Fra rivolte e zoo, la Francia ha le colonie in casa

di Gianni Sartori

Le «notti dei fuochi» nelle banlieue di Parigi e di altre grandi città francesi sembravano un problema, se non risolto, provvisoriamente in letargo. Invece le gravissime violenze della polizia su un ragazzo, Théo, hanno innescato proteste, analoghe alla grande rivolta del 2005, dopo la morte di due ragazzi inseguiti dalla polizia [vedi NOTA].

In questi giorni nelle strade di Aulnay-sous-Bois, Seine-Saint-Denis, Tremblay-en-France… la protesta dei banlieusard innalza nuovamente il suo vessillo, nero di rabbia e di lutto.

Definite come “conflitti a bassa intensità” o “rivolte afasiche”, queste periodiche sollevazioni dei giovani – soprattutto beurs – lasciano comunque intravedere un movimento forse “in sé”, ma che sicuramente non ha ancora un “per sé”.

Sarebbe sbrigativo riportare il tutto soltanto alla ristrutturazione del lavoro e allo smantellamento dello Stato sociale. O anche alla «globalizzazione combinata alla flessibilità che provoca inesorabilmente eccedenze ed esuberi non funzionali allo sviluppo», come sostengono alcune voci di sinistra. Sia chiaro: sono fattori che sicuramente hanno alimentato l’aumento di povertà e nuove povertà (e non solo tra gli immigrati). Non dimentichiamo che se fino agli anni Settanta l’operaio poteva ancora agire sui meccanismi economici, oggi i “nuovi poveri” (precari, superflui…) possono ben poco di fronte a un lavoro automatizzato e alle delocalizzazioni. E il banlieusard in particolare si scopre ogni volta cittadino di serie B, impotente, oltre che umiliato e offeso.

Nel caso dei figli di immigrati non sarebbe (o non soltanto) la “mancanza di integrazione” a determinare disagi e ribellioni. Addirittura, per lo studioso Filippo Del Lucchese, la causa potrebbe essere proprio «l’avvenuta integrazione, l’aver interiorizzato i valori di Libertà e Uguaglianza (per la Fraternità meglio rinviare a tempi migliori, evidentemente; nda) scoprendo a proprie spese di esserne esclusi».

Nel 2005 per “sedare i tumulti” il governo francese era ricorso addirittura ad una legge coloniale sul “coprifuoco”. E’ partendo da questo fatto che alcuni ricercatori d’oltralpe (ma alle stesse conclusioni giungevano studiosi italiani come appunto Del Lucchese, Giuseppe Mosconi e Guido Caldiron) hanno cominciato ad analizzare la questione delle banlieue come una forma di “post-colonialismo”.

Naturalmente – ca va sans dire – le banlieue non vengono sfruttate per le inesistenti materie prime. Rimangono tuttavia, come appunto le colonie, territori in cui «la produzione dell’identità culturale avviene all’interno di un sistema di potere coloniale». A tale proposito Del Lucchese aveva rievocato nei suoi lavori un fenomeno ancora poco studiato dell’Ottocento, quello degli “zoo umani”. In questi luoghi gruppi di “indigeni” prelevati dalle colonie venivano esposti in vere e proprie gabbie e dovevano rappresentare la loro vita quotidiana, le danze, i riti; oppure gli «effetti benefici della civiltà», imitando lo stile di vita dei colonizzatori. A questi spettacoli assistevano migliaia di persone. E’ stato, secondo lo studioso «un modo molto efficace di propagandare il razzismo, facendo toccare con mano la presunta superiorità dell’uomo bianco». Di queste involontarie esibizioni esiste una vasta rappresentazione fotografica. Sono immagini molto statiche, in posa (per ragioni tecniche dei tempi del fotogramma) di «corpi immobilizzati», «domati» . Vien da dire “addomesticati”, una vera e propria imposizione di identità.

Parlando di «immagini senza storia, decontestualizzate, corpi congelati», Del Lucchese si chiedeva: «Siamo sicuri che questi metodi siano veramente alle nostre spalle? Siamo certi che lo sguardo che posiamo sulle banlieue non sia sostanzialmente ancora il medesimo?». In un suo articolo del 2005 dal titolo evocativo («La banlieue come teatro coloniale») metteva in evidenza quali fossero i meccanismi che producono la ghettizzazione, il vivere come colonizzati. Come aveva spiegato Frantz Fanon («I dannati della terra») parlando delle popolazioni colonizzate di Asia e Africa «la loro identità è data da uno sguardo diverso dal loro». L’abitante della banlieue viene considerato “arabo” non in senso etnico, ma quasi come «un marchio di infamia» deciso dall’esterno. Ma contemporaneamente gli verrebbe «imposto di scrollarsi di dosso questo stigma». E questo avviene non solo per i figli, ma anche per i nipoti di immigrati.

Risultato? Alla fine, azzarda Del Lucchese «recitano un ruolo», come se ancora si trovassero nelle gabbie di un nuovo, postmoderno “zoo umano”.

Dalle numerose interviste raccolte in occasione di rivolte e ribellioni emergerebbe proprio questa tendenza a «diventare quella immagine di “arabo” che altri gli hanno cucito addosso». Sorge, ovviamente, un dubbio. E’ possibile che meccanismi analoghi di identificazione con uno stereotipo negativo, ma in grado di fornire comunque un’identità, siano entrati in azione anche nei tragici eventi che recentemente hanno insanguinato la Francia (stragisti suicidi e non; “lupi solitari”…)?

Per un altro studioso, Giuseppe Mosconi (docente alla Facoltà di scienze politiche di Padova) «sugli incendiari si dicono e si scrivono troppe banalità». Per esempio: «si sentono esclusi, si esprimono simbolicamente…». Certo, è più facile dire «che cosa non sono, definirli negativamente (e quindi in pratica screditarli; nda), negare loro ogni dignità politica». Mosconi sottolineava che a suo avviso: «queste persone non si identificano a livello etnico-religioso, non si rifanno a improbabili “guerre sante” che oltretutto sarebbero facilmente recuperabili a livello mediatico». E, nonostante le analogie con le metropoli statunitensi, in particolare Los Angeles, non esprimerebbero nemmeno un generico «spirito di banda». Probabilmente non aspirano nemmeno a diventare «giovani occidentali dediti al consumismo» ma forse cercano di «essere qualcosa che stanno ancora elaborando, una identità in crescita, in formazione». Ossia chiedono «una forma di riconoscimento che consenta loro un movimento possibile». Intrappolati in uno «spazio ancora indistinto», non riconducibile ad alcuna catalogazione. E’ vero, nelle banlieue mancano le strutture e il welfare quasi non viene applicato, ma la soluzione non può venire soltanto dallo Stato sociale. Tanto meno dalla sola repressione.

[NOTA DELLA “BOTTEGA”]

Avevano 15 e 17 anni: i due ragazzini morti – o forse uccisi in modo “preterintenzionale” – nell’ottobre 2005 si chiamavano Bouna Traoré e Zyed Benna. I grandi media molto parlarono o sparlarono della rivolta ma spesero poche righe per dire che, 10 anni dopo, il tribunale di Rennes assolse i due poliziotti, un uomo e una donna, accusati di “mancata assistenza a persona in pericolo” per la morte dei due ragazzi, rimasti folgorati in una cabina elettrica mentre fuggivano dagli agenti a Clichy-sous-Bois, nella banlieue parigina. I due poliziotti, Stephanie Klein e Sebastien Gaillemin, sostennero di non essersi resi conto del pericolo che correvano i due ragazzi. Ma sulla radio della polizia esiste una registrazione con la voce di Gaillemin, che dice di aver visto alcune figure dirigersi verso la centrale elettrica, aggiungendo “se vi entreranno, la loro vita non varrà molto”… ma Klein e Gaillemin non mossero un dito: la vita dei due ragazzi non valeva comunque? Le immagini di questo post ricordano i loro nomi e i loro volti. Ma qui sotto trovate anche la copertina di un libro che ricorda la vergogna degli “zoo umani”.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *