare solo le mani per inventare piccoli giochi segreti.

La cosa più brutta per me era l’obbligo di rimanere seduta, mi formicolavano le gambe, le mani, le braccia; me le stringevo e mi pizzicavo, non sapevo dove mettere le mani.

Non ho neanche la sensazione fisica della scuola, mi vengono in mente solo pagine di quaderni, facce con sorrisi da posa, in fila su per la scala. Mi sono ammalata di nuovo di nervi, i miei arti perdevano la coordinazione dovevo stare al buio, non riuscivo a stare in piedi, a volte nemmeno a parlare, tre mesi ancora in queste condizioni… Non sapevo più disegnare dovevo reimparare tutto.

Cominciavo a sentire grossi mutamenti nel mio corpo che mi impedivano di affrontare serenamente il rapporto con i maschi della mia classe. Mi pizzicavo sempre e mi facevo molto male per cercare di trattenermi e stare lì come tutti, perché così si doveva fare.

Io avevo sempre mal di pancia, dolori incredibili, appena ritornavo a casa mi coricavo su due sedie con un cuscino per calmarmi. La vergogna provata per aver fatto pipì in classe di fronte a tutti. Ricordo ancora il grosso sforzo per trattenerla e l’improvviso calore che mi scendeva lungo le gambe, poi il pianto nervoso e la voglia di scappare.

Ho sofferto di mal di testa con continuità in corrispondenza del mio impegno scolastico: mi ha accompagnato (legato dai medici a motivazioni diverse) fino a quando non me ne sono andata da casa. Allora un periodo di somatizzazione pazzesca (i medici dicevano che avevo il sangue avvelenato o un tumore al cervello) e poi con lo stacco da casa e da scuola, più nulla. Ecco penso che in fondo la scuola mi abbia sempre costruito dentro una tensione emotiva fortissima, mi abbia succhiato energia con violenza: dalla repressione del comprimermi fisicamente (ricordo che a casa facevo capriole sulle porte e mi arrampicavo dappertutto quando tornavo da scuola, per il bisogno di esplodere energia) alla sensazione di un luogo di dovere, di imposizione di modelli. Mi era stato costruito dentro un’immagine di me e di quello che dovevo essere e fare lì o a casa che mi chiedeva uno sforzo tale da crearmi il “mal di testa”.

Tutto ciò che esce dalla nebbia più assoluta della nebbia della banalità quotidiana è la mia immagine interiorizzata di quando avevo sei anni. Un’immagine ricostruita in base a pochissimi elementi. E per quanto riguarda la scuola quasi tutti negativi.

MODELLO

Dentro la classe ricordo la solitudine e la divisione tra noi ragazze, dovute alla rivalità e alla standardizzazione dei ruoli create dalle insegnanti (le brave, le meno brave, quelle che saranno bocciate).

Le selezioni programmate freddamente fin dall’inizio. Infatti in quarta ginnasio eravamo in 28 e di questi solo 8 sono arrivati in terza liceo.

In piedi quando entrava qualcuno: attenti, riposo! Dritti con le mani avanti per riceve le bacchettate sulle mani per il chiasso. Mi confondevo sui “mani in prima, mani in seconda”.

Lei era un maschiaccio e glielo rinfacciavano, a me no, anche se ero così vivace. Non so, questa cosa dell’aspetto angelico, non mi faceva condannare del tutto. Però ero sempre sull’orlo. Capacità di bilanciarsi tra accettazione e disadattamento, tra recupero e insofferenza. La cosa importante era che studiassi, facevo tutto da sola.

Differenza tra chi come me veniva dalla campagna e quelli di città.

A scuola avevo digerito la regola del dovere: fare i compiti non dover chiacchierare, alzarsi in piedi quando entra qualcuno, giocare al gioco del silenzio stando a braccia conserte, chiedere il permesso per andare fuori, non disturbare, parlare a bassa voce.

Era da maschio, non potevo girare in bicicletta perché non stava bene, non potevo andare in spiaggia a fare il bagno perché era uno scandalo.

In seconda vengo trasferita al nuovo Ferrini, classe femminile, molte “brave ragazze” e i professori che mi fanno pesare gli atteggiamenti di disinvoltura e di libertà. Qui per la prima volta le votazioni si abbassano leggermente: la professoressa di italiano parla di “intelligenza un po’ disordinata”.

Anche la calligrafia era orribile… Mani conserte, dietro il banco, sempre il primo perché bassa e un anno avanti, anche in fila per andare al cesso o uscire.

Ero felice di andare a scuola e che il mio maestro non picchiasse, che avessimo gli animali in aula o le piante.

Nella nuova scuola a Venezia fui subito accolta esattamente al contrario che in Sicilia: ho sperimentato personalmente il razzismo contro il meridionale, i preconcetti nei loro confronti, per cui chi è siciliano è di sicuro ignorante, senza possibilità di miglioramento.

Al S. Giorgio trascorrevo le mie giornate fermandomi anche al pomeriggio: ciò che ricordo di questi anni sono gli insegnamenti religiosi, la via crucis fatta in ginocchio durante il periodo di passione in una atmosfera grigia, tutto piatto, tutto senza colore e senza calore.

Ho imparato il primo giorno che la lavagna è qualcosa che la maestra usa per scriverci sopra parole che vengono da lontano, nelle quali non mi riconosco.

Durante l’intervallo mi sono sfogata a camminare sopra i banchi e sono stata punita; ho parlato troppo una volta che ero in fila per andare ai gabinetti e mi hanno punita.

Mia madre mi aveva detto più volte: “è inutile che studi. Cosa te ne fai dopo di tanti studi? Come donna potresti anche accontentarti di fare l’Avviamento e poi, se proprio vuoi proseguire, puoi iscriverti alle Tecniche”.

A furia di ripetermelo mi ero rassegnata, anche se agli esami di quinta elementare mi ero vergognata, sentendo la mia maestra che diceva sotto voce all’altra insegnante della commissione: “che peccato, vero? Una bambina così intelligente che dovrà fare l’Avviamento perché sua madre non può farla studiare”.

Come bambina si pretendeva da me meno inquietitudine, più riservatezza, non mi sentivo in colpa per questo, però ho intuito subito che per farmi perdonare la vivacità dovevo studiare e andar bene a scuola; una specie di patto segreto: se io sono brava posso essere più libera.

Una volta mi sono beccata zero in un compito in classe tutto giusto perché l’avevo passato ad una mia amica. Lo zero naturalmente in quel trimestre me l’hanno contato nella media dei voti.

La scuola iniziava sempre con una lunga cantilena di preghiere che io tentavo di imparare a malapena.

Facevamo grandi discussioni a scuola durante la ricreazione su quello che doveva o non doveva fare una donna, ma io ero sempre in minoranza, loro mi ritenevano fortunata ed erano rassegnate alla loro sorte.

Ricordo benissimo che ero stata costretta ad accettare tutto il comportamento disciplinato.

Non potevamo portare i pantaloni e se ci truccavamo eravamo perseguitate e chiamate puttane.

I temi vengono corretti in base alle idee espresse, chiaramente! Ricordo che ci dicevano chiaramente che noi del liceo eravamo migliori e superiori agli altri.

Poi scoprii cosa voleva dire, secondo il mio professore e secondo i siciliani in genere, essere “femmina”. Un giorno, durante la ricreazione (nonostante la classe fosse mista) i maschi giocavano in un angolo e le femmine in un altro. Pensai di invitare alcuni compagni a fare un gioco con le bambine: una specie di girotondo in cui bisognava far dei salti. Appena il professore se ne accorse ci gelò con lo sguardo.

Nelle elementari i primi due anni sono passati senza lasciare in me alcun ricordo sia piacevole che non mentre mi ricordo abbastanza bene gli ultimi tre anni.

COMPORTAMENTO INDIVIDUALE E COLLETTIVO

Mi sento piena di confusione, non comprendo cosa voglia dire stare seduta in un banco tre ore di seguito il mattino e due di seguito il pomeriggio.

Ho imparato molto bene a continuare a disegnare cose mie e a chiacchierare quando la maestra spiega: sono diventata un po’ furba (non troppo), forse un po’ più ipocrita e da allora nella scuola mi è andato tutto bene purché continuassi a negare l’esistenza del mio corpo stando seduta nel banco, non facessi troppo la sfrontata con i ragazzini, criticassi ma con buon senso, uscissi poche volte per andare al cesso.

Credo che il rifiuto verso lo studio sia stato una forma di reazione al liceo e che l’ho sviluppato uscita dalla scuola superiore. Credo che tutto quello che ho subito in questi anni sia una delle cause del fatto che non mi sono ancora laureata.

Incominciò pian piano un atteggiamento di distacco dagli insegnanti, fino al ribellismo che diventò un tratto caratteristico del mio comportamento successivo. Studiavo sempre meno e imbrogliavo sempre di più. Sempre più spesso cercavo di stare vicino alla finestra per guardare fuori.

Ho sempre fatto di più di quanto fosse necessario: lo faccio anche adesso quando mi sento in una situazione in cui ho da offrire una certa immagine di me agli altri, tranne mollare tutto quando crolla questa istanza. È strano: adesso mi rendo conto che i ruoli, anche abbastanza “importanti” nel contesto, che ricoprivo, li assumevo quasi con un sentimento di rivalsa, ma non solo chiaramente nei confronti dell’altro sesso, ma nei confronti dei miei genitori e naturalmente della collettività in cui ero inserita. Mi ricordo del mio ruolo di prima attrice in praticamente tutte le “recite scolastiche”; l’ho assunto dopo una figuraccia pazzesca fatta anni prima. Ho covato l’umiliazione e la rabbia per lunghissimo tempo, per avere poi un risultato di questo tipo.

Rammento che ci davano da mangiare nelle tazze anziché nei piatti e che nel pomeriggio si doveva fare il sonnellino, cosa che a me dispiaceva in quanto non riuscivo mai ad addormentarmi e trascorrevo quel tempo nella sdraio ad occhi aperti aspettando che passasse il tempo.

Durante la lezione di francese erano pochi gli attenti: la maggior parte di noi trasmetteva attraverso bigliettini barzellette e letterine spiritose, e quando la professoressa si accorgeva prendeva il biglietto del malcapitato di turno e lo leggeva ad alta voce.

(Alle Magistrali) Ancora tutte donne: pazzesco! E ancora per un anno non partecipai assolutamente alla vita scolastica.

Era una classe tutta femminile, piuttosto composta, io invece ero abituata a muovermi molto, a correre e gridare.

Il primo trimestre della prima ho avuto otto in condotta, l’unica: da allora in poi per tutta la scuola, mi ha accompagnato, la solfa “dell’intelligenza pronta ma troppo vivace”.

Credo di non aver mai toccato la mia maestra, del resto non mi piaceva farlo.

Stavo molto con gli altri, fuori e dentro scuola ho sempre avuto tanti rapporti ma il mio spazio, solo per me, l’ho sempre salvaguardato. Tante ore sola a leggere e a scrivere ma anche a girare.

Devo darmi una regolata, devo sbilanciarmi in un senso o in un altro: in quegli anni forse l’essere brava – però disinvolta – vivace – o ribelle, non è ammesso cosa che invece riuscirà perfettamente alle magistrali, negli anni successivi.

Mi ricordo che avevamo un giornale di classe, che io ero “il direttore”, poi in terza abbiamo deciso che il direttore non doveva esserci.

Non ero mai composta, a volte mi tiravano le trecce e il nastro e la maestra diceva che ero orribile così disordinata.

La contraddizione: quale ero io? …comunque mi sembrava di vivere su di un’asse di equilibrio. Ero esteriormente come mi volevano e forse normalmente non mi pesava più di tanto. Ne ricevevo gratificazioni, era l’unico modo per essere approvata, allora mi interessava. La negatività della memoria affiora pensando proprio a quei momenti in cui perdevo l’equilibrio: mi rifiutavo di pregare (in quel momento era più forte di me) giocavo a pallone (ne avevo troppa voglia per reprimermi).

Ero due e mai una. Dentro tanta voglia di fare, giocare, rompere, vivacità: fuori ordine, compostezza, diligenza, responsabilità, osservanza delle regole.

Paura no, non ne provavo, ero brava, avevo il salvacondotto ma il fatto è che non mi ricordo niente di quel che facevo a scuola, tranne le facce e qualche episodio.

PAURE E DESIDERI – SOGNI – FANTASTICHERIE

Affrontai l’esperienza scolastica piena di aspettative e di disponibilità.

Alle medie mi iscrissi ancora con grandi aspettative, ma ero cresciuta e mi era venuta voglia di conoscenza.

Cominciai a pregare Gesù Bambino perché, una mattina, a lato del mio letto, mi facesse trovare una bacchetta magica con la quale, un giorno, mi sarei trasformata in un essere alato che, agli occhi esterrefatti dei compagni e della maestra, sarebbe volato dalla finestra, lontano, nel cielo. Pregustavo tutta la gioia del momento, in cui avrei li avrei così tanto stupiti, e me ne esaltavo. Ogni mattina, per quattro anni, cercai la mia bacchetta magica, e fu molto triste capire che non sarebbe mai arrivata.

Ripensandoci adesso ero terribilmente ingenua, e il fantastico, la favola, erano predominanti nel mio quotidiano, e ci credevo in modo assoluto. Per me le persone reali e quelle delle favole avevano la stessa consistenza, e solo prima o poi, avrei visto le seconde. In quel periodo avevo delle apparizioni. Per una o due volte, la mano bianca. Un’altra volta, una figura femminile come d’aria bianca. Ne ero sconvolta, spaventata, ma speravo sempre che riapparissero: erano un mondo in più, un’altra vita. Forse, per me, un’altra occasione.

Il primo giorno di scuola ero contentissima di andarci: sarà stato perché mia sorella che ha quattro anni più di me era già a scuola e io ero contenta di diventare più grande, più importante.

I primi giorni di scuola e per tutto l’anno rammento una sensazione di disagio, non andavo a scuola volentieri, mi sentivo estranea con i miei compagni.

Durante la lezione di calligrafia ognuno di noi doveva portare da casa un barattolo d’inchiostro: ricordo l’odore non gradevole e la paura di sporcare il vestito e poi il fastidio e la soddisfazione che provavo quando mi vedevo con le mani macchiate di quel liquido.

Ogni giorno a scuola si passava l’intera mattina nel terrore perché i professori erano là. La selezione programmata freddamente fin dall’inizio si verificava puntualmente durante l’anno (compagni che si ritiravano o cambiavano scuola, molti con l’esaurimento nervoso).

Ci sono stati dei momenti se pur rari in cui ho avuto delle strane forme di ammirazione per uno o per l’altro di questi professori – mostro. Quando dopo alcuni anni ho visto il film “Il portiere di notte” mi sono reso conto che si trattava di veri e propri meccanismi interni al rapporto vittima-carnefice.

Ho sognato più volte di torturare il professore d’italiano e persino di spaccargli la testa con un martello. Mi pare che negli ultimi due anni arrivassi a gridargli delle cose ed a uscire di classe, ma è tanto emotivo il ricordo che sogno e realtà si uniscono.

Mi ricordo che ho odiato anche mia madre perché, siccome a me non piacevano i formaggini, usava la paura che io avevo della maestra per insegnarmi a mangiarli.

La suora terrorizzava i bambini portandoli nella stanza dove c’era il bruciatore e diceva che chi non stava bravo veniva mangiato da un drago verde con una lingua di fuoco.

Nelle proiezioni che spesso ci facevano vedere erano rappresentate storie tristissime: la morte di Gesù, bambini orfani, bambini che per castigo venivano allontanati dai genitori; paura che mi è rimasta per tanti anni.

L’anno della seconda elementare è stato per me abbastanza brutto, infatti ho forse in quell’anno subito il primo trauma della mia vita: la nascita di mio fratello, e pensandoci risento le sensazioni di disagio, ansia, emarginazione provate allora.

A dodici anni affrontai il problema del collegio che per me significava il primo distacco da casa. Fu un evento traumatico, anche perché il collegio si trovava a più di quattrocento chilometri da casa. Ricordo molto nitidamente il viaggio che feci in treno con mio fratello e l’angoscia che cresceva in ambedue man mano che ci allontanavamo da casa. Quando arrivai, l’edificio anonimo e il frastuono assordante delle collegiali nei loro giochi pomeridiani, mi raggelarono e la vetrata attraverso la quale lanciai un ultimo sguardo a mio fratello che se ne andava mi sembrò la separazione definitiva dal mio mondo infantile.

La scuola era per me una serie di tappe obbligate che bisognava affrontare nella continua tensione verso l’attesissimo momento in cui finalmente avrei potuto scrivere la parola fine alla carriera scolastica.

Avevo le trecce che tutti mi tiravano, la sensazione più viva è la paura, paura di essere sempre fuori posto.

La vergogna era la cosa più forte che provavo. Avevo sempre vergogna di tutto e di tutta me stessa.

Paura… tutto confuso era per me! Troppo grande troppo diverso, troppo tempo col terrore di dover passare tante ore in un banco con 24 persone che mi spaventavano e che non conoscevo.

Troppa paura per essere già diventata la strega, solo perché un giorno avevo raccolto un verme e lo tenevo in un vasetto al gabinetto e mi faceva compagnia.

Continua il liceo: terrore, isolamento, competitività, solitudine. Insofferenza, senza che esplodesse in episodi particolari.

I litigi, sono il ricordo peggiore, l’unica vera sensazione d’angoscia, di paura, di terrore di quegli anni; ma anche di rabbia.

Ho voglia di sabbia calda e di acqua…

Si viveva veramente in una situazione al limite del crollo.

Ma subito dall’anno successivo incominciai ad avere quella sensazione di soffocamento che provai fino alla fine del liceo: tutta la mia creatività, le mie idee diciamo all’avanguardia, la mia fantasia si spegnevano a poco a poco. Non c’era molto da criticare a prima vista, le suore erano “tanto buone”. Ma io ugualmente provavo disagio in quell’ambiente, non riuscivo ancora una volta ad essere pienamente me stessa.

In mente la vergogna che ho provato nel far le foto con mezzo metro di vestito che restava scoperto dal grembiule nero e i capelli spettinati. Perché guardavo e mi confrontavo con le figlie delle maestre che erano sempre ben pettinate, pulite e ben vestite, mi sentivo anche brutta e le invidiavo. Da sola mi avviavo. Il da sola è molto importante. Mi sentivo sola, impaurita, vecchia tra tanti bambini che a me sembravano felici.

O’ spauracchio della scuola, “vedrai quando andrai a scuola”, mi batteva nella testa.

Piangevo un giorno con due vecchie pantofole sgualcite e sognavo di diventare ricca.

Terribile è stato il passaggio successivo alla scuola superiore: ha inciso in modo violento e radicale sulla mia persona. Credo di esserne segnata anche oggi.

LE MATERIE

Le materie non mi interessavano, non mi colpivano, non me ne fregava niente. Solo una poesia , quella dello gnometto nel bosco che era bellissima, la ripetevo sempre fra me e mi dava forza. C’era un bosco bellissimo verde quieto, il sole, il verde, il sottobosco, le fragole, gli alberi, sentivo quel posto ed era il mio sogno.

Quando parlava di Dio non riuscivo a credergli, allora mi sentivo male, di nuovo col male di pancia, facevo fioretti e pregavo; ma più pregavo e più mi sembrava un’assurdità.

Tu fa che non sia biricchino, dammi nel cuore la tua fiamma d’amore perché sia più degno di babbo e di mamma.

Non capivo e quando capivo fingevo di non capire, poi mi sentivo in colpa di avere finto di non capire.

Avevo sempre otto in condotta: l’impatto non è stato duro e violento, ero brava in italiano, avevo già deciso che mi piacevano le materie letterarie e che avrei boicottato fino alla fine dei miei giorni qualsiasi cosa che avesse a che fare con la matematica e la fisica.

Mi piaceva molto imparare l’arabo e l’inglese, la materia che preferivo era l’italiano: mi piaceva tantissimo scrivere.

Ho scritto sempre molto, da una parte un gioco con me stessa, dall’altra una mediazione con l’esterno, filtrare la realtà con l’immaginazione.

Avevo un linguaggio ricco, mi piacevano le parole. Leggevo molto per cui a scuola sapevo scrivere.

Le cose che mi gratificavano maggiormente erano i temi di lingua italiana che spesso venivano letti ad alta voce; i miei erano giudicati molto buoni dall’insegnante; quando li rilessi qualche anno dopo, li trovai intrisi di sentimentalismo vecchia maniera che evidentemente faceva molta presa in un clima scolastico ancora molto impregnato di idealismo gentiliano e con insegnanti ancora molto “deamicisiani”.

L’unica materia che studiavo volentieri era la matematica e infatti ero la più brava… (alle medie) a scuola non avevo stimoli e anche la matematica era diventata come un’altra materia: pesante e odiosa.

Una costante delle elementari è stato l’amore per il disegno e anche per la matematica; ma soprattutto per il disegno, mi piaceva tanto, tant’é vero che oggi ritrovo i quaderni delle elementari pieni di disegni alla fine dei compiti quasi in ogni foglio.

Credo di ver realizzato le cose più belle (nel senso di oggetti belli) in quel periodo; lavoravamo con tutti i materiali.

Istituto d’arte, una scuola strana mi sentivo a mio agio, potevo fare quasi tutto quello che volevo, gli insegnanti mi consideravano un piccolo genietto del disegno; l’anno dopo ebbi il permesso di andare anche nelle aule delle superiori a disegnare con loro, non disegnavo quasi più con quelli della mia classe e mi sentivo sola.

Il disegno di una rosa e vicino al nome rosa da copiare sono la mia iniziazione a lettura e scrittura, io mi sento incapace di disegnare quella rosa sul quaderno e quella serie di disegni che le stanno accanto sulla lavagna. Non sono convinta che siano davvero la parola rosa.

A casa avevamo una mole indescrivibile di compiti e lezioni e brani in tutte le lingue, vive e morte, da imparare a memoria.

Mia madre mi aveva comprato una cartella di cuoio e io continuavo ad odorarla, odore che per lungo tempo sentivo vivo e che affiora ancora adesso.

Io non ricordo il primo giorno in cui sono andata all’asilo… Non ricordo dell’asilo né i giochi né i compagni… Mi viene in mente solo mio fratello come presenza dominante, mia sorella non la ricordo.

RAPPORTO SCUOLA – FAMIGLIA

In seconda media i miei decisero di mandarmi a scuola dalle suore al “S. Giorgio”: scuola “seria” dove avrei avuto un’educazione completa, anche morale, secondo loro. Il liceo classico non perché io volevo ma perché “è brava” (i professori ai genitori), no al liceo artistico “perché ha una brutta fama (i genitori a me).

La decisione della scuola superiore che avrei dovuto frequentare la prese mio padre: l’istituto magistrale e quindi addio I.T.I. da me tanto desiderato.

Mio padre era come un peso lì vicino, pronto a venir fuori, a chiedermi conto di quello che facevo; a scuola, se facevo bene era solo il mio dovere, non mi chiedeva mai come stavo. Facevo tante cose ma con paura, mi sentivo sulle spalle la presenza dei miei, la voce delle loro speranze e così mi prendeva il panico.

Ho un fratello più grande di me di cinque anni e che quindi mi ha praticamente fatto da balia, che ho considerato fino a poco tempo fa un secondo papà, un padre che ha sofferto moltissimo nella vita e una madre che considero santa…Sin da piccola ho imparato ad essere indipendente ed è per questo che non ho subito assolutamente traumi nell’inserimento all’asilo… non potevamo permetterci lussi… e quindi dalla famiglia non avevo interessi culturali: per me gli altri, il mondo, la società non esistevano.

Io desideravo follemente andare all’asilo ma nello stesso tempo era un vanto che non ci andassi: voleva dire che in casa la mia mamma non aveva bisogno di andare a lavorare. E poi lei, ci voleva “educare lei”. Sicurezza di protezione da un esterno ambito e però temuto (gli altri bambini, i bisticci, gli scontri, e lo stare insieme).

L’elemento più negativo non lo vivevo più dentro la scuola, ma in casa ed era l’ossessività materna rispetto al rendimento scolastico, in genere era molto buono, ma un sette anziché un otto provocava una tragedia. Mia madre, naturalmente, mi aveva iscritta alla sezione probabilmente “dura” perché così avrei conseguito una preparazione migliore e un’abitudine allo studio più seria.

Mia madre a casa mi correggeva dei compiti che si inventava: a scuola non prendevo insufficienze, ma con mia madre sì. Per mia madre ovviamente era indiscutibile che i professori avevano sempre ragione ed erano i migliori professori possibili.

A casa non trovavo nessuna comprensione se non in mia sorella, che aveva la fortuna a me negata di frequentare l’altra sezione del liceo, quella in cui si riusciva a sopravvivere. Ebbi il primo ragazzo che mi baciò sulla bocca: mi sentii immensamente in colpa, una traditrice degli ideali della mia famiglia, mi rinchiusi in me e non ne volli più sapere.

La maestra ha chiamato mia mamma per dirle che io probabilmente non somiglio a mio padre defunto (maestro anche lui in quella scuola) ma a lei, donna non istruita e per questo ritenuta meno intelligente. Questo mi fa sentire malissimo.

Una volta la maestra aveva raccontato a mia mamma che, nel tema sulla mamma avevo scritto che lei beveva vino e parlava da sola, cosa che mia madre si era legata al dito ricordandomela come esempio di disamore nei suoi confronti.

Mia madre ci spingeva all’impegno e nello stesso tempo ci commiserava, “poverine” e ci aiutava assistendoci con le sue pastiglie e punture ricostituenti, i suoi biscotti al Plasmon. E d’estate voleva che imparassi a fare la sarta. Fare le imbastiture ai vestiti . Odiavo lei, le spolette, volevo fare bene per farmi accettare e rovinavo poi tutto alla fine. Mia mamma mi correggeva le cose che scrivevo oppure mi aiutava, a volte: questo mi faceva stare male, mi dava molta insicurezza.

Immagini e memorie soprattutto visive, a volte molto difficili da collocare nel tempo, si sovrappongono riemergono, si ricompongono da strati di passato quasi completamente rimosso.

DENTRO E FUORI LA SCUOLA

Nel pomeriggio con le mie tre amiche facevamo giochi che ci impegnavano dal momento in cui tornavamo a casa, fino a sera tardi.

A casa studio dalle 24 alle 3 di notte, passo tutto il mio pomeriggio a far niente per me e nemmeno per la scuola. Ricordo che dipingevo grezze tele ad olio che vendevo per mille lire ai professori, agli amici e addirittura andavo a farli vedere nelle case di qualcuno.

La sensazione più forte è quella degli spazi: il cortile senza recinto, sempre pieno di bambini, di rumori, le voci nei pomeriggi e nelle sere d’estate quando mangiavo in due minuti per poter tornare fuori; e attorno ai prati, il ponticello, la strada sterrata su cui avevo imparato ad andare in bicicletta, su quella degli altri perché mio padre non me la voleva comprare.

Lo spazio era importante per me, venivo da un palazzo vecchio del centro con i ballatoi, e un cortile interno buio pieno di scatoloni.

Però mia madre è presente vicino a me. Studiavo in cucina, sul tavolo di marmo, lei cuciva, allora faceva la sarta, non ha mai saputo molte storie, erano sempre le stesse, una bambina che si allontanava troppo in bicicletta, si perdeva nel bosco e correva pericoli mortali.

Giocavo tantissimo con tutti, c’era una casa in costruzione che era la base della mia banda.

Ricordo i giochi che facevo con il mio più caro amico, forse l’unico che allora avevo e che era il mio vicino di casa.

Fuori scuola ancora gli spazi; facevo la lotta seria con Cecilia, ci pestavamo spesso.

I ricordi che mi sovvengono legati all’infanzia sono molto più vivi e piacevoli per ciò che riguarda la mia vita all’esterno della scuola, ciò che facevo nei pomeriggi di primavera… A volte ho come la sensazione di rivedere i colori dei prati, dei fiori, degli alberi che c’erano allora attorno alla mia casa, mi sembra persino di risentire i profumi, gli odori…

Oggi non riesco a ricomporre i pensieri. La mia testa va in tutte le direzioni, di solito scribacchiare così casualmente, mi serve per tornare un po’ dentro di me.

MEMORIA DELL’ESTERNO

La scuola elementare ce l’avevo sotto casa. Nel senso che al di là della rete del nostro orto c’era il campo dove giocavano i bambini nell’intervallo. Era a livello più basso del nostro e io ricordo che stavo nell’intervallo attaccata alla rete a guardare questi grembiulini bianchi che stavano insieme. Mi ricordo di una bambina che stava a parlarmi dal basso in alto.

Ricordo la casa in cui abitavo: era sita al primo piano con un corridoio buio e una finestra che dava sulla strada.

La strada non era lunga: un cortile, un negozio ed eravamo all’asilo. Prima media finalmente. Significava prendere l’autobus tutte le mattine schiacciata come una frittella tra la gente, ma mi piaceva molto.

Mi vengono in mente i vicini di casa: era gente semplice, lui faceva il ferroviere, lei era una signora che si truccava tantissimo, smalto, rossetto, ecc. ed io mi chiedevo come mai spendesse i soldi per comprare quelle cose e non altro.

La mia casa era vicina alla scuola: si costeggiava il lungo muro di cemento del giardino, coperto di cocci di bottiglia (desideravo arrampicarmi lassù per verificare se mi sarei fatta male: non l’ho mai fatto). Poi si girava a sinistra e c’era la scuola. Era bianca, tipica grande villa coloniale. Dentro c’era un bellissimo giardino, con le palme, gli alberi coi fiori rossi, le acacie profumate.

Il sole che sorgeva come una grossa palla rossa tra gli alberi che fiancheggiavano la strada vigentina. Il sole violento, dovunque ci sono pomodori stesi ad essiccare; non piove da sette mesi. Conosco cosa vuol dire la miseria.

Andiamo ad abitare in una casa ancora in costruzione nel centro della città, non ci sono infatti altri alloggi da affittare. La maggior parte delle persone vive nei bassi che danno direttamente sulla strada, magari in dieci in una sola stanza più l’asino e la capra: è Sicilia. Il paese sporchissimo, non ci sono le fognature e i liquami scorrono in mezzo alla strada, molti bambini scalzi e seminudi, sono strabici e con gli occhi arrossati e cisposi.

Mia madre cantava orribili, vecchie canzoni. Cerco di ricordare, gli anni del “beat”, Beatles, e Rolling Stones, la moda “pop”, Ciao Amici, Bandiera Gialla.

Della mia infanzia ricordo con precisione assoluta, pignola, tutto ciò che accadeva nel tempo libero dalla scuola: ascoltavo canzoni americane: Dean Martin, Frank Sinatra, Pat Boone, Ella Fitzgerald, Duke Ellington, Louis Armstrong, le orchestre americane, le canzoni greche (mia madre è mezza greca) le canzoni napoletane (Carosone).

Ricordo una volta uscita da scuola insieme ad altri ragazzi invece di andare a casa subito decidemmo di andare al bar per ascoltare una canzone allora molto in voga: “Una lacrima sul viso”. Sfortuna volle che mio padre passasse di lì in quel momento, e quando lo vidi per poco non svenni e quel giorno di lacrime sul viso non ne avevo una ma tante.

Sbranavo i libri; leggevo tutto quello che mi capitava tra le mani: quando mia madre mi chiudeva nella carbonaia, scappavo e mi mettevo a leggere in cantina.

Leggevo molto, tutti i libri di Salgari, uno per uno, ma anche altri, un po’ di tutto, c’era qualcosa in ciascun libro, e nel fatto stesso di leggere che mi dava automaticamente la possibilità di liberare la fantasticheria e di ricavare uno spazio totalmente mio. La lettura e la scrittura per me significano spazio.

Le rappresentazioni teatrali a cui invitavamo gli adulti, e le letture. Tutti i libri di avventure (preferibilmente di cultura anglosassone) e qualche cosa di Delly e Liala, che però mi hanno stufato in fretta, e libri di favole, tantissimi, e le fiabe somale di stregoneria e mistero che ci raccontava la cameriera.

La favola che preferivo era Peter Pan, che invidiavo molto perché aveva potuto scegliere di restare bambino. Leggevo Piccole donne e tutto il seguito (mi ero identificata con Jo). Più tardi, Dickens e molte saghe.

Mi ricordo poi, le partite di calcio alla radio la domenica pomeriggio dall’Italia, un paese che non mi piaceva.

Ricordo il pericolo di una terza guerra mondiale (intorno al ’61, ’62) i fatti che accaddero in Kenya, la guerra sulla frontiera con l’Eritrea.

Mi colpì molto la morte di Kennedy, ne parlavano tutti come della morte della libertà. Ricordo inoltre che si diceva Saragat fosse un fantoccio.

LE IMMAGINI SONO DI MARISA BELLO E GIULIANO SPAGNUL

Redazione
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