Frammenti di un discorso scolastico

di Francesco Masala, con articoli di Davide Tedeschi, Giuseppe Bagni, Giuseppe Buondono, Giuseppe Caliceti, Giovanni Carosotti,Jacopo Rosatelli, Lucia Tozzi, Luigi Ballerini, Maurizio Mazzoneschi, Mauro Piras, Rete Bessa, Riccardo Beschi, Romano Luperini, Sara De Carlo, Usb, Wu Ming (ripresi dalla rete, i link a ciascun sito sono alla fine di ogni articolo)

 

1 – Le parole della Ministro della Scuola confondono gli studenti (e non solo) 

“Voglio rassicurare i genitori e i ragazzi: il rischio che gli studenti possano perdere l’anno scolastico non c’è”, scrive su facebook la ministra della scuola Azzolina a fine febbraio (qui)

“anche se tutti saranno promossi, ci saranno anche le insufficienze, i 5 e i 4”, dice in un’intervista la ministra della scuola Azzolina a metà aprile (qui)

“per tutti è garantito il passaggio alla classe successiva, ma poi a settembre per chi ha conseguito valutazioni non sufficienti la strada sarà impervia”. dice la ministra della scuola Lucia Azzolina a fine aprile, rivolgendosi agli studenti durante una diretta in un sito internet (qui)

La ministra ha creato i promossi ope Covid-19 (effetto collaterale: anche quelli che alla fine del primo quadrimestre avevano la media del 2, e che avrebbero continuato a non fare niente saranno promossi, si fa il loro bene, naturalmente, quando si sa che l’anno prossimo dovranno fare 2 anni in uno? Qualcuno sarebbe tranquillo se dessero la patente a chi non sa guidare?)

Prima sarebbe meglio pensare (bene), e poi parlare, nel mondo reale funziona così.

Una domanda: che gli studenti sarebbero tutti stati promossi non sarebbe stato meglio dirlo il 5 giugno? E un’altra: la Ministra ha una strategia, o parla a braccio?

 

2 – Effetti indesiderati (solo chi non sa niente di scuola poteva non prevederli)

Dice la legge che “…per procedere alla valutazione finale di ciascuno studente, è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale…”(DPR 22 giugno 2009 , n. 12), con numerose deroghe, come è giusto.

Non ho mai capito la logica della norma su citata. Da sempre chi a scuola viene poco, salvo miracoli, o geni, non passerà l’anno scolastico. È una norma di cui non si sentiva il bisogno, anche perché l’interpretazione degli studenti (parlo delle superiori) è stata, da allora, fino al 25% di assenze non c’è problema, molti se le fanno tutte, o quasi, quelle assenze, prima non l’avrebbero fatto.

Oggi fra coloro i quali si presentano alle videolezioni, molti o pochi, dipende dalle classi, appena connessi spengono la videocamera e giocano con il loro telefonino, attività nella quale eccellono (avranno un futuro assicurato, nei call center). Però sono stati presenti, che gran passo per la scuola e per l’umanità, queste videolezioni.

È nata la scuola del futuro?

 

3 – Chi comanda a scuola si chiama Registro Elettronico

Da quando è apparso nelle aule, nei computer delle aule, a volte nei computer privati degli insegnanti ha reso la vita facilissima. Quando si accende il computer a volte passano 5 minuti altre volte di più, solo per connettersi, e poi per mettere la firma, le assenze, i contenuti delle lezioni, i compiti assegnati, ci vorrà del tempo, rubato alla lezione con gli alunni, naturalmente. Il registro cartaceo non è più di moda. Tutto quello che è tecnicamente possibile si fa, senza discussione.

Ma la cosa più grave è un’altra, le società che li producono e li gestiscono, contenendo tutti i dati sono società private (chissà se c’entrerà il fatto che negli anni al Ministero della pubblica istruzione hanno cancellato l’aggettivo pubblica?).

Funziona così: ogni scuola, nella sua autonomia, decide a chi affidare il servizio, ci sono diverse società che lo fanno. In più ogni tanto cambiano qualcosa, costringendo tutti ad adattarsi, anche se va peggio (non sempre, lo ammetto, ma anche gli orologi rotti segnano l’ora giusta due volte al giorno).

C’è un modo di dire perfetto per questi casi: “se il solo strumento che possedete è un martello, vedrete in ogni problema un chiodo”; l’informatica (comprensiva di software) è il martello, la scuola è il chiodo, se non si era capito.

Domanda: è possibile che fra le centinaia di dirigenti pagati profumatamente (agli occhi dei lavoratori dei singoli istituti) nessuno abbia pensato a un registro elettronico programmato dal Ministero, o da una società ad esso riconducibile, uguale per tutte le scuole? Forse che nell’Amministrazione Finanziaria ogni sede usa il programma che vuole?

Domande: il registro elettronico è una concessione alle esigenze dei genitori di poter controllare i figli perché non si fidano di loro?

Quando vedono un numeretto che misura una prestazione dell’erede stanno tranquilli così, finisce lì, o vanno a scuola, o scrivono una mail al docente per chiedere il perché e il percome del numeretto? Come quando ritirano le analisi del sangue ci sono numeretti, ma vanno comunque dal medico.

Forse il registro elettronico svolge la funzione del carabiniere, serve per controllare i figli e i professori, domanda, provare a parlare non servirebbe di più, non sarebbe meglio?

 

4 – “Si può portare il cavallo alla fontanama non lo si può convincere a bere

diceva spesso Keynes. Puoi provare a fare le cose più belle del mondo, in classe, quella vera, a volte riesci a interessare gli alunni, che sono stati costretti a depositare gli smartphone in un cassetto della cattedra, o in una scatola. A volte viene depositato un telefono non funzionante, spesso gli studenti hanno due telefonini.

Ma con le videolezioni come fai? Se riesci a vedere gli studenti in viso quasi sempre gli occhi sono rivolti verso il basso, sul telefonino.

Diceva Frank Zappa: “Una delle mie tesi filosofiche preferite è che la gente sarà d’accordo con te solo se è già d’accordo con te. Non riesci a cambiare la mente degli altri.”

A scuola succede lo stesso, gli studenti possono imparare se vanno a scuola con l’idea, il bisogno, la voglia di imparare.

Altrimenti niente può vincere il fascino dello smartphone, terribile e sottostimata arma di distrazione di massa (non solo tra i giovani).

Battere lo smartphone a scuola è la missione impossibile.

Forse non tutti sanno che esiste una patologia che si chiama nomofobia (acronimo di No Mobile), per la quale si va in cura nei SerD (vedi qui e qui). Naturalmente chi ha questa patologia, se glielo si dice, ride, giovani e genitori, come quando per chi beve troppo spesso si sorride dicendo un bicchiere ogni tanto cosa potrà fare, o come quando uno è troppo spesso “fatto” si sorride dicendo drogarsi ogni tanto non può fare così male.

A quando l’intervento dei SerD nella scuola per la nomofobia?

In un libro intitolato “Demenza Digitale“, di Manfred Spitzer, che dovrebbe far riflettere sui computer (e non solo) a scuola (e non solo), l’autore afferma:

“chi è favorevole all’introduzione dei media digitali nelle scuole usando soldi pubblici, deve prima dimostrare l’effetto positivo di questa misura. Gli studi a disposizione ci inducono a pensare che portatili e lavagne interattive nelle scuole ostacolino il processo di apprendimento e quindi danneggino gli alunni”

” i computer elaborano informazioni. Da qui si deduce erroneamente che i computer siano strumenti ideali di apprendimento. Invece, proprio il fatto di sottrarci il lavoro mentale, i computer non sono adatti per imparare meglio. L’apprendimento presuppone una lavoro mentale autonomo: più a lungo, e sopratutto in modo più approfondito, si elabora un contenuto, meglio lo si impara”

“il cervello di un adulto è sostanzialmente diverso da quello ancora in via di sviluppo di un bambino. Questo semplice fatto viene praticamente ignorato da tutti gli esperti che si occupano del tema dei media digitali in ambito educativo”

“l’aspetto più ingannevole nel concetto di competenza mediatica è che per utilizzare internet non è necessaria alcuna capacità specifica. Ciò che serve è invece una solida cultura di base o generale. Chi già ne dispone potrà trovare molti contenuti su internet e informarsi in maniera approfondita. Chi invece non conosce (ancora) niente non diventerà più colto tramite i media digitali. Perché è necessario avere conoscenze preliminari di un determinato contenuto per poterlo approfondire. Chi non è convinto può provare a inserire in un motore di ricerca un contenuto di cui non sa assolutamente nulla. Si accorgerà ben presto che Google non è in grado aiutarlo. Vale invece il contrario: più so, prima trovo in rete i dettagli che mi erano sconosciuti.” (da qui)

 

5 – dice una delle leggi di Murphy:

Chi sa insegnare insegna.

Chi non ha mai insegnato (o non sa insegnare) insegna agli insegnanti come insegnare.

 

6 – un paradosso della didattica a distanza

Non succede sempre, ma succede.

Il fatto è questo: coloro i quali, nella tradizionale aula, diciamolo, non erano granchè nella funzione didattica e docente, nella didattica a distanza (dove si esercitano le stesse funzioni, che con un cambio di vocale diventano finzioni) diventano straordinari.

Alcuni ricercatori sono all’opera per capirci qualcosa, e anche i linguisti specializzati in slittamento vocalico sono al lavoro.

 

7 – E adesso un po’ di fantascuola.

E se ipotizzassimo che fra qualche anno le scuole (magari solo quelle secondarie superiori, tranne i licei di vecchi stampo, per un numero di studenti programmato, per diventare le future classi dirigenti) diventassero luoghi nei quali dalle LIM (lavagne interattive multimediali) trasmettessero delle videoconferenze ministeriali con risposte preconfezionate, si mette una crocetta e via, se si sbaglia non importa, si potranno rifare i test mettono croci finché non si raggiunge la sufficienza (succede già oggi, in certe attività)?

I genitori devono lavorare, come farebbero a lasciare gli studenti a casa? Gli studenti apprenderebbero qualche nozione, non ne servono tante per far parte delle classi non dirigenti, e passerebbero il tempo, e imparerebbero a essere sottomessi.

Come tutte le cose impossibili, non verrà realizzata, ma se smette di essere impossibile?

Tante domande, direbbe Bertolt Brecht.

(ogni riferimento alla realtà non è casuale, parlando della scuola secondaria superiore)

Francesco Masala

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Concorsi ed Esame di Stato: per Azzolina inizia la “fase 6 – the walking dead”

Esami di Stato e concorsi in presenza, l’uno-due della ministra Azzolina in tre giorni ci porta direttamente nella “fase 6 – the walking dead” della pandemia, per cui da un lato docenti ed alunni dopo quattro mesi di chiusura delle scuole e Didattica rigorosamente a Distanza dovranno tornarci per un Esame di Stato di cui non si sente alcuna necessità, dall’altro più di 80mila precari dovranno sostenere una prova computer based nella calura agostana, ammassati in centinaia, se non migliaia, in aule, palestre o, perché no, palazzetti dello sport. Una scelta incomprensibile, frutto dell’assenza totale di coraggio che avrebbe dovuto portare il ministro a bandire un concorso per titoli e servizi, nonché concludere l’anno scolastico con uno scrutinio finale senza Esame di Stato.
Immaginiamo già le scene da serie horror, in cui studenti, insegnanti e candidati del concorso, bardati di mascherine di ordinanza, protetti da parafiati, che speriamo le scuole abbiano i soldi per acquistare, forse in realtà chiusi in una scuola fantasma, cercheranno di scampare agli “zombi sopravvissuti” che tentano di entrare.

La verità è che il ministro dovrebbe dimettersi il prima possibile per consentire finalmente una gestione razionale del mondo della scuola di fronte alla più grave crisi mai avvenuta dalla fondazione della Repubblica. La sfida della salute pubblica è troppo importante per tutti per consentire al ministro Azzolina di continuare a perseverare nei suoi errori.
È arrivato il momento di chiudere quest’anno scolastico tribolato senza alcun esame di Stato, consentendo inoltre ai precari di arrivare in cattedra il primo settembre con un concorso per titoli e servizi, concentrando le forze del ministero, degli Uffici Scolastici, dei dirigenti, di docenti ed ATA sull’anno scolastico 2020/2021, perchè dovremo garantire il diritto allo studio in una scuola pubblica statale che chiede investimenti in edilizia scolastica e molti più docenti e personale Ata, al fine di garantire scuole sicure, distanziamento sociale, salute pubblica, permettendo a tutti noi di superare la DaD, che – lo ribadiamo ancora – non è didattica, e consentire che si svolga in piena sicurezza un anno scolastico in presenza.

Per questo USB organizza una assemblea pubblica l’8 maggio alle ore 16:00, sul tema del precariato e della ripresa dell’anno scolastico, in diretta sulla nostra pagina FB e sui nostri siti, per ragionare  insieme  sulle forme  della  necessaria mobilitazione.

da qui

 

Contro gli insegnanti: la nuova linea della ministra Azzolina – Giovanni Carosotti

Sarebbe stato un bene fosse proseguito quel clima di attesa e di sospensione del giudizio che, in un primo momento, sembrava dovesse prevalere tra tutte le parti che in questi anni si sono confrontate, anche molto polemicamente, sui destini della scuola italiana; anche in considerazione della opportunità di non strumentalizzare a proprio favore una situazione drammatica, che non coinvolge certo solo la scuola. Sembrava opportuno, semmai, confrontarsi a emergenza conclusa, in base alle esperienze acquisite, per valutare quanto della propria cultura professionale fosse stato messo in gioco e quali considerazioni trarne. È durato però poco. Come già testimoniato da Roars, la tentazione di strumentalizzare il ricorso obbligato alla “didattica a distanza” ha sedotto alcuni in modo irresistibile, con l’obiettivo –che sembra centrato- di condizionare l’azione di governo verso svolte autoritarie che si vorrebbero irreversibili.

Ad alzare pericolosamente i toni –ma a nostro parere con intenzione voluta, visto gli effetti che sembra avere prodotto presso il MIUR- è stato un comunicato firmato da una ventina di Dirigenti Scolastici. Avendo già destinato un’analisi accurata a questo testo, nella parte finale di un intervento dedicato proprio alle conseguenze e alle problematicità della “didattica a distanza”, a quello rimandiamo per non appesantire ulteriormente la presente nota. Il documento auspica in ogni caso una torsione decisamente autoritaria nell’organizzazione del lavoro scolastico, che prevede un potere pressoché totale dei Dirigenti Scolastici (esplicitamente rivendicato dai firmatari) sui docenti, ai quali viene negato il diritto di scegliere «che cosa insegnare»; essi vengono concepiti quali semplici esecutori («operatori» è l’espressione che prediligono i documenti ministeriali) di procedure e pratiche decise in altri contesti. Senza tenere conto di quanto queste pratiche siano contestate e non esista alcuna ragione scientifica per imporle in modo assoluto; laddove c’è un dibattito in corso, il vero interesse degli studenti –che tali Dirigenti non si sa per quale motivo pretenderebbero di rappresentare in modo esclusivo- è che sia preservato un pluralismo delle proposte metodologiche che garantisca un continuo confronto sui risultati ottenuti, nel rispetto del lavoro di tuti. E invece, secondo questi dirigenti:

«Formazione obbligatoria, per tutti, valutazione per competenze, uso di tecnologie nella didattica. Sono anni che ci riempiamo la bocca con queste parole, adesso è il momento di metterle in pratica, tirarsi su le maniche e fare comunità»

Laddove la comunità è intesa come allineamento (questo verbo viene esplicitamente utilizzato poco dopo) totale alle loro prescrizioni. Il testo si caratterizza peraltro in una evidente insofferenza verso l’art. 33 della Costituzione, del quale i Dirigenti in questione vorrebbero offrire un’interpretazione autentica (chiedono a chi non la pensa come loro di «informarsi bene») che ci appare quanto meno problematica e piuttosto semplificata.

«In ultimo chiediamo a chi urla ai quattro venti invocando la libertà di insegnamento, di informarsi beneIl docente non è libero di insegnare oppure no. E nemmeno di scegliere cosa insegnare. Il docente si allinea al PTOF della sua scuola, si attiene alle Indicazioni Nazionali, organizza il suo lavoro in raccordo con i documenti della scuola in cui esercita il suo ruolo, e alle disposizioni che il Ministero emana, come in quest’ultimo caso»

Una posizione, a nostro parere, decisamente reazionaria, sia per come concepisce le relazioni interne alla comunità scolastica, sia perché in contrasto con quei valori civili che la Costituzione assegna alla scuola della Repubblica. Ma, come detto, rimandiamo per un’analisi più accurata all’articolo sopra citato.

Ecco però comparire su “Orizzonte Scuola” un articolo che ci informa di come «il Ministro Azzolina» abbia «firmato il decreto con cui conferisce incarico di consulenza ad esperti di innovazione didattica e formazione». Ci si aspetterebbe che di tale gruppo di consulenti facessero parte esponenti delle diverse opzioni in gioco, in modo da offrire al ministro un ampio numero di soluzioni possibili rispetto a un quadro mai così problematico come quello offerto dalla situazione odierna. Invece a costituire questo gruppo troviamo –stando alle informazioni dell’articolo- solo dei sostenitori dell’innovazione didattica a senso unico: vi compare un docente in pensione di matematica e scienze, il prof. Giuseppe Paschetto, il cui merito sarebbe quello di essere rientrato tra i 50 finalisti (i «super insegnanti») scelti dalla VarkeyFoundation per il Global Teacher Prize. Possibile come scelta, in un contesto di rispetto reciproco. Ma ovviamente in tendenza con quella linea di politica internazionale distruttrice della scuola fondata sui valori culturali, ben rappresentata da una linea a nostro parere fortemente demagogica come quella del Global Teacher Prize.

Ad affiancarlo, proprio la prima firmataria del documento dei Presidi, la Dirigente Scolastica Amanda Ferrario. Che peraltro, a certificare una decisa continuità con i ministeri precedenti, aveva già collaborato con il ministro Bussetti.

Ci saremmo aspettati che quel documento così eccessivo ed estremista, soprattutto per la leggerezza e l’insofferenza con cui liquida il riferimento all’articolo 33 della Costituzione, avesse costituito un motivo di imbarazzo per il ministero. Sicuramente non mancherebbero personalità di più alto profilo intellettuale, e di maggiore competenza costituzionale, che meriterebbero di essere chiamate a questo lavoro di consulenza. La ministra, dunque, con questo decreto, riteniamo assuma quel documento quale linea guida rispetto alle trasformazioni che intende imporre alla scuola. Una soluzione che suona, a nostro avviso, come una dichiarazione di guerra verso i docenti e verso la loro professionalità.

Ancora una volta si è scelto di non ritenere i docenti quali principali attori della vita scolastica e primi interlocutori del ministero; si prendono delle decisioni alle loro spalle che ne condizionano pesantemente l’esercizio libero della loro professionalità, approfittando anche della loro attuale condizione di isolamento, che rende difficile una risposta organizzata e un confronto collegiale. Un bel ringraziamento rispetto allo sforzo che stanno compiendo per salvare l’anno scolastico e offrire risorse ai loro studenti. Sarebbe anzi da argomentare –ma non è il caso di farlo qui, e in parte ci abbiamo provato nell’articolo citato sopra- quanto proprio questa emergenza renda indisponibili e inefficaci le forme di innovazione didattica più radicali, incapaci nella loro vuota formalità di dare un senso compiuto a un’esperienza così drammatica e straniante quale quella che gli studenti stanno attualmente vivendo.

Una parabola sicuramente negativa –e nei modi così radicali inattesa- della politica scolastica del Movimento 5 Stelle, che ha scelto di agire in piena continuità con le scelte conservatrici di questi ultimi anni inaugurate con la Legge 107; di assecondare le indicazioni delle associazioni più inclini a sacrificare la scuola e la formazione degli studenti a un’ideologia economicistica dal corto respiro. All’interno di quel movimento ci sarebbero ancora delle voci critiche; sarebbe bene emergessero offrendo agli insegnanti una sponda nella loro volontà di evitare una tale deriva.

da qui

 

da Ferdydurke – Witold Gombrowicz

”… Ma hanno il tatto, l’esperienza e la consapevolezza per una missione importante come l’insegnamento?”
“Sono i migliori cervelli della capitale,” replicò il preside. “Non ce n’è uno che abbia un’idea sua. Se proprio a qualcuno dovesse venirgliene una, ci penserei io a far sloggiare l’idea o l’ideatore. Sono nullità innocue, insegnano solo quello che c’è nei programmi scolastici! No, no, nessun pericolo che gli venga un’idea originale.

(da qui)

 

 

I conti non tornano, la scuola smart pensata per pochi – Jacopo Rosatelli

Il rientro a scuola sarà complesso. Nei ragionamenti sulla fase due si evocano lezioni nei giardini degli istituti o nei musei, aule rimodulate, mix virtuosi di didattica online e in presenza: bello e impossibile. O meglio, possibile solo per chi ha risorse, spazi adatti, contesti accoglienti: insomma, per chi è avvantaggiato, e magari anche prima del virus riusciva a fare scuola in maniera «creativa». L’entusiasmo per le magnifiche sorti e progressive generate dalla crisi ignora che il sistema già fatica a funzionare in condizioni normali. Dilaga il precariato, mancano presidi e direttori amministrativi: non è certo l’ideale per affrontare tutti gli adempimenti che la riapertura imporrà. Se si considera, inoltre, che nei migliori dei casi le procedure di nomina dei supplenti si portano via l’intero settembre, immaginare quel che può accadere in tempi di coronavirus dà i brividi.

Ammettiamo tuttavia che il precariato, per magia, scompaia. Che l’intero organico – dal troppo spesso dimenticato personale amministrativo, tecnico e ausiliario sino ai dirigenti – sia coperto da titolari di ruolo. Le prime settimane, afferma la ministra, saranno dedicate «a chi è rimasto indietro». Giusto. Posto che, per essere efficaci nel poco tempo disponibile, i corsi di recupero dovranno essere intensivi, viene da chiedersi: ha senso sottoporre alunni con difficoltà di apprendimento a uno sforzo eccezionale con l’ansia di rimettersi in fretta «al pari degli altri»? Probabilmente no. Ma nemmeno ripartire ignorando le carenze. I risvolti pedagogico-didattici del recupero a settembre mostrano già la magnitudine dei problemi.

Tra le ipotesi per la ripresa circolano doppi turni e riduzione dei gruppi-classe per evitare il «pollaio». Se si dovranno mantenere davvero le distanze (e trascurando cosa significhi obbligare persone in età scolare a stare distanti), ogni classe andrà divisa. Delle due l’una: o si raddoppiano i docenti (e le aule) o si dimezzano le ore a scuola di ciascun allievo, perché le ore del singolo insegnante restano le stesse. Tertium non datur. Si fa un po’ in presenza e il resto si continua online? A prescindere dal fatto che non tutto si può fare online – dalla ginnastica al laboratorio di cucina -, proviamo a fare un esempio concreto. Matematica alle medie, quattro ore per classe: il docente farebbe due ore con ciascuna metà classe, le altre due online con l’intero gruppo. Ma i conti non tornano: quell’insegnante farebbe in tutto sei ore. Pagato per quattro, però. E anche volendo ammettere – senza concedere – che il corpo docente faccia un enorme straordinario vista l’eccezionalità della situazione, si porrebbe il problema delle risorse per pagare le ore eccedenti.

Gli scenari sono facili a dirsi, ma chi prefigura la scuola smart ha spesso in mente contesti privilegiati e non ha sufficiente considerazione del lavoro necessario. Si deve fare di tutto per tornare in classe, ma i voli pindarici sulla fase due tradiscono scarsa dimestichezza con la realtà, se non la volontà di pretendere dalla scuola senza riconoscerle nulla. Quel che serve, invece, è che si imposti, ascoltando associazioni e sindacati, un anno che faccia i conti, tristemente ma realisticamente, con orari ridotti per gli alunni. Capendo, subito, come porvi rimedio, usando le risorse in modo perequativo e attivando ogni supporto del territorio per evitare che i costi della frequenza diminuita si scarichino su famiglie lavoratrici e genitori single. Alla scuola il compito costituzionale di impegnarsi per attivare le capacità di bambini e ragazzi in quella che sarà una sorta di «alternanza scuola/casa» in cui le condizioni della casa non dovranno fare alcuna differenza.

da qui

 

Il “fattore umano” della scuola – Luigi Ballerini 

Chissà come si divertivano. Titola così un racconto di Isaac Asimov ambientato nel 2157. L’autore immagina un dialogo fra l’undicenne, Margie, e suo fratello Tommy, tredicenne, a casa, mentre aspettano di iniziare le lezioni. Il ragazzo sta sfogliando un libro cartaceo che desta la curiosità della sorella per il fatto di avere parole statiche, così diverso dal loro telelibro che invece contiene migliaia di testi. Tommy è venuto anche a sapere che il loro bisnonno non aveva un robot-maestro a casa, ma che a quell’epoca tutti i ragazzi si radunavano in un posto chiamato scuola. Un posto scomodo che si perdeva tempo per raggiungere e per giunta abitato da imperfetti insegnanti umani che ne sapevano molto meno degli attuali maestri meccanici. La sorellina, nella chiosa del racconto, mentre in sala è alle prese con il robot di matematica è sorpresa da un pensiero: “L’insegnante meccanico faceva lampeggiare sullo schermo: – Quando addizioniamo le frazioni 1/2 + 1/4… Margie stava pensando ai bambini di quei tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà, stava pensando, come si divertivano!”.

Di là dall’intuizione di Asimov di immaginare nel 1954 il lettore di ebook e certe tentazioni come l’homeschooling, viene suggerito bene il quid costitutivo della scuola: il fattore umano. Dal suo passato, proiettandoci in un futuro attualizzato dalle nuove circostanze, Asimov ci richiama il proprio della scuola: essere innanzitutto un luogo di rapporto. È questo ciò che improvvisamente è venuto a mancare in queste settimane, un luogo abitato, scandito da tempi e normato da regole che lungi dall’essere costrizioni e restrizioni sono le forme perché la vita scorra in ordine e in modo fruttuoso. All’improvviso è venuta meno una tale occasione di rapporto con i pari e con gli adulti, assieme a tutti gli altri “fuori” così preziosi per la vita di un adolescente: non esiste infatti ambito che ne sia rimasto escluso, da quello sportivo a quello ricreativo a quello della coltivazione delle diverse passioni. Tutti chiusi dentro, in un dentro che c’è sempre stato, ma mai in modo così propriamente esclusivo e prepotente.

Quello che il lockdown ha fatto ai ragazzi e alle loro famiglie è stato in fondo evidenziare e talora far esplodere ciò che in realtà era già presente. Dove le cose andavano bene, stanno continuando a farlo, magari in modo più zoppicante o altrimenti più soddisfacente, ad esempio con riscoperte fratellanze e sorellanze. Dove la vita invece era già faticosa, al limite, tenuta all’equilibrio dalla possibilità di avere vie di fuga, tutto è diventato più difficile, fino a insopportabile. La stessa dinamica si vede applicata alla scuola: gli adolescenti che già lavoravano in classe e a casa per lo più continuano a farlo, chi non lavorava o si applicava poco c’è il rischio che abbia smesso definitivamente.

La scuola in presenza era, è, democratica: lo è nella sua obbligatorietà, lo è nel suo cercare di porre tutti gli studenti nelle medesime condizioni, quantomeno logistiche e di fruizione. La scuola a distanza non lo è affatto, o non lo è ancora; piuttosto stiamo toccando con mano quanto sia lontana dall’equità. Il cosiddetto digital divide ha realmente diviso la popolazione scolastica: non c’è parità nella disponibilità dei dispositivi digitali, nella possibilità di connessione, nelle abitazioni e nemmeno nelle situazioni familiari. Gli insegnanti sanno bene che non tutti gli studenti si connettono alle lezioni e che alcuni lo fanno solo in audio e non in video.

Prima di trarre conclusioni affrettate, però, conviene fare alcune considerazioni: qualcuno sta davvero facendo il furbo, si connette per fare presenza, poi toglie il video e gioca con la consolle portatile o continua a dormire, ma altri provano un senso di vergogna, sono a disagio nel mostrarsi in video ai compagni, ritengono che la loro casa sia impresentabile, temono imbarazzanti intrusioni di genitori e fratellini, altri ancora non riescono e basta, perché avere davanti una persona che guarda negli occhi e richiama all’attenzione non è come stare davanti a uno schermo con uno che a sua volta fissa uno schermo.

Insegnare oggi, a distanza, chiede di tenere conto di tutte queste possibili interferenze. Siamo in qualche modo anche costretti a tornare al cuore della scuola, che temporaneamente smaterializzata come istituto ha bisogno di restare come istituzione, preziosissima istituzione: la scuola per un giovane è innanzitutto rapporto, rapporto con i pari e rapporto con adulti che lo mettono al lavoro mettendosi a loro volta al lavoro. C’è una reciprocità che non va persa a distanza. E come tutti gli incontri, la scuola è innanzitutto fatta di appuntamenti. Mai come in questi tempi ce n’è bisogno. Appuntamento significa che qualcuno mi invita, che io aderisco, mi preparo per esserci e quando ci sono contribuisco in prima persona. La prima urgenza oggi è garantire che la scuola accada e che con essa la giornata sia scandita da appuntamenti cui essere convocati, capaci di sollecitare il pensiero e mettere in moto il soggetto. Non possiamo solo preoccuparci della didattica e dei famigerati programmi che peraltro non esistono più da almeno dieci anni, è veramente il tempo del rapporto. Per questo la scuola a distanza non è assegnare compiti o mandare video preregistrati, è innanzitutto esserci. Esserci perché i ragazzi continuino a imparare, in un percorso dove sono accompagnati in una dinamica di impegno e responsabilità condivise.

Non possiamo permetterci di lasciare dei giovani indietro, dobbiamo cercare soprattutto chi si perde e non risponde. Oggi personalizzare l’insegnamento significa anche andare a cercarli, ascoltarli, identificare i punti di difficoltà personali e familiari, esercitare la creatività per trovare le condizioni più favorevoli perché tornino a darsi scuola e apprendimento. Moltissimi insegnanti si stanno già muovendo così, non per generosità o eroismo, ma in quanto professionisti che tengono al loro lavoro e alla riuscita dei propri studenti. A loro vada tutto il nostro riconoscimento, che tendiamo così a lesinare in tempi normali. Anch’essi, però, non devono essere lasciati soli. Professionalità e passione per potersi esprimere al pieno hanno bisogno di idee e strumenti adeguati alle mutate condizioni. Torneranno di vantaggio anche a medio termine, quando per ripensare una nuova normalità dovremo necessariamente riconsiderare che cosa abbiamo imparato nell’emergenza.

da qui

 

La scuola non è sacrificabile – Lucia Tozzi

La scuola è stata la prima a chiudere per il Covid-19. Nelle prime regioni colpite il provvedimento è arrivato in due giorni. Bar, ristoranti, luoghi culturali, eventi, negozi, uffici, località turistiche hanno avuto più di due settimane di tregua, dalle conseguenze tragiche, alimentata da enfatici appelli alla resistenza in nome della produttività e del consumo e alla sdrammatizzazione del rischio. Fabbriche e cantieri sono andati avanti ancora più a lungo, e molte aziende (fino al cinquanta per cento) non hanno mai chiuso, comprese quelle di armi, nonostante il pesantissimo regime di clausura e distanziamento fisico imposto alla popolazione.

La prospettiva è incerta, perché i dati e le informazioni che dovrebbero dimostrare l’efficacia o meno di determinate politiche in diversi paesi sono inaffidabili, sospetti. Ma appare sempre più probabile che la diffusione del contagio continui molto più a lungo di quanto sia lontanamente sostenibile mantenere un regime di chiusura così severo. Anche paesi più solidi dell’Italia non riescono a elaborare risposte chiare sull’assetto futuro delle misure di contenimento, ma qui in particolare sta prendendo forma la spinta ad allentare il più presto possibile i vincoli che bloccano produzione, commercio e turismo (e quindi le persone che li fanno girare), e a tenere stretta la morsa sul resto della popolazione. Le persone potranno – o dovranno – progressivamente muoversi non in funzione del ripristino delle libertà e dei diritti fondamentali, ma solo in funzione del contributo che sarà loro richiesto di dare all’economia, in veste di lavoratori o consumatori. In particolare la scuola, ferma dal 22 febbraio in Lombardia e progressivamente nel resto d’Italia, sembra pacificamente destinata a essere l’ultima a riaprire. Il principale argomento a favore di questa chiusura è la didattica a distanza, attivata velocemente a tutti i livelli ed equiparata in toto alla scuola, intesa come luogo fisico.

DISEGUAGLIANZA PROGRAMMATA
Chiunque insegni, abbia figli o abbia chiesto a docenti e studenti si rende conto che, nonostante gli ammirevoli sforzi compiuti dalla grande maggioranza delle persone coinvolte – insegnanti, studenti e genitori – l’e-learning non può essere considerato altro che una soluzione di pura emergenza, e non è accettabile prolungarlo oltre l’estate, a meno che la letalità del virus non costringa a tenere chiuse anche tutte le altre attività. E questo non perché in casi circoscritti non possa dare buoni risultati, ma perché produce diseguaglianza. La scuola pubblica italiana, nonostante tutti i suoi problemi e i tagli pluridecennali, ha tuttora la funzione di costruire e fornire pari opportunità per tutti gli studenti. Senza alcun bisogno di ricorrere ai discutibili risultati dei test Invalsi, sappiamo che da anni le diseguaglianze nella scuola, tra ricchi e poveri, tra famiglie presenti e assenti, tra studenti del nord e del sud, dei centri urbani e delle periferie, continuano ad aumentare. Ma la didattica a distanza non fa che peggiorare la situazione, perché è strutturalmente inadeguata a colmarle. E non solo, come si vuole far credere, a causa del digital divide. L’Istat rileva che un terzo degli studenti italiani non possiede computer, ma la gara di social washing tra aziende, associazioni e politici che regalano device non arginerà l’esclusione vissuta dai bambini o ragazzi che abitano in case affollate, con famiglie che non sono in grado di supportarli, o che hanno problemi di attenzione, di iperattività, di qualunque altro tipo. L’abisso tra questi studenti e quelli con madri, padri, nonni dedicati, insegnanti privati assoldati per supplire con lezioni di musica, matematica, inglese, latino online e offline, si approfondisce ogni settimana, e ha dei costi sociali enormi. Gli insegnanti, anche i più ottimisti e volenterosi, sono sottoposti a uno sforzo che non trova conforto nei risultati: la relazione umana diretta con una classe è irriproducibile su una piattaforma spesso anche difettosa, e l’inevitabile presenza, occulta o manifesta, dei genitori è inibitoria e poco dignitosa per chi lavora.

SCUOLE E CONTAGIO
L’altro grande argomento a favore della chiusura a oltranza delle scuole è la presunta impossibilità di imporre distanze di sicurezza ai bambini, il che si tradurrebbe in una diffusione molto più rapida del contagio rispetto agli altri spazi chiusi popolati da soli adulti. Ma ci sono molte evidenze che contraddicono questa ipotesi: «Deve essere chiara una cosa – afferma Ernesto Burgio, uno dei medici che si è espresso in maniera più chiara sul tema – essendo un virus respiratorio, il novanta per cento dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali». E anche tutti gli altri spazi al chiuso densamente popolati, come palestre, piscine, negozi, bar, ristoranti, centri commerciali, supermercati, luoghi dello spettacolo, musei, località turistiche, mezzi di trasporto collettivo, fiere ed eventi. Mascherine, sanificazioni e distanziamento sono palliativi per la condivisione, soprattutto prolungata, di ambienti chiusi. E chiudere solo le scuole nelle prime due settimane in Lombardia non è servito a molto, con il resto che continuava ad andare.

Con la differenza che, stando ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, il segmento di popolazione sotto i cinquant’anni corre un rischio molto più basso di contrarre il virus in maniera grave (in tutta Italia 178 su 14.860 decessi al 6 aprile), e in particolare i bambini risultano estremamente resistenti in tutte le statistiche mondiali. Il professore Russel Viner dell’istituto pediatrico dell’University College London spiega che «la chiusura delle scuole è efficace nei casi in cui il virus è caratterizzato da bassa trasmissibilità e da alti tassi di infezione tra i bambini: esattamente l’opposto del Covid-19. Abbiamo dati limitati sull’effetto della chiusura delle scuole sull’epidemia, ma da quello che sappiamo il suo impatto è presumibilmente piccolo rispetto ad altre misure come l’isolamento dei casi positivi e ha senso solo se associato ad altre misure di contenimento». La riapertura delle scuole avrebbe quindi un impatto più leggero sul servizio sanitario rispetto alla riapertura di strutture commerciali o produttive, a una condizione fondamentale: che dal contagio scolastico vengano protette le fasce di popolazione fragile, vale a dire che il personale scolastico sopra i cinquant’anni, o con problemi di salute, venga sostituito da supplenti per qualche mese, e che i bambini vengano isolati dai nonni.

PIANIFICAZIONE NECESSARIA
Quello che in altri paesi con un welfare pubblico più solido e meno appoggiato sulla solidarietà familiare sembra un discorso razionale, su cui eventualmente dibattere per valutarne i pro e i contro, in Italia assume una sfumatura irreale e tragica: separare i nipoti dai nonni è un tabù, anche se si tratta di salvare la vita della fascia più a rischio. Non solo le istituzioni, ma persino molti genitori preferiscono separare i bambini dagli altri bambini, privarli della socialità, piuttosto che dividerli dai nonni. Nella comparazione tra costi e benefici, la compromissione della salute mentale di bambini e ragazzi privati di una socialità minima e spinti a vivere sempre di più qualunque rapporto con l’esterno attraverso i device, vale meno dell’irreale pretesa di mantenersi completamente sterili dal contagio. Eppure sono molti gli studi scientifici che attestano la sproporzione tra i vantaggi di un lockdown prolungato e i danni e rischi che produce su bambini e adolescenti, oltre che sugli adulti.

È un assurdo ripiegamento nella sfera ristretta familiare che si spiega in parte con l’ossessione per la sicurezza, penetrata a fondo in ogni meandro del tessuto sociale e culturale di questo paese, ben oltre le sfere che alimentano il successo leghista. Ma la cieca adesione a delle regole basilari, riassumibili in slogan emozionali, è anche la conseguenza di anni e anni di denigrazione e distruzione della critica. Se a Milano i più accaniti persecutori dei runner e dei bambini a passeggio sono gli stessi che pochi giorni prima avevano gridato entusiasti #milanonsiferma, quelli che oggi accettano con la più passiva rassegnazione (o addirittura sostengono) la necessità di tenere le scuole chiuse per mesi, o anche anni se il vaccino tarda a comparire, sono quelli che più sbraitavano fino a poco fa sull’inefficienza e “scarsa competitività” della scuola pubblica italiana, spesso senza alcun rispetto per il lavoro e i risultati spesso sorprendenti ottenuti da una delle classi di insegnanti più malpagata e vessata a livello mondiale.

In altri paesi le scuole si preparano a riaprire: Taiwan, Norvegia, Giappone, Danimarca, Francia, persino in Cina. In altri si comincia almeno a discutere seriamente dell’argomento, e si costruiscono strategie per minimizzare il rischio al rientro: turni ridotti e differiti, eliminazione della ricreazione e dei momenti di assembramento, supplenze extra per sostituire il personale più a rischio, ottimizzazione nell’uso dello spazio nelle aule in rapporto al numero di studenti, sanificazioni. Sono misure che richiedono moltissima organizzazione e devono essere finanziate.

È quello che dovremmo fare anche noi, perché se si rimandano discussione e pianificazione il rischio è che non ci saranno le condizioni per riaprire neanche a settembre. Il momento di affrontare la questione è ora, per difendere il diritto allo studio sancito dalla Costituzione, e assicurare a chi ne è escluso quell’elemento democratico fondamentale che è l’accesso a uno spazio comune, lo spazio di un’aula “in carne e ossa”.

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La didattica on line accentua gli aspetti classisti della scuola – Giuseppe Caliceti

Occorre prendere atto del fatto che la scuola on line accentua gli aspetti classisti che hanno ammorbato la nostra scuola pubblica negli ultimi decenni, cioè ben prima che arrivasse l’epidemia. Non solo perché la scuola on line non arriva a tutti – si calcola siano più del 6 per cento del totale gli studenti isolati, esclusi. Ma anche perché, spesso e volentieri, tende a riproporre gli aspetti più regressivi, sorpassati e deleteri dell’educazione e della formazione: i compiti, l’interrogazione a tu per tu studente-professore, l’insegnamento frontale. Cioè quello che serve a salvare la forma e la burocrazia (i voti) di fronte alle famiglie degli utenti. Il famoso pezzo di carta.

È probabile che la didattica on line, nei suoi step di ricerca più avanzati, si coniughi con una didattica e una teoria pedagogica spettacolari. Purtroppo non accade così, oggi, in Italia. E non accadrà neppure se, disgraziatamente, anche il prossimo anno scolastico i docenti e gli studenti si troveranno costretti a continuare solo con la scuola a distanza. Forse si riuscirebbero solo a evitare le classi pollaio: dove le proteste di migliaia di famiglie e docenti non sono mai arrivate, riuscirà ad arrivare il virus.

Benchmarking deleterio

Ma sarebbe importante se, come già chiesto da più parti nei mesi scorsi, il sistema di Scuole in Chiaro, dove compaiono anche i dati delle prove Invalsi ed il RAV, cambi. Insieme a tutto il sistema di valutazione. Perché non è un aiuto per le famiglie, ma la forma più perversa e deleteria di benchmarking.

Questo momento così particolare può far ripensare a tutta la gestione del Sistema Nazionale di Valutazione. O può, al contrario, grazie proprio alla cosiddetta didattica on line e a questa pedagogia di guerra, rendere il mondo della scuola un luogo dove, ancora di più, si accentueranno l’esclusione sociale, culturale e pedagogica. Con un ricatto che, sottilmente, viene fatto a docenti, famiglie degli studenti, sindacati. Un ricatto molto semplice in tempi di crisi: «O così, o niente. Sempre meglio di niente».

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La scuola dei corpi e quella degli schermi – Giuseppe Bagni, Giuseppe Buondono

Come per tutti i beni comuni, anche l’importanza della scuola viene riscoperta in momenti difficili come questo; per il suo essere tessuto connettivo tra i giovani e tra le generazioni, legame sociale ed esistenziale. Molte famiglie hanno saputo di più della scuola dei loro figli, con le lezioni online che entrano nelle case, rispetto a mille colloqui o alle malinconiche riunioni degli organi collegiali.

E quel tenere vivo il legame con la scuola è un balsamo per ansia e solitudine. Non per tutti, purtroppo; e questo è un punto decisivo per il futuro. La forza empatica delle lezioni dal vivo, corpi, fiati, gesti, sorrisi, suggerimenti è una ricchezza insostituibile, ovviamente. La scuola non è la stessa senza il suo «corpo a corpo» quotidiano; ma strumentazioni, competenze, facilità di accesso (a cominciare da wifi e fibra ottica per tutti gli angoli del Paese), sono necessari non certo per sostituire (come qualcuno forse vorrebbe) ma per arricchire la didattica, integrarla; o anche perché, di fronte a nuove emergenze, come per le mascherine ai medici, non si spenga la luce della scuola e non si debba sempre ricominciare da capo.

Ma sia chiaro: questa è un’emergenza, la scuola è un’altra cosa. Anche per questo ci sembra saggio non riprodurre dinamiche di valutazione che andrebbero cambiate in circostanze normali, figuriamoci adesso. È un tema importante oggi, lo sarà ancor più domani, quando non dovremo ragionare solo degli strumenti, ma di una pedagogia inedita prima dell’era digitale; quando si cercherà di capire come cambia davvero il modo di imparare e di pensare, non solo di comunicare; come governarla nel senso della libertà e dell’eguaglianza.

Forse questa vicenda tragica ha fatto emergere quanto la scuola e l’insegnamento siano relazioni complesse, che non si rinnovano solo con gli strumenti tecnologici, ma a partire dall’umanità concreta dei giovani e dei bambini, delle giovani e delle bambine. Le loro fragilità e ricchezza viva sono il nucleo di ogni relazione educativa. Oggi la battaglia decisiva si gioca negli ospedali; e l’ammirazione per medici e infermieri, come errori, fragilità e ingiustizie devono diventare un programma per il poi. Ma – in una forma meno tragica – davanti ai computer di casa, nelle classi virtuali, si gioca un’altra battaglia decisiva.

È cominciata già coi provvedimenti restrittivi (perché adolescenti e giovani erano, naturalmente ma pericolosamente, i più riottosi alla distanza e alla rinuncia), e ora abbiamo milioni di adolescenti e bambini tra quattro mura – e fino a quando? – che più di tutti soffrono questa situazione. Fare scuola, anche se virtualmente, significa tantissimo: impegnare il tempo insieme, socializzare le proprie paure e farci i conti, scrivere e leggere, tenere vivo il lumicino della scuola in una normalità stravolta; percepire il futuro e desiderarlo, assai più di prima, e non essere schiacciati dal presente da incubo. Una comunità formativa, se non è questo, in questo momento, a cosa serve?

Ma in casa, ora, si sperimenta anche un rovesciamento possibile: la dimensione digitale come strumento di legame con la realtà che sta fuori, non solo bolla virtuale. Ciò che spesso isola i ragazzi dai rapporti reali, oggi li tiene vivi, li fa discutere con gli insegnanti anche di ospedali pubblici, di tasse che vanno pagate, di solidarietà verso i più deboli. Dare un senso allo stare in casa non è la stessa battaglia delle corsie d’ospedale, certo, ma ci aiuta ad essere uniti e consapevoli.

La scuola lo fa sempre, ma oggi lo scoprono in molti e lo capiscono meglio anche tanti ragazzi. Non, dunque, fare dell’emergenza la norma, ma al contrario, cogliere ciò che oggi ci manca e farne una priorità della democrazia, senza mediazioni. De Cristofaro, sottosegretario all’Istruzione, ha scritto: «Ognuno di noi può contare moltissimo nel mettere le basi per il mondo che verrà…Più democrazia o autoritarismo. Oggi li vedo possibili entrambi…Sta a noi, anche in condizioni di forzato isolamento, spingere affinché lo sbocco sia uno e non l’altro».

Bene. La scuola della Costituzione da questa esperienza deve saper trovare la spinta per tornare ad essere centrale nella coscienza non dei soli docenti. E, come per la sanità pubblica e l’importanza dello Stato, bisognerà saper trasformare l’esperienza in coscienza civile e averne memoria.

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A distanza: valutare se, valutare cosa&come, valutare perché – Emanuela Bandini

Ammettiamolo, siamo tutti in crisi.

È in crisi chi, come se nulla fosse cambiato, si domanda come poter garantire la “validità” di interrogazioni e verifiche svolte attraverso lo schermo (“e se copiano?”, “e se in casa qualcuno suggerisce?”, “ah, io voglio che inquadrino la scrivania, per controllare che non abbiano libri e appunti!”); ma è in crisi soprattutto chi si domanda quale sia il senso della valutazione, di qualunque tipo di valutazione, nelle attuali condizioni (didattiche, certamente, ma soprattutto sociali, sanitarie, psicologiche, economiche di molte famiglie).

In mezzo al fiorire dei dubbi è stata emanata la Nota ministeriale del 17 marzo, che da più parti è stata letta come una spinta alla valutazione, definita come un «dovere» e una «competenza propria del profilo professionale» per il docente e «un diritto» per lo studente.

Partiamo da un semplice e banale punto fermo, che qualunque studente di giurisprudenza alle prese con l’esame di diritto amministrativo potrebbe confermare: poiché le attività didattiche (tutte le attività) in presenza sono sospese e l’attività didattica a distanza (DaD) nella scuola primaria e secondaria non è normata (e una Nota ministeriale è un atto di indirizzo, non legislativo), non lo è neppure la valutazione delle attività, ergo, nessuna valutazione assegnata in questo periodo è legittima (e considerarla tale esporrebbe a inevitabili, e vittoriosi, ricorsi).

Non lo è perché, innanzitutto, non esiste alcun obbligo di legge, per gli studenti, che vincoli alla frequenza delle attività di DaD – di conseguenza, è illogico che possa avere un qualunque peso la valutazione di un’attività non obbligatoria (non è un caso, infatti, che la valutazione dell’insegnamento opzionale di Religione cattolica non concorra alla media finale dello studente).

Non lo è perché non esiste, neppure per il docente, alcun obbligo a fornire la DaD, dal momento che essa non rientra tra le attività previste dalla funzione docente (non è un caso che, su questo tema, si siano pronunciate, con modi e toni diversi, anche le organizzazioni sindacali). Ce lo mostra, con grande evidenza, il fatto che nessuno di noi stia firmando, in queste settimane, il registro di classe. E, se non firmiamo il registro di classe, non stiamo operando nelle vesti di pubblico ufficiale: quindi, dal punto di vista meramente formale, qualunque cosa possiamo dire o fare, e qualunque cosa possano dire o fare gli studenti (non consegnare gli elaborati richiesti, non essere presenti alle lezioni in streaming – o presentarsi in canottiera e boxer, come qualcuno ha fatto), non stiamo facendo scuola, ma stiamo amabilmente chiacchierando al bar o al parco. Tutte le altre questioni su cui noi docenti ci stiamo accapigliando in questi giorni, anche nelle riunioni convocate in streaming (“Ma voti in rosso o in blu?” “Ma fa media o non fa media?”), sono, di conseguenza, inutili elucubrazioni.

Inoltre, se anche esistesse una qualsiasi pezza normativa a giustificazione della validità formale della DaD e di tutto ciò che ne consegue, la mia coscienza di insegnante e di cittadina mi spinge a pensare che la valutazione effettuata in queste condizioni non possa essere valida semplicemente perché la partecipazione o meno alle attività della DaD, oltre che non obbligatoria per gli studenti, è influenzata dallo status quo di ciascuno di loro (possesso di device e necessaria strumentazione hardware e software, connettività, adeguati spazi abitativi e per lo studio individuale): questo confligge chiaramente con il supremo dettato costituzionale del diritto all’istruzione (Art. 34), soprattutto per quanto riguarda la scuola dell’obbligo – e di fronte a ciò, credo, qualunque altra considerazione è superflua.

Una volta chiarite le implicazioni sul piano formale e legislativo, di cui ciascun docente dovrebbe avere piena consapevolezza prima di agire, possiamo ragionare del piano educativo, che, in questa situazione, è quello che dovrebbe orientare ogni nostra azione, anche di tipo valutativo. E, in quest’ottica, sarà bene tenere a mente due punti fermi.

Il primo è il mai abbastanza lodato Articolo 33 della Costituzione, che garantisce la piena libertà d’insegnamento. Ancor più di quanto fossimo usi fare, è assolutamente necessario che ognuno di noi stabilisca hic et nunc, in piena libertà e coscienza professionale (“con disciplina e onore”, Art. 54 della Costituzione), che cosa sia opportuno per sostenere i propri studenti, e agisca di conseguenza: qualunque strumento, qualunque mezzo, qualunque strategia possono essere validi per mantenere aperto il dialogo educativo, aiutarli a conservare un ombra di normalità, dare uno scopo a giornate diventate lunghissime, sostenerli nella solitudine, spronarli a ad usare la mente, a “non perdere il filo”.

Il secondo punto fermo è la stessa Nota ministeriale del 17 marzo che descrive con chiarezza un tipo di valutazione eminentemente formativo: «la valutazione ha sempre anche un ruolo di valorizzazione, di indicazione di procedere con approfondimenti, con recuperi, consolidamenti, ricerche, in una ottica di personalizzazione che responsabilizza gli allievi a maggior ragione in una situazione come questa. [La valutazione è] elemento indispensabile di verifica dell’attività svolta, di restituzione, di chiarimento, di individuazione delle eventuali lacune, all’interno dei criteri stabiliti da ogni autonomia scolastica, ma assicurando la necessaria flessibilità». Dunque, valutazione come feedback e come sostegno al lavoro autonomo dello studente, e valutazione il più possibile flessibile, così da potersi adattare a una situazione nuova, straordinaria ed imprevista, non certo come strumento di verifica dell’acquisizione dei contenuti e delle competenze programmati ad inizio anno scolastico.

In questa prospettiva – a mio avviso – perde anche qualunque senso l’eventuale recupero delle insufficienze del primo periodo, non solo perché si tratta di una valutazione chiaramente sommativa, ma anche perché, a rigor di norma, le modalità dei recuperi erano state già deliberate dai consigli di classe, e il loro svolgimento in qualunque altra forma romperebbe tale delibera, diventando di conseguenza illegittimo; non solo: non può essere approvata una nuova delibera in merito perché, secondo la normativa vigente, gli organi collegiali che non siano convocati in presenza non hanno alcun potere deliberante.

Dunque, sgombrato il campo dalle (lunghe ma necessarie) questioni e riflessioni preliminari, possiamo chiederci ma allora, cosa posso/voglio/devo/ritengo opportuno valutare?, ed è ovvio che a una domanda del genere si può rispondere solo dopo aver considerato con attenzione quali attività predisporre e perché, quali obiettivi formativi ed educativi ci proponiamo per la nostra DaD*.

Cosa voglio portare a casa, dopo settimane – se non mesi – di sospensione?, mi sono chiesta a lungo. E mi sono risposta così: voglio che i miei alunni non dimentichino cosa voglia dire fare scuola e lavorare con serietà; voglio che non dimentichino cosa significhi il lavoro in classe; voglio che non perdano quanto acquisito finora, ma che lo consolidino; voglio che abbiano la possibilità di recuperare le proprie lacune; voglio che acquisiscano i minimi necessari (in termini di conoscenze e competenze) che ci consentiranno di lavorare in modo dignitoso nel prossimo anno scolastico, senza una continua rincorsa a “quello che non è stato fatto”.

Innanzitutto, ho riflettuto sul fatto che, in modalità DaD, gli studenti lavorano per moltissimo tempo da soli, alle prese con libri di testo e materiali forniti dai docenti, che devono affrontare, spesso, senza previa spiegazione, in una quasi continua flipped classroom (e infatti sta emergendo con forza l’inadeguatezza all’uso autonomo da parte degli studenti di alcuni manuali, anche prestigiosi). Quindi, mi è sembrato necessario pormi come obiettivo, soprattutto nelle classi del biennio, il miglioramento e il consolidamento del metodo di studio: così, ogni blocco di pagine da studiare sul manuale, abitualmente accompagnato da altri materiali, è sempre corredato da una scheda operativa, da delle linee-guida allo studio in cui richiedo schematizzazioni, mappe, cronologie, sintesi, definizioni, ragionamenti sui rapporti di causa-effetto, microricerche e così via. Ovviamente, questo tipo di lavoro è difficilmente copiabile dal maremagnum del web, e, una volta corretto, fornisce un ottimo attivatore per la successiva lezione in streaming: quali informazioni devo inserire in una cronologia? perché questa serie di informazioni non è coerente? quali informazioni essenziali mancano in questa mappa? perché, invece, questa è chiara e completa?. Attività di questo genere consentono anche di attivare abilità trasversali di metacognizione e di comprensione e produzione di testi non letterari, oltre che di migliorare la digital literacy (dall’uso di software dedicati, ad esempio, alla creazione di mappe concettuali, allo sfruttamento delle potenzialità di un normale foglio di word, con la costruzione di elenchi e tabelle).

In secondo luogo, ho bisogno di mantenere vivo lo spirito del gruppo classe: per questo, cerco di evitare lunghe spiegazioni frontali in streaming, preferendo mettere a disposizione materiali vari, anche autoprodotti (apprezzatissime, a quanto pare, le artigianalissime videolezioni in cui parlo sulla presentazione – in ppt, Prezi o altro – di un argomento), dedicando invece lo spazio delle mie lezioni (che si è ridotto, per decisione collegiale, del 50%) alla discussione e al confronto; ho anche introdotto bacheche virtuali come Padlet o Netboard, in cui gli studenti possano inserire riflessioni e commenti liberi sull’argomento che stiamo trattando o sui testi assegnati in lettura, in una sorta di brainstorming a distanza che poi ripercorreremo, insieme, quando saremmo tutti connessi. Non rinuncio neppure al momento collettivo e fondamentale della lettura, analisi e commento dei testi letterari: con qualche correttivo (aver già letto i testi in prosa e aver già recuperato – sul manuale o sul web – la parafrasi di quelli poetici) e un’applicazione che consente di evidenziare, sottolineare e annotare i pdf, posso mostrare in streaming lo schermo del mio pc e procedere (quasi) come al solito, con interventi, domande e riflessioni, appuntandoli via via.

Tertium, la selezione dei contenuti: quali sono davvero necessari per poter “andare avanti” garantendo ai miei studenti le conoscenze imprescindibili? Quindi, sto operando con grandi tagli alle informazioni secondarie e al nozionismo (non conosceranno tutte le fasi della guerra del Peloponneso o le opere latine di Petrarca e Boccaccio? Pazienza) e presto maggiore attenzione del solito ai processi di lunga durata e ai concetti-chiave necessari per comprendere autori, testi e periodi storici, anche in prospettiva futura. Tutto questo, da verificare con rapidi test a risposta multipla in modalità telematica, offerti da alcune risorse online dei libri di testo o realizzati su piattaforme didattiche (che spesso hanno anche il vantaggio di essere autocorrettivi).

Quarto: il consolidamento delle abilità trasversali, in primo luogo quelle del parlato e della scrittura. Sto ancora riflettendo su come lavorare sulle abilità orali, ma di certo non inseguirò il fantasma delle interrogazioni tradizionali (nella riprogrammazione che ho steso per le mie classi mi sono rifiutata di usare il termine e ho preferito “colloqui”); probabilmente chiederò delle presentazioni orali con vincoli stringenti su tempi e contenuti, come già faccio talvolta in classe (ad esempio, il commento ad un testo poetico, o la presentazione di un personaggio o di un contesto storico). Molto più semplice, invece, lavorare sulla produzione scritta (dopo una bella infarinatura generale sulle regole basilari della videoscrittura), evitando ovviamente di assegnare testi troppo lunghi (faticosi da correggere a schermo), insistendo sui fondamentali (riassunto e parafrasi su tutti) e aprendo anche a tipologie alternative (riflessione libera, commento ad un articolo, testo personale descrittivo, narrativo o poetico), che possano però dare modo ai ragazzi di esprimersi – un bisogno che in questo contesto manifestano con grande urgenza. So bene, infatti, che è sempre possibile valutare adeguatezza del contenuto, coerenza, coesione e correttezza di un testo, qualunque esso sia, e, lavorando su file (inviati via email o in condivisione in piattaforma), è possibile registrare e rendere visibili allo studente tutti gli interventi di correzione e inserire eventuali commenti.

Per ognuno dei lavori che man mano vengono assegnati, corretti e riconsegnati (un lavoro massacrante, lo sappiamo bene) sto registrando, in una tabella, la puntualità nella consegna, il rispetto delle indicazioni date, la completezza e l’adeguatezza delle informazioni. Assegnerò un voto numerico a tutto questo? Me lo sto ancora chiedendo, dal momento che quello che sto facendo è già, di per sé, valutazione formativa e non necessita di altre operazioni matematiche; forse sì, magari a blocchi di tre o quattro lavori, ma solo perché so quanto lo studente medio abbia uno spasmodico bisogno di numeri, anche se personalmente non amo l’idea di mettere un voto solo per rispondere alle ansie valutative di alunni (e genitori).

E, a proposito di questo, vorrei chiudere con un’ultima riflessione: per la prima e probabilmente unica volta nella mia carriera di insegnante ho la possibilità di far davvero comprendere ai miei studenti quanto studiare, leggere, riflettere, pensare, imparare, possa essere bello e gratificante in sé e per sé, senza ansie da prestazione e da voto. E non ho nessuna intenzione di lasciarmela sfuggire**.

*Doverosa precisazione: ho la fortuna di lavorare in un contesto socioeconomico privilegiato, per cui la stragrande maggioranza dei miei studenti è in grado, seppur in modi diversi, di seguire le attività proposte. La mia piena solidarietà e il mio pieno sostegno ai colleghi che lavorano con studenti in condizioni di svantaggio e fragilità, per i quali – lo so – si stanno inventando tutto il possibile.

**Per questo, ho attivato una serie di attività informali e “clandestine” su cui, magari, vi ragguaglierò un’altra volta.

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DIDATTICA A DISTANZA: CONTRADDIZIONI DI UN MODELLO CLASSISTA – Davide Tedeschi, Riccardo Beschi

Dal 5 marzo in tutta Italia è stata sospesa l’attività didattica in presenza per far fronte all’emergenza Covid-19. La disposizione, attiva inizialmente fino a domenica 15/03/20, è stata poi prolungata, e ad oggi, non si hanno notizie circa un eventuale prolungamento fino alla fine dell’anno scolastico, che sembra inevitabile date le sempre più restrittive misure di distanziamento sociale che si stanno attuando nell’ultimo periodo. Ci preme tuttavia sottolineare che alcuni settori produttivi non essenziali, come i settori della difesa, dell’aerospazio o della telecomunicazione pubblicitaria, siano tuttora attivi in barba ad ogni diritto alla salute dei lavoratori coinvolti. Delegando le questioni relative alla chiusura di filiere non produttive ad altri testi, ci interessa raccontare qui la nostra esperienza come professori (precari) in scuole superiori della provincia Romana.

La fantomatica didattica a distanza messa in atto dai professori di tutte le scuole di ogni ordine e grado sta infatti mostrando tutte le contraddizioni del modello di istruzione che il sistema socio-economico in cui viviamo ci impone.

Le politiche attuate negli anni verso una federalizzazione degli istituti scolastici comportano un’autonomia organizzativa che si riflette nell’esistenza di scuole di serie A, serie B e finanche serie C. Mentre alcuni istituti scolastici possono permettersi abbonamenti a piattaforme in grado di fornire una didattica soddisfacente, l’assenza di strumenti digitali impedisce ai professori di altri istituti di pensare a una didattica a distanza, figurarsi attuarla. Questa è già una prima grande contraddizione in cui scuole storiche in grandi città, le scuole di serie A, possono almeno sperimentare una didattica a distanza, mentre scuole periferiche, difficilmente riescono a fornire gli strumenti necessari anche unicamente a raggiungere gli studenti. Ma se questo è un problema ed una contraddizione insita del sistema scolastico, il problema più grande riguarda le condizioni sociali degli studenti stessi. Dati Istat del 2018/2019 mostrano che circa il 14% delle famiglie con un minore non ha a casa né un PC, né un tablet e che al contrario solo un quinto delle famiglie ha a disposizione almeno un dispositivo PC/tablet per ogni elemento del nucleo famigliare [1]. A questa mancanza si aggiunge il fatto che il 35% delle famiglie con minori hanno accesso alla rete internet solo in modalità mobile [2]. Questo tipo di connessione è legato a una copertura non omogenea sul territorio nazionale e ha subito un calo delle prestazioni dovuto al sovraccarico delle infrastrutture di rete in questo periodo complicato [3], creando quindi delle vere e proprie barriere. Questi dati fanno capire come esiste un problema reale di accesso effettivo ai contenuti della didattica a distanza.

Difatti, non è stato difficile per noi incontrare, in queste settimane di lavoro a distanza:

  1. studenti che non erano coperti da rete internet, perciò impossibilitati a seguire la didattica se non con l’utilizzo della rete cellulare;
  2. studenti il cui nucleo familiare possiede un solo computer ma con famiglia composta da più fratelli in età scolastica o universitaria, implicando una non completa autonomia nel seguire la didattica a distanza;
  3. studenti assenti e poco interessati alla didattica che non possono essere seguiti dagli insegnanti e non vengono seguiti o sollecitati da genitori assenti per svariati motivi, tra cui sicuramente c’è la scarsa tutela nei confronti di genitori lavoratori. I voucher baby-sitter non sono sicuramente una tutela sufficiente.
  4. questi mezzi sono sicuramente meno fruibili per studenti con bisogni educativi speciali, ad esempio gli studenti che riscontrano DSA.

In un contesto come quello attuale con tutte le barriere materiali legate spesso a questioni di tipo sociale, viene chiesto ai docenti di valutare gli studenti mediante i mezzi della didattica a distanza. Uno dei principali punti che si deve porre un insegnate e l’istituzione scolastica è quella di abbattere qualsiasi barriera tra gli studenti in maniera tale che quest’ultimi possano esprimere le proprie potenzialità senza alcuna discriminazione. Ci chiediamo dunque quale possa essere il senso della valutazione in un contesto in cui non è garantita a tutti l’accesso agli insegnamenti.

In conclusione, la nostra esperienza come professori durante la didattica a distanza ci insegna che non tutti hanno gli stessi mezzi, le stesse opportunità, gli stessi stimoli. “Che ci ostiniamo a curare chi ha già le medicine in casa e sa in che ospedale andare, mentre qualcuno non sa neppure di essere malato.” Di fatti tutte le condizioni di classe stanno venendo allo scoperto durante questa pandemia e il suo stato emergenziale, non per l’ultimo la condizione degli studenti di serie B, figli del proletariato, il cui diritto allo studio viene leso. Per questo come professori che hanno a cuore il ruolo sociale che ricoprono, chiediamo al governo una piattaforma online nazionale gestita dallo Stato, di occuparsi di fornire il supporto tecnico necessario per scuole e studenti e soprattutto garantire al rientro dall’emergenza modalità di supporto per permettere agli studenti di rimettersi in pari, e inoltre chiediamo che non vengano valutati i nostri studenti dato che per quanto detto prima, la valutazione sarebbe assolutamente arbitraria e discriminatoria nei confronti di chi ha mezzi insufficienti.

Cogliamo infine l’occasione per fare un appello ai nostri colleghi affinché in questo contesto di emergenza l’obbiettivo primario sia quello, attraverso il proprio impegno e sforzo lavorativo, di rendere queste lezioni telematiche il più possibilmente accessibili. A delle lezioni Live magari fruibili solo da alcuni studenti, che hanno a disposizione i mezzi necessari (internet e PC), affiancare lezioni registrate in maniera tale che gli studenti con minori possibilità abbiano modo di poter accedere quando possibile a quegli insegnamenti. È fondamentale che i docenti capiscano che giocano un ruolo determinante per far sì che questi strumenti non siano discriminatori verso gli alunni con minori possibilità spesso legate a fattori economici. Perché anche noi docenti giochiamo un ruolo all’ interno di un modello di istruzione sempre più di classe ed elitario.

[1] https://www.istat.it/it/archivio/240949

[2] https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Secondo%20Rapporto%20Auditel%20Censis.pdf

[3] https://www.repubblica.it/tecnologia/2020/03/20/news/internet_rallenta-251777168/

da qui

 

Brodo di DAD. Appunti per non farsi bollire a scuola durante e dopo l’emergenza coronavirus – Rete Bessa

Didattica A Distanza per ogni palato! Linea «Brodo Superiore». Sul Medio e l’Elementare c’è lo sconto, cercali su Google!

1. Distopia

«Ora come ben saprà ci sono le restrizioni, tutto bloccato, non ci possiamo fare niente!»
Quest’anno ho fatto solo supplenze intermittenti, un paio di mesi di seguito al massimo e tanti giorni sparsi. Ma da tre giorni ci sono le restrizioni. Con la chiusura delle scuole, niente più chiamate di presa in carico, niente stipendio, unica via l’indennità di disoccupazione. Ma servono gli ultimi contratti, appunto, e i rispettivi pagamenti. Che mancano.
«Non le sono arrivati gli stipendi di dicembre?»
Con quattro mesi di ritardo, sì. Come spesso, come a tant*. Sono andati a coprire il debito dei mesi precedenti. Ma poi cosa c’entra? Il punto è che devo chiedere la disoccupazione.
«Poi, insomma, lei è solo una MAD!»
MAD, Messe A Disposizione, ossia il personale docente convocato una volta che si è esaurita la graduatoria. Ti chiamano perché hai lasciato il curriculum nel posto giusto al momento giusto. Chi è convocato in questo modo rappresenta l’ultimo anello della precarietà nella scuola. Per questo motivo MAD è sinonimo di
 mesi passati a coprire malattie e permessi, di colleghe di ruolo che si aggrappano alla speranza di un* supplente, che progettano il lavoro in classe sulla sicurezza della tua presenza, di organizzazione del personale scolastico che galleggia scientemente sulla disponibilità costante di docenti precari*… Mi decido a prendere parola:
«La avviso che se non mi consegnate i miei contratti prenderò provvedimenti: sindacati, avvocati, diffide, messe in mora….»
«Signorina… Se le va bene ci vediamo alla Coop? Così firma i contratti e glieli consegno.»
Eccoci lì, sul muretto vicino al supermercato, tra mascherine e guanti, a fianco di una coda con carrello.

L’odio.

Non tanto nei confronti di colleghe o colleghi decisamente non affini con cui devi per forza collaborare, o di quella parte del personale scolastico che si permette di trattarti come una pezza da piedi arrivando a farti firmare il contratto alla Coop.

L’odio pulsante contro il sistema scuola, i suoi non-detti e le sue gerarchie.

Sono più di vent’anni che la scuola è in emergenza, con buchi clamorosi nel personale, con discorsi e riforme aziendaliste e ora lo schifo viene a galla. Come nella sanità, ma quella è un’altra storia… o forse no?

Ma lasciamo da parte i dubbi: #lascuolanonsiferma è andata dicendo la Ministra Azzolina, mentre qualcun* alla lotteria dei contratti ha beccato quello sbagliato e di fatto è stat* costrett* a fermarsi. E a restare a casa.

Queste assenze ovviamente pesano su chi le subisce, ma hanno l’effetto di indebolire tutta la scuola: dal resto del personale scolastico, che si trova ad avere una persona in meno su cui contare, a studentesse e studenti che con quella persona lasciata a casa avevano costruito un rapporto. È in questo contesto che si innesta l’emergenza che stiamo vivendo.

Per questo, ci siamo talmente concentrat* sulle forme di didattica online, sugli strumenti, sulle piattaforme, che rischiamo di dimenticarci delle persone, dei corpi materiali che permettono di costruire relazioni, senza i quali la didattica è impossibile, anche quando non è a distanza.

In realtà la fregatura è chiara. «Non riusciamo a portare avanti un milione di domande cartacee», ha dichiarato la ministra affermando, con suo sommo dispiacere, che quest’anno non saranno aggiornate le graduatorie, ossia le liste sulla base delle quali i/le docenti precari* trovano lavoro nella scuola. Secondo il governo, dunque, sono necessari strumenti tecnologici per reggere ogni giorno lezioni a distanza per 8,3 milioni di student*, con tanto di video, slide, immagini, ma un portale in cui ricevere dei file pdf è inimmaginabile.

L’odio.

2. Fideismo tecnologico

Sono un docente ingenuo, non so come fare DAD, didattica a distanza. Vado sul sito del ministero dell’istruzione e vedo il link: «Didattica a distanza». Clicco. Ci sono due menù: il primo è «Esperienze per la didattica a distanza», l’altro «piattaforme».

Sotto questo secondo punto sono elencate tre piattaforme: Google, Microsoft, Amazon. Tre enti privati tra i più potenti al mondo schiaffati in bella mostra. Per capire cosa questo voglia dire occorre fare un passo indietro nel ragionamento.

Nel suo intervento al parlamento la ministra dell’Istruzione ha stanziato un investimento di 85 milioni di euro per rendere possibile la didattica a distanza su tutto il territorio italiano. Dell’intera somma, solo 5 milioni sono stati dedicati alla formazione del personale. È l’unica misura economica prevista dal primo intervento della ministra. Esplicitando: prima gli strumenti e poi la garanzia economica di chi fino al giorno prima della chiusura aveva contratti precari. Il fatto che la scuola non debba gravare ulteriormente sullo Stato è dapprima implicito e poi confermato nel decreto del 6 aprile (articolo 8).

Nessun problema: in fondo le piattaforme per la didattica online suggerite dallo Stato sono ad uso gratuito e l’utilizzo, per esempio, di servizi Google è già diffuso; moltissim* insegnanti, infatti, al momento della presa di servizio sono obbligat* ad attivare l’account istituzionale su Gmail. Ma in questo momento l’accelerazione è evidente: molt* insegnanti

1) hanno usato le chat del cellulare per rientrare in contatto con le loro classi, utilizzando in molti casi l’account Google registrato sul loro dispositivo;

2) utilizzano Google Meet per svolgere attività sincrone come le videolezioni;

3) utilizzano Google Classroom per lo scambio di materiali; infine,

4) hanno partecipato ad attività succedanee a Consigli di Classe e Collegi Docenti su piattaforme Google.

Già i registri elettronici sono gestiti da enti privati e sono massicciamente utilizzati (perché obbligatori dal 2012), ma trascurare la forte ingerenza da parte di enti privati in un’istituzione pubblica è molto rischioso. E il fatto che ciò stia avvenendo in maniera acritica – tranne rare eccezioni – produrrà mostri.

Il silenzio acritico che accompagna questo ingresso “molecolare” del privato nella scuola pubblica è allarmante per diversi motivi. Innanzitutto il fatto che queste piattaforme siano il luogo in cui molti istituti prendono decisioni collegiali in teoria non legittime, ma pronte a diventarlo in funzione di deroghe o decisioni future. In questo modo, le major sono oggi essenziali per il funzionamento della governance scolastica.

In secondo luogo, c’è la questione della cosiddetta “privacy”, rispetto alla quale le discussioni e i contenuti delle circolari sono indietro di una ventina d’anni. Viene quasi da dire: «Scusi, ma ha mai sentito parlare di Cambridge Analytica?»

Dobbiamo cominciare a dire che pensare la privacy esclusivamente da un punto di vista individuale oggi è fortemente limitante. Il problema principale non è solo il contenuto del singolo messaggio, ma il fatto che i flussi di dati che mettiamo a disposizione rivelano le nostre abitudini, i nostri gusti, le nostre necessità a chi poi non farà altro che monetizzarli e sfruttarli per i propri interessi.

Il problema non è (solo) che il Grande Fratello ti punisce se non la pensi come lui, ma che usa i tuoi dati per capire come guadagnare su di te. Da questo punto di vista Google e Microsoft sono tutt’altro che trasparenti, tanto che dove Google è già stato ampiamente testato il dibattito è piuttosto feroce, mentre in alcuni paesi gli strumenti Google sono stati banditi dalla scuola.

«Prof, perché non usiamo Meet? È più facile!»

La questione è enorme dato che non ci sono, attualmente, piattaforme free in grado di garantire servizi altrettanto funzionanti ed efficienti, per una massa così spropositata di utenti. Tuttavia possiamo condurre alcune forme di resistenza che nessun Collegio Docenti, nessuna circolare, nessun dirigente, al momento ha il potere di negare.

Durante la trasmissione Ora di buco su Radio Onda Rossa, un professore intervistato ha chiarito molto bene i rischi dell’uso acritico delle «piattaforme tossiche», suggerendo possibili alternative. Inoltre, il dibattito su Giap in calce al post sul degoogling offre molti spunti. Ne suggeriamo alcuni:

■ Su Ethical.net si trovano numerosissimi software con standard etici decisamente più elevati rispetto a Google;

Clicca per partecipare all’inchiesta «Scuola in emergenza», prodotta dalla Rete Bessa in collaborazione con un gruppo di ricercatrici e ricercatori nell’ambito del progetto Ricerca Sociale in Emergenza.

■ I software Framasoft – con cui abbiamo prodotto l’inchiesta «Scuola in emergenza» – sono più che validi;

■ Greenlight è un software opensource utile per creare “room” e convididere videolezioni.

■ Ricordatevi che potete usare Android senza ricorrere a Google.

3. Aiutiamoli a casa loro (1)

Rispetto agli studenti e alle studentesse più deboli, la ministra ha suggerito l’uso di piattaforme dal sito del Miur ma, come abbiamo detto, senza relazioni quelle piattaforme sono inutili. Per il resto la ministra ha fornito vaghe indicazioni sul non lasciare indietro nessuno, ma senza stanziare le risorse necessarie: il personale di sostegno non è stato aumentato, i corsi di italiano per stranieri – forse con la sola eccezione dei CPIA (Centri per l’Istruzione Adulti), in cui i corsi L2 hanno un peso importante – si sono interrotti, educatrici ed educatori vivono nell’inferno della relazione con la loro cooperativa. I soggetti con maggiori necessità, cui la Costituzione stessa (articolo 3) riconosce il diritto di essere aiutati, sono lasciati nell’abbandono. Per cavartela ti deve andare bene.

Mattinata per me tragicomica è stata quella in cui provavo a far iscrivere un alunno con disabilità cognitive e non italofono alla piattaforma Google ClassRoom. Per guidarlo passo passo nella serie di azioni necessarie all’iscrizione, c’è stato bisogno di 5 dispositivi: il mio cellulare si connetteva col cellulare della madre per le istruzioni vocali, il cellulare del ragazzo riprendeva lo schermo del suo computer in modo che io lo guidassi passo passo nell’esecuzione dei compiti, il mio PC controllava se l’iscrizione era avvenuta. Era tutto un «A., inquadra lì, spingi quel tasto, inventa una password, segnala su un quaderno, no aspetta quella non va bene, aspetta, hai spinto il tasto “mute” non sento più niente…»

Questa situazione è in realtà una delle migliori: il ragazzo ha accanto a sé un genitore e un’insegnante che hanno la possibilità di dedicargli diverse ore. Ma basta poco perché la situazione diventi drammaticamente diversa.

Il fatto è che il problema è molto più profondo, anche in questo caso il sistema su cui stiamo impostando la didattica a distanza è già sbagliato di suo: quando parliamo di disabilità/difficoltà di apprendimento e DAD dovremmo riflettere sul fatto che l’inclusione non si realizza solo fornendo tablet e pc (cosa tra l’altro fondamentale), ma con un ripensamento globale del modo di fare scuola. Questo genere di riflessione, nella concitazione dell’emergenza, non è ancora avvenuta ma è evidentemente necessaria. In queste settimane ogni insegnante di sostegno si sta arrangiando come può, cercando con creatività e dedizione canali comunicativi per tenere tutti dentro. Bene la creatività, bene la dedizione, ma senza un intervento sistemico che coinvolga famiglie, servizi socio-sanitari, servizi educativi, l’inclusione con la DAD non sarà del tutto raggingibile e sarà, anzi, problematica in sé.

La situazione non è migliore per le persone da poco arrivate in Italia (NAI, nella neolingua ministeriale), per le quali il rischio di abbandono scolastico è sempre alto.

Un mio studente NAI – arrivato in Italia dal Pakistan in autunno – è scomparso. La cooperativa che dovrebbe occuparsi di lui non è stata ancora contattata. Colpa del docente coordinatore della classe? colpa della funzione strumentale per gli alunni stranieri? o forse colpa della burocrazia scolastica? Fatto sta che qualcosa sui NAI va detta: il loro processo di integrazione in passato è stato delegato perlopiù al gruppo classe, che ora non c’è più.

Anche in questo caso gli sforzi si moltiplicano: insegnanti di italiano si re-inventano insegnanti di italiano L2 e aumentano il loro carico orario, i contatti docente-studente si moltiplicano «purché non si perda quanto di buono fatto». Ma senza un’immersione nel contesto linguistico, la persona vive una difficoltà quasi insormontabile. La didattica a distanza diventa quindi di per sé escludente. Eppure viene svolta all’interno di una scuola che si dice, ancora e nonostante tutto, pubblica.

Ancora una volta questi casi sono i nodi irrisolti della scuola. Metterli al centro della progettazione didattica dovrebbe essere dovere di ogni docente, soprattutto in questo momento. Ma capita che la società in cui siamo immersi tuoni dall’altra parte degli schermi facendo sentire le sue ideologie.

Le famiglie con più possibilità, quelle abituate al computer e alla connessione senza limiti, rivendicano la propria frustrazione e il proprio egoismo. Capita che genitori zelanti tormentino l’insegnante che non usa Google Classroom e che non va avanti con il “programma”: «Mica ci possiamo sempre sacrificare per chi non ce la fa».

La paura, anche legittima, per i percorsi educativi de* propr* figl* elimina i freni inibitori e scatena la lotta per la sopravvivenza. I suoi semi sono stati sparsi in un contesto che per molti era considerato la «normalità». Ma criticare quanto sta avvenendo senza criticare l’idea di «normalità» è un errore decisivo.

4. Aiutiamoli a casa loro (2)

«Io ho già iniziato con le videolezioni. Le faccio tutte così in terza ci arrivano preparati.»
«Ma hai controllato che tutti avessero un computer?»
S. non aveva il computer. Se l’è procurato da sola, a inizio marzo, mentre il resto della classe faceva lezione. Ma il computer è vecchio e non riesce a connettersi. Gli ho scritto che ora la scuola li mette a disposizione.
«Sì, sì», mi ha risposto.
Non è più andata a prenderlo.

Quando la ministra Azzolina è intervenuta in Parlamento prevedendo lo stanziamento di 85 milioni di euro per la didattica a distanza – diventata non più opzionale col decreto del 6 aprile – questa forma di insegnamento era già stata avviata in buona parte d’Italia spesso su stimolo de* dirigenti, dell’opinione pubblica in generale o del voluminoso inserto del Sole 24 ore (particolarmente interessato alla scuola, in questo periodo). In alcuni casi, divers* insegnanti, magari dotat* delle migliori intenzioni, avevano ricominciato il programma dando una parvenza di continuità scolastica, del tutto illusoria. Il sistema che è nato da questa corsa è ricco di falle, dovute in parte all’enorme squilibrio nelle possibilità di accesso alle risorse.

Non stiamo necessariamente pensando alle famiglie meno abbienti. Facciamo un’ipotesi: una famiglia di ceto medio potrebbe avere due computer in casa, di cui uno serve per un genitore per la sua attività di smart working, l’altro è conteso da fratello e sorella. Chi avrà l’accesso al computer? L’accesso sarà sempre possibile?

Lezione del sabato mattina.
Prof: «G., puoi ripetere? Non ho capito cosa hai detto.»
G. (sussurrando): «Mi scusi, non posso alzare la voce, qui accanto c’è mio fratello che sta dormendo…»

Viviamo costantemente in casa con qualcun altro. Dopo più di un mese di isolamento è già un miracolo che la gente non si accoltelli (cosa che in realtà succede, anche se le istituzioni mantengono il silenzio a riguardo. Possiamo immaginare come deve essere rilassata la contesa del pc.

Molt* student* a questo punto ricorrono al cellulare.

«Ragazzi, le vedete le slide?»
«No prof, sta laggando un casino.» [Estratto da una videolezione]

Studenti e studentesse si ritrovano così a ricevere spiegazioni magari iperaccurate e qualitatativamente alte, da un black mirror di otto centimentri per quattro. E il problema poi non si limita a studenti e studentesse: gli insegnanti, com’è noto, non sono benestanti.

Una mia collega il 31 marzo ha avvisato sul registro che la lezione saltava perché aveva finito i giga a disposizione e quindi le lezioni ricominciavano ad aprile. [Estratto da un’assemblea Rete Bessa]

5. Emozioni e lavoro

Studenti e studentesse si collegano nelle loro camere, ascoltano o partecipano alle lezioni, mentre magari accanto passano loro i papà, le mamme , fratelli o sorelle.

Per bambine e bambini delle primarie questa condivisione è d’obbligo: deve esserci sempre una persona adulta anche come tutela da un uso improprio del mezzo e della rete. Una bambina di otto anni, oltre a essere separata dalla sua classe, cioè il contesto sociale in cui ha l’opportunità di sperimentare relazioni e autonomia, si ritrova così dipendente più che mai dagli adulti e sempre condizionata dalla loro presenza nell’apprendere e nel comunicare con il mondo.

Questa condivisione dello spazio privato non giova nemmeno a chi è più adult*, privat* di quell’indipendenza pur relativa di cui gode l’adolescente a scuola. Solo che il corpo docente ancora meno di prima riesce a comprendere cosa si muove in questo mondo.

Difficilissime da intercettare sono le nuove forme di bullismo – «prof qualcuno mi caccia dall’aula e non riesco a connettermi» – o di sessismo. Impossibile interpretare i nuovi silenzi che accompagnano le lezioni. Cosa vuol dire avviare questa forma di insegnamento è descritto molto bene sul blog di CattiveMaestre. Per chi insegna l’aula si smaterializza e moltiplica allo stesso momento in un insieme di cellette fatte di pixel attraverso le quali studenti e studentesse si osservano senza interagire. Molt* non vogliono farsi vedere e spengono le loro telecamere.

Uno di loro, timidissimo, non parla nemmeno: per comunicare usa la chat. Emerge insomma un problema grosso: quello del rapporto degli adolescenti con la loro immagine e con la loro voce. Rinchiusi nelle loro cellette i ragazzi sono più soli e più esposti. Non intervengono perché manca loro la forza del gruppo, tant’è che non fanno neanche quel casino che facevano in classe e che adesso viene quasi da rimpiangere.

In questo contesto la qualità dell’insegnamento è altamente discutibile e nessun registro in ordine può essere garanzia di un argomento effettivamente svolto, anche perché le persone si ritrovano a ricevere spiegazioni senza quella partecipazione collettiva che sempre accompagna, aiuta, fortifica la crescita degli individui.

È didattica questa? Posto che di certo non possiamo rispondere convintamente di sì, una risposta univoca non c’è. Perché per rispondere a questa domanda sarebbe necessario chiedersi se fosse didattica quella di prima, quando una classe corrispondeva a decine di problematiche differenti che difficilmente potevano essere affrontate con gli strumenti a disposizione.

«Stanotte non ho dormito pensando alle videolezioni» [Tipico messaggio ansiogeno da didattica a distanza]

La soluzione però non è non far nulla, ma muovere da posizioni di buon senso. Per esempio, ricordiamoci di tenere a bada il nostro senso di frustrazione: se non otteniamo i feedback che ci auspichiamo è perché non esistono le condizioni minime perché ciò possa accadere.

Evitiamo di rispondere a questa frustrazione dicendo «I’ll work harder», come il cavallo Boxer in Animal Farm: rispondere ai messaggi e mandare mail a ogni ora, essere sempre a disposizione e in generale aumentare la nostra produttività a dismisura non è la soluzione, ma è la base di nuovi problemi.

La Ministra ha chiesto un aumento degli sforzi del corpo docente. È il messaggio perfetto per un esponente di un governo turbo liberista in perfetta linea coi governi precedenti, ma questo metodo non è salubre, né per noi, né per studentesse e studenti che apprendono un metodo di lavoro folle.

Ciò non vuol dire girarsi dall’altra parte o pretendere che tutto sia come prima. Invece di buttare in avanti il programma rallentiamo, invece che dare chili di pagine da leggere cerchiamo materiali che creino i collegamenti tra quanto si studia e quanto sta avvenendo.

Di certo, non facciamo finta che la situazione sia normale. Anche perché da questo punto di vista «non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema».

6. Valutare e punire

«Un buon docente sa progettare verifiche a prova di copiatura o quasi, anche a distanza. E in questo momento è importante premiare chi si impegna e punire chi non si impegna, perché anche i ragazzi devono assumersi le proprie responsabilità nei confronti del paese.»
Da una riunione tra docenti online.

La proposta che dopo una buona elaborazione collettiva ci sentiamo di esplicitare è questa: da qui alla fine dell’anno basta dare voti.

Lo abbiamo scritto in un comunicato da poco pubblicato: da un po’ di tempo la scuola si è infilata in un vicolo cieco ideologico che fa della valutazione il suo perno. Diamoci una svegliata e ricordiamoci che la valutazione non è il fine della didattica.

«Non so come valutare gli errori di ortografia per quelli che scrivono al computer. E poi come fare a impedire che copino?» [Estratto da una chat tra insegnanti]

«Il prof di matematica ha deciso di filmarli durante le interrogazioni, in maniera tale che si capisca da che parte guardano mentre parlano.» [Estratto da una chat tra insegnanti]

Che valutazioni pretendiamo di dare? Con che criterio?

Le studentesse e gli studenti che dovremmo giudicare sono chius* a casa, ricevono lezioni spesso problematiche per via della connessione, per via dell’umore dell’insegnante, per via dello stress cui tutt* siamo sottopost*. E, ancora una volta, questa è la migliore delle ipotesi, perché in molti casi la persona da valutare è pigiata in casa con persone che – dopo un mese di isolamento – mal sopporta, assiste alle lezioni dal cellulare e magari sfrutta i giga del proprio abbonamento perché non ha connessione wifi illimitata.

«Io i voti li sto dando. Altrimenti i miei studenti non so come ripigliarli.» [Da una discussione durante un’assemblea della Rete Bessa]

Il fatto che la valutazione possa essere lo strumento ricattatorio cui ricorriamo per mantenere viva l’attenzione di studentesse e studenti dovrebbe metterci in allarme. Vuol dire che anche chi si ritiene immune o critico rispetto ai dogmi della scuola neoliberale in realtà non è immune e che per salvarci serve scavare a fondo negli orrori dell’attuale sistema. Ora più che mai serve rovesciare la logica cui siamo abituati e cogliere l’occasione per ripensare ai nostri metodi dentro e oltre questa emergenza. Come far tornare ad essere soggetti le studentesse e gli studenti? Come promuovere le loro qualità? Come permettere loro di superare la difficoltà? Come valorizzare il lavoro di gruppo?

Rifacendoci alla ministra e alla sua conferenza stampa del 6 aprile: non è vetusto il 6 politico, è vetusto – perché è legato alla società neoliberale che vorremmo relegare al passato – pensare che il processo educativo debba essere inserito in una logica pseudo-meritocratica che prescinde dall’ambiente educativo e di apprendimento, dove gli standard sono stabiliti a priori e giocano su un sistema di competenze preconfezionate che comportano crediti o debiti.

7. Per un manuale di autodifesa

Quando ci si interfaccia con l’ufficialità, siamo pienamente dentro la distopia.

Da un mese arrivano le comunicazioni dal preside che ha pensato bene di dare istruzioni come «step uno», «step due», «step tre» e che non posso evitare di leggere iniziando con «Italianiiiii» e una vocina un po’ nasale e pimpante:

«Stiamo vivendo una “emergenza nazionale” che cambia non solo i modi e i tempi dell’insegnamento ma anche i profili dell’Istituzione Scolastica, la configurazione del docente e le attese degli stakeholders. La locuzione “successo formativo”, ai “tempi del coronavirus”, diviene dunque sinonimo di
– implementazione dell’interesse
– implementazione della partecipazione
– implementazione dell’impegno
– espressione di responsabilità e senso civico
Vi chiedo pertanto di esprimere il massimo grado di flessibilità possibile in questa fase emergenziale … flessibilità che non si traduce unicamente nel “fare lezione in un momento e in un luogo diverso” ma nella capacità di dare un significato diverso alle pratiche ordinarie. Continuate dunque su questa direttrice. […] sarà mia premura capitalizzare il vostro impegno e valorizzare, con i fondi del bonus premiale, il vostro operato. Entro il fine settimana, sentito l’animatore digitale, vi trasmetterò le nuove linee guida per la didattica a distanza da praticare nella prossima settimana […] continuate dunque a restare connessi ….»

In un contesto in cui l’emergenza è affrontata a botte di DPCM che bypassano il Parlamento, la struttura delle scuole diventa quanto mai verticista. A volte il decisionismo della dirigenza può sembrare più efficiente nel affrontare l’emergenza, ma queste situazioni sono del tutto circostritte e instabili.

Il o la dirigente, forte di un’autorevolezza riconosciuta loro dalla riforma Renzi, si può trasformare in un despota che tenta di imporre misure e modalità. Anche qui CattiveMaestre lo spiega bene. Per come si è strutturata la scuola tale autorevolezza funziona persino in negativo, ossia nei casi in cui la dirigenza che non fornisce alcuna indicazione, lasciando mano libera all’auto-organizzazione del corpo docente.

In teoria, quest’ultimo aspetto potrebbe essere anche positivo, ma calando questo principio nella realtà di una società inquinata da decenni di discorsi feroci, colleghe e colleghi rischiano al contempo di tramutarsi nei peggiori nemici: sei di sostegno? Non hai diritto di parola. Sei supplente? Lascia parlare chi è di ruolo. Sei giovane? Che ne vuoi sapere!

Nell’attesa che qualcuno produca un manuale di autodifesa dall’apocalisse ci permettiamo alcuni consigli immediati:

■ le circolari non sono, in nessun modo, fonti di diritto;

■ la legittimità delle prese di posizione della dirigenza in questo contesto è ampiamente discutibile;

■ la legittimità di collegi tenuti online e delle decisioni prese in quelle “sedi” è altrettanto discutibile;

■ colleghi e colleghe stronzi possono serenamente essere mandati a quel paese, si dice addirittura faccia bene alla salute;

■ teniamoci stretta la libertà di insegnamento.

«Non è il momento di fare polemiche.»

Fra le tante cavolate lette nelle chat di docenti dell’ultimo mese e mezzo, questa frase è poco presente. È un buon segnale.

È proprio questo il momento di far polemica. Pochi giorni fa, l’ex primo ministro di un governo che non è stato colpito da asteroide – nonostante i migliori auspici – ha dichiarato in una trasmissione televisiva che la didattica online è una delle cose positive che ci porteremo a casa da questa emergenza.

E verosimilmente sarà così. Anzi, come abbiamo già scritto in un testo che ci è servito come base per scrivere questo articolo, è già così.

Per come si sta impostando, il sistema emergenziale attivato prevede una moltiplicazione del lavoro, un indebolimento di chi è già più debole, un controllo maggiore dall’alto, una frammentazione dei corpi collettivi che ostacola i percorsi educativi e favorisce l’individualismo. Bisogna impedire che questa forma emergenziale diventi stabile, come successo per altre emergenze.

Al contempo la riflessione puntuale sulla didattica a distanza deve andare di pari passo con una riflessione sul quadro in cui le difficoltà attuali si innestano: come per la sanità, anche la scuola ha bisogno di un corposo rifinanziamento se non vogliamo che l’intero sistema affondi, come per la sanità la questione della precarietà va affrontata tramite la stabilizzazione del personale, e i “soggetti a rischio”, ossia gli studenti e le studentesse che hanno bisogno del personale di sostegno e dei corsi di italiano L2, devono essere salvaguardati attraverso l’iniezione di strumenti e personale. Qualunque forma di didattica, online o meno, qualunque scuola del futuro deve ripartire da qui.

Gli anticorpi contro questa distopia vanno sviluppati subito.

By any means necessary.

* La Rete Bessa è un collettivo di insegnanti, educatrici ed educatori nato alla fine del 2019 a Bologna, più precisamente negli ambienti della ex-Caserma Sani, lo stabile occupato da XM24 dopo lo sgombero della sede storica di via Fioravanti.

La chiusura delle scuole e lo scenario che si è aperto negli ultimi mesi hanno spinto la Rete a interrogarsi sui cambiamenti che stanno avvenendo. Uno degli strumenti utilizzati è questa inchiesta, prodotta insieme nell’ambito del progetto Ricerca Sociale in Emergenza, in cui ci si interroga su molti dei temi trattati anche in questo articolo.

Il nome BESSA è frutto di un gioco di parole. È l’invenzione della forma femminile di BES, acronimo che nel gergo burocratico della scuola si attribuisce a persone con «bisogni educativi speciali». Il sistema scolastico è innamorato degli acronimi. Bessa è anche una parola del dialetto bolognese, significa «biscia». La bessa è un canto di lotta delle mondine della bassa bolognese che esalta lo sciopero a oltranza e dice: meglio ridursi a mangiare bisce che stare con i crumiri.

Il blog della Rete Bessa è qui.

da qui

 

Decalogo con lode sulla didattica a distanza – Rete Bessa

L’emergenza CoronaVirus non ha risparmiato il mondo della scuola. In particolare, è emerso il tema della didattica a distanza che il Ministero e il dibattito mainstream hanno dipinto come soluzione alle difficoltà di questo momento.

Se è evidente che la tecnologia consente di mantenere un contatto con gli studenti quanto mai necessario, l’accelerazione acritica del dibattito e dei provvedimenti di questi giorni è preoccupante. Sappiamo bene che durante qualunque emergenza vengono spesso adottate misure e innovazioni che sono poi destinate a rimanere nella quotidianità lavorativa e sociale, senza che ci sia stato nemmeno il tempo di vagliare le diverse opzioni in campo, né di discutere i provvedimenti. Ma proprio perché siamo in questa situazione, proprio perché l’emergenza non sarà breve e  perché i provvedimenti continueranno a influire sul nostro lavoro anche quando tutto sarà finito, occorre discuterne attentamente.

Anzitutto, un dato politico spiccio: in maniera analoga al campo della sanità – fatti i dovuti distinguo – anche nella scuola la deregulation, il taglio delle risorse, l’autonomia, il decentramento degli ultimi 30 anni hanno determinato una situazione estremamente disomogenea. Ciascun istituto, a seconda delle condizioni del proprio territorio e delle risorse a disposizione, ha reagito a suo modo componendo un quadro di radicale frammentazione che investe sia la didattica (ogni scuola, ogni classe, addirittura ogni docente ha fatto per sé), sia la situazione contrattuale (rispetto alla quale abbiamo già scritto qui ).

Partendo da un’autoinchiesta sulle nostre modalità didattiche in questo periodo di emergenza, ci siamo confrontati sulla vastissima frammentarietà dello scenario che abbiamo davanti e su alcuni discorsi che lo caratterizzano. Abbiamo individuato alcuni nodi critici rispetto ai quali non abbiamo soluzioni, ma su cui riteniamo necessario un confronto per mantenere la barra dritta, dentro e nonostante l’emergenza. Ne è venuto fuori un decalogo, cui crediamo possa essere riconosciuta una lode piuttosto inquietante.

  1. L’accesso alle risorse.

La tecnologia non annulla le condizioni materiali in cui viviamo e le risorse cui possiamo accedere. Fin dai primi giorni di questa emergenza è stato evidente che non tutt@ (né nel corpo docente, né all’interno delle classi) avevano libero accesso alla connessione online: avere un computer è diverso da avere un cellulare, avere la connessione tutto il giorno è diverso da averla per poche ore, usare la linea di casa è diverso da utilizzare i dati di un abbonamento. Il problema va poi riportato ad una differenza tra le diverse aree del Paese, caratterizzato da forti divisioni al suo interno.

Queste problematiche non sono relative solo alle classi, ma allo stesso corpo docente: la persona costretta a casa spesso deve condividere il computer con i vari conviventi. Non dimentichiamoci a questo proposito che chi svolge il lavoro domestico, e quindi quasi sempre le donne, viene costretto a ritagliarsi delle pause per svolgere la didattica a distanza, rendendo la sovrapposizione degli ambienti casa-lavoro ancora più faticosa da gestire.

Senza un ragionamento sulle possibilità di accesso alle risorse siamo inevitabilmente destinati ad aumentare le disuguaglianze che già esistono, tanto a scuola come nel resto della società.

  1. La lingua

Al telefono, via Skype o in qualche piattaforma che consente le conference l’audio non è dei migliori. La linea si interrompe, le frasi a volte sono a scatti. Non sarebbe un problema così rilevante, se non fosse per il fatto che una buona fetta della popolazione scolastica non è di madrelingua italiana. Sono gli esami di lingua straniera più complessa che prevedono un suono disturbato, proprio perché apprendere la lingua in questo modo richiede una notevole competenza. Un discorso simile vale anche per i compiti scritti, non sempre fruibili pienamente dagli studenti. Si aumentano così le difficoltà per chi già è costretto a far più fatica.

I corsi di italiano L2 spesso non sono stati riattivati dalle scuole durante l’emergenza. Questi corsi sarebbero la condizione necessaria per permettere agli studenti e alle studentesse neoarrivate di accedere alla didattica online, dato che questo canale  presuppone una conoscenza della lingua italiana che evidentemente non possono avere.

  1. Accessibilità

Le/gli alunn@ che hanno diritto alla presenza in classe di un* insegnante di sostegno si ritrovano a casa, da sol@ o a carico della famiglia, posti davanti alla novità dell’e-learning, attraverso uno schermo e nuove consegne.  Gli insegnanti di sostegno, chiamati al lavoro di mediazione tra l’alunn@, i docenti curricolari, i servizi e le famiglie si barcamenano come possono per garantire l’inclusione scolastica insegnando agli alunni in difficoltà e alle loro famiglie ad usare mille piattaforme diverse, la mail, le videochiamate su Whatsapp. La socialità, le relazioni, la didattica, le abitudini, campi nei quali in molti casi si manifestano le difficoltà della persona con difficoltà di apprendimento, devono così per forza passare da un unico nuovo e non malleabile strumento. Nel migliore dei casi il modo di utilizzarlo diventa il grande prerequisito da affrontare a distanza prima di poter giungere al contenuto, che comunque non sempre è facilmente adattabile alla disabilità in questione. Nello scenario peggiore, invece, questo strumento diventa solo un’ulteriore e invalicabile barriera che rende impossibile l’accesso ad una didattica on line, alimentando esclusione e senso di inadeguatezza.

  1. L’età

Si può chiedere ad una bambina di 6 anni di accedere alla sua lezione di italiano on line allo stesso modo con cui lo si chiede ad una ragazza di 16? Si può chiedere ad una docente di seconda elementare di preparare una lezione on line allo stesso modo con cui lo si chiede ad una professoressa di quinta superiore? Se la didattica on line non può mai dirsi sostitutiva di una didattica in presenza, questo diventa ancor più  evidente per le/i bambin* più piccol*. Da un lato mancano a* più piccol* le competenze per comprendere le istruzioni scritte e per utilizzare programmi informatici. Dall’altro manca al corpo docente la formazione su quali programmi utilizzare e quale materiale adeguato trovare in rete.

  1. Soggetti/oggetti

Tutti questi punti si intrecciano con un problema molto più radicato. Se l’alunna o l’alunno non hanno una  buona consapevolezza degli strumenti, la didattica online diventa uno strumento che rende passivo il soggetto, che così diventa solo un numero connesso. Formarsi e formare le persone per evitare che ciò accada è condizione necessaria affinché qualsiasi forma di didattica online sia possibile.

Inoltre, ciò che stiamo apprendendo in questo periodo è che la maggior parte delle persone “native digitali”, in realtà, non sa usare gli strumenti telematici in maniera appropriata. Spesso pure mandare mail o creare un account è un compito difficile.

Non diamo poi per scontato che la competenza del corpo docente sia maggiore. Dalle chat in cui ci troviamo sappiamo benissimo che le competenze diffuse non sono neanche lontanamente adeguate alla situazione in cui ci troviamo e si impiega molto tempo per apprendere il corretto funzionamento di registri e piattaforme.

È chiaro che in questa mancanza di competenza generale la governance diventa sempre più verticista: l’insegnante si impone sulla classe; la dirigenza si impone sul corpo docente a botte di circolari. Tanto tutto si fa di fretta, poi si vede.

Manteniamo il punto sulla necessità del confronto e della relazione, prima che sia troppo tardi.

  1. Le materie

È bellissimo avere una schermata che illustra le nostre classi, gli argomenti trattati, le risposte della classe ai compiti. Ma la scuola non può essere una dispensa in cui le diverse discipline sono inserite nell’apposito scompartimento. Non basta svolgere un compito, un’attività, per poter affermare di aver sviluppato una competenza. Il meccanismo dei crediti esce rafforzato da quest’emergenza, fornendo l’illusione che per procedere nell’insegnamento (e nell’apprendimento) basti spuntare una casella corrispondente alle attività svolte a distanza.

Il processo di apprendimento prevede un confronto tra le discipline e la capacità di sviluppare collegamenti e ha bisogno di un tempo non misurabile per maturare. Senza contare che nella forma didattica online diverse materie sono svantaggiate (musica, educazione fisica, le attività laboratoriali…) perché poggiano sulla compresenza fisica di più persone o sull’accesso a determinati strumenti di uso non comune. Queste discipline non sono isolate rispetto al resto del percorso, ma andrebbero integrate nel percorso scolastico complessivo.

  1. La relazione

Bisogna  dirlo in modo chiaro: l’attività scolastica passa necessariamente dalla relazione. L’empatia e le emozioni giocano un ruolo centrale e le forme della didattica online impongono filtri inaggirabili in questo ambito. Ciò non vuol dire che non sia possibile stabilire forme di relazione attraverso gli strumenti online. Attraverso chat, videolezioni, mail, persino attraverso i compiti e le loro correzioni possiamo avere relazioni, ma sono ancora meno trasparenti rispetto al solito. Con un basso livello di consapevolezza dell’uso degli strumenti, lo scambio che normalmente avviene nella didattica, già di per sé problematico e sfaccettato, è impossibile da raggiungere.

  1. La valutazione

“Non do valutazioni perché poi da casa copiano”, oppure “Se non mi mandano i compiti do valutazione negativa”: questa polarizzazione del discorso, molto frequente in questi giorni, è del tutto fuorviante. Prima di far danni dovremmo riflettere sul senso di dare valutazioni nel momento in cui le relazioni sono sospese nel limbo dell’emergenza. Occorre invece ripartire dalle base e ricordarsi che la scuola non è una fuga verso un numero che definisce chi sei e quali sono le tue capacità. E premiare le persone che studiano di più, è una forma di meritocrazia molto problematica in quanto isola le persone prescindendo dal contesto in cui sono inserite. Il rischio è di incoraggiare, una volta di più, una competitività dannosa che stabilisce chi sono i buoni e i cattivi, chi bisogna salvare, chi è perso.

Occorre rendersi conto che la valutazione così intesa, è diventato lo strumento con cui si  sostengono o condannano comportamenti in maniera del tutto aleatoria. Noi stess@, le scuole di cui facciamo parte, siamo costantemente sottopost@ a valutazione, a prescindere dalle condizioni in cui viviamo. In questo momento conviene fare diversi passi indietro: parliamo dei metodi, del rapporto educativo in sé, parliamo di come svolgere la didattica senza farci prendere dall’ansia di mettere un numero sul registro. Ciò che ci stiamo giocando va molto al di là della valutazione in sé.

  1. Privacy, tracciabilità, controllo

“Le piattaforme che usiamo rispettano la privacy”

Non è vero e nel mondo il problema comincia a diventare chiaro. Le app che usiamo nei nostri cellulari o che scarichiamo sui nostri portatili tracciano i nostri percorsi, richiedono accesso ai nostri dati, creano dei profili a scopo commerciale che dovremmo cercare di evitare il più possibile. Non è possibile non essere tracciat@ del tutto, e per certi versi è un problema che trascende la scuola, ma che a proporre acriticamente tali strumenti sia un’istituzione come la scuola è grave.

La questione del controllo, sempre maggiore, rispetto all’attività dell’insegnamento ora rischia di esplodere: il dubbio è lecito se leggiamo l’indagine avviata dal ministero sulla Didattica a distanza che si interroga sulle forme dell’insegnamento dell’emergenza, ex post, ossia senza che lo stesso Ministero abbia predisposto gli strumenti necessari.

A ciò si aggiungono dubbi del tutto materiali: da casa, lo studente o la studentessa possono sentirsi liberi di rispondere come meglio credono ad una domanda, anche se i genitori sono presenti? Chi insegna ha una situazione serena a casa per cui può permettersi di parlare di qualunque argomento? Si può parlare degli argomenti che trattiamo tranquillamente in classe senza l’intervento o l’ascolto di soggetti terzi che potrebbero seriamente limitare la libertà dell’insegnamento?

  1. Proprietà

È bello svegliarsi in un mondo in cui le grandi multinazionali assumono una modalità filantropica regalando strumenti e piattaforme senza nulla in cambio. Purtroppo non è così.

Non avviene da ora: sono anni che la scuola paga per avere registri elettronici su cui abbiamo pochissima voce in capitolo. Durante questa emergenza, tuttavia, sta avvenendo un passaggio significativo. La ministra Azzolina in persona ha suggerito l’utilizzo dei servizi Google come strumento valido per la didattica a distanza. E così su Classroom svolgiamo Collegi Docenti, su Drive inseriamo i materiali, su Meet facciamo videolezioni, ovviamente con account Google. Abbiamo così un privato che entra molecolarmente nella scuola, addirittura sponsorizzato dagli organi decisionali.

Bisogna ricordarsi che Google (così come Youtube e Whatsapp, altri strumenti massicciamente usati in questo periodo) non è una piattaforma libera ha tutto l’interesse a diventare insostituibile per estrarre la mole di nostri dati con lo scopo di ricavare profitto. Ci sono strumenti che non sono proprietà di enti privati, che non traggono profitto dalla profilazione dei nostri dati. È necessario tentare di utilizzarli il più possibile.

In questo periodo stiamo vedendo in modo chiaro qual è il problema della privatizzazione e della sanità pubblica. Dobbiamo dircelo chiaramente e dobbiamo farlo ora: dare in gestione un apparato dello Stato ad un privato è un problema serio.

10 e Lode.

Si lavora di più. Si lavora sempre.

Ciò che sta avvenendo con la didattica online, in realtà era già visibile da molto tempo in più settori: i lavori che svolgiamo stanno via via occupando sempre più tempo e non c’è alcun confine tra il lavoro e la vita.

Facciamo attenzione: non siamo un caso unico, al contrario. Buona parte delle attività lavorative prevede uno sforamento nella nostra vita privata, chi lavora come free lance conosce queste problematichesono da molti anni. Chiunque si prepara meglio, svolge corsi per migliorare la propria prestazione o per rimanere al passo. Chiunque viene chiamato a qualsiasi ora per chiarire un dubbio sul lavoro. Chiunque dedica tempo ad apprendere strumenti informatici. Questa cosa si chiama lavoro.

Il salto che sta avvenendo è l’istituzionalizzazione di questa modalità.

Le basi per questo cambiamento ci sono già, la didattica online è già stata sperimentata. Le scuole serali prevedono che si possa fruire a distanza della didattica di una parte del periodo scolastico in misura non superiore del 20% del totale (dpr 263/2012) con l’alibi della personalizzazione didattica e dello sviluppo di competenze digitali. Il risultato è (per lo meno secondo l’esperienza di molt@ insegnanti) che al docente è richiesto di erogare il 20% di didattica in piùcioè oltre le ore contrattuali per le quali veniva assunto e pagato.

Come avrete capito, 10 e lode non è poi un gran voto.

da qui

 

I rischi di affidarsi ai colossi della tecnologia per la didattica a distanza – Maurizio Mazzoneschi

Il lockdown deciso dal governo italiano e dalla maggior parte dei paesi più ricchi ha avuto tra le sue conseguenze anche un’accelerazione nell’uso delle tecnologie digitali. Scuole e università sono state costrette ad adottare la didattica a distanza per proseguire le lezioni, e in questa emergenza stanno venendo al pettine tutti i nodi di decenni di immobilismo.

Innanzi tutto va detto che gli insegnanti, ma anche gli studenti, e i genitori, si sono dovuti far carico di inventarsi “a distanza” un modo di procedere, perché poco o nulla era stato sperimentato prima. Avanzando in ordine sparso, molte scuole e università hanno semplicemente riprodotto in videochat quello che facevano in aula. Per mandare agli insegnanti i compiti da fare a casa, assegnati sul registro elettronico, sono stati usati vari sistemi, a volte l’email, a volte Google Drive, altre volte ancora usando piattaforme come Edmodo. Nel frattempo il ministero dell’istruzione (Miur) ha cominciato a dare indicazioni sulle piattaforme per la didattica a distanza da adottare: Google Suite, Office 365, Weschool, Amazon.

Possiamo immaginare che, non avendo idee, il ministero abbia scelto alcuni colossi della tecnologia sia per le garanzie di affidabilità che offrono sia perché le persone – insegnanti e studenti – sono già abituate a usare gli strumenti offerti da GoogleMicrosoft e Amazon. E così, anche nel campo della didattica, una funzione pubblica è stata fatta scivolare verso le aziende private. In questo panorama si è ridotta la libertà d’insegnamento così come la varietà di metodi didattici, ed è sparita completamente la questione della privacy, della raccolta e gestione dei dati, e il problema delle disuguaglianze.

Niente cooperazione
Gli aspetti dei processi educativi che riguardano le relazioni – un professore attento, un’insegnante che ci dice una parola in un momento particolare, un compagno che ci aiuta o ci ostacola – e che avvengono in aula o nei corridoi, sono stati sfrondati o addirittura eliminati dalla didattica a distanza, come se fossero un surplus. Ciò che conta è il contenuto e la valutazione quantitativa. Quindi si fa lezione attraverso le videochat e si assegnano i compiti inviando schede e test da compilare. Perdendo però il cuore della crescita di una persona, e dimenticando che il contesto e le relazioni non sono quantificabili.

Tutto questo è il risultato di una pressione in atto da anni nella scuola. Una pressione esercitata da chi ha provato a trasformarla in un luogo dove premiare solo la competenza e l’efficienza, come se l’unico obiettivo fosse quello di “addestrare” gli studenti a prepararsi e ad adattarsi a un mondo del lavoro in continua evoluzione.

Solo tenendo conto di questo contesto si può capire la scelta del Miur di affidarsi alle piattaforme dei colossi della tecnologia. Una scelta fatta senza considerare, tra l’altro, che queste aziende sono cresciute raccogliendo dati e metadati da rivendere o da usare per individuare gusti e orientamenti delle persone e manipolarli.

Il software libero offrirebbe maggiori garanzie a livello di sicurezza, gestione e miglioramento dei servizi

Gli strumenti che mettono a disposizione si basano su software proprietari, cioè chiusi e non modificabili, realizzati per un utente-consumatore, che compra (o fruisce di) una licenza per accedere a uno spazio “concesso” dall’azienda. Un modello gerarchico perfetto per la scuola delle competenze. Si è preferito questo approccio, invece di puntare su un modello che permetta di costruire modalità di apprendimento significative e collaborative, in spazi gestiti direttamente da scuole e università, usando Free/Libre open source software (F/Loss), cioè software liberi.

Il software libero offrirebbe maggiori garanzie a livello di sicurezza, gestione, manutenzione e miglioramento dei servizi. Se invece una piattaforma per la didattica a distanza si basa su un software proprietario ed è progettata in modo rigido – in un modo per esempio che non consente agli studenti di aggiungere contenuti, di scrivere a più mani sullo stesso file e di permettere la relazione tra loro – è evidente che renderà difficile una didattica cooperativa. L’unica possibilità è pagare per chiedere all’azienda proprietaria di modificarla, se si tratta di una realtà piccola. Se invece la piattaforma è rigida ma comunque si basa su un software libero, avendo le competenze sufficienti si può intervenire direttamente.

Federazione e aiuto tra pari
Scegliere di usare una piattaforma invece di un’altra condiziona anche il metodo didattico. E se una piattaforma è disegnata per un certo tipo di interazione tra le persone – collaborativa o gerarchica – sarà molto difficile modificarla per usarla diversamente da come è stata progettata. Molto banalmente, se non è previsto che gli studenti possano commentare un contenuto inserito dal docente, quell’attività didattica non si potrà fare. Si dirà: ma è una funzionalità che si può aggiungere. Purtroppo no, perché le piattaforme delle grandi aziende non sono piattaforme F/Loss. Non è possibile cioè installarle e modificarne liberamente interfaccia e funzionamento.

Per fortuna esistono delle piattaforme didattiche di questo tipo (MoodleIliasAda eccetera), che possono essere installate sui server di scuole e università, magari in maniera federata: cioè a livello locale, senza doversi per forza affidare ai server delle multinazionali. A differenza dei software proprietari, possono essere modificate e migliorate, questi miglioramenti possono (anzi devono) essere condivisi e resi disponibili a chiunque ne possa aver bisogno. Ovviamente tutto questo presuppone l’impegno di dirigenti scolastici e insegnanti. I dirigenti dovrebbero preferire piattaforme di questo tipo invece di sottoscrivere licenze d’uso per i software di aziende private (che finita l’offerta per la pandemia di covid-19 potrebbero tornare a pagamento, anche se colossi come Alphabet, la casa madre di Google, promettono il contrario). Adottare strumenti F/Loss ha anche altri aspetti positivi: invece di pagare multinazionali private, la didattica finanzierebbe la costruzione di infrastrutture digitali locali, controllate dalle persone che le usano.

Un’architettura basata su server locali federati e software liberi consentirebbe anche di adottare le giuste misure in situazioni di emergenza come quella di oggi. Per esempio, una scuola, che sa perfettamente quanti sono i suoi iscritti, sa anche di quanta rete ha bisogno per le sue videolezioni, e se capisce che ha un eccesso di risorse potrebbe offrirne agli istituti che ne hanno più bisogno. La federazione si basa sull’aiuto tra pari, non è una multinazionale che vende il suo prodotto.

Dati e privacy
L’Europa ha un regolamento per la protezione dei dati, il General data protection regulation (Gdpr), diventato operativo anche in Italia nel maggio 2018. Il suo obiettivo è rinforzare la tutela dei dati personali dei cittadini dell’Unione europea. Attenzione però: quasi tutte le piattaforme indicate dal Miur sono di proprietà di multinazionali statunitensi. È vero che hanno giurato e spergiurato di attenersi al nostro regolamento, alcune hanno firmato accordi di safe harbour (un porto sicuro, un approdo per i dati), ma forse sarebbe meglio non correre il rischio di interpretare male i termini di servizio o di assoggettarsi alle oscure trame a cui ci ha abituato Facebook (come nello scandalo della Cambridge Analytica).

Ma anche volendo credere alla buona fede e alla capacità effettiva delle multinazionali della tecnologia di tenere separati i dati europei da quelli degli altri, c’è un altro tema non meno importante, che riguarda in particolare Google.

L’azienda californiana ha messo la raccolta dei dati (e dei metadati) al centro delle proprie attività, investendo molto anche sull’intelligenza artificiale e sulla machine learning, il sistema che consente alle macchine di “imparare” attraverso l’interazione con le persone, immagazzinando informazioni sulle loro preferenze. In questa situazione di emergenza, Google è nella condizione di acquisire una quantità mostruosa di dati dei nostri studenti e degli insegnanti. Per non parlare dei contenuti prodotti dai docenti: una quantità e qualità di dati inedita nella storia delle tecnologie digitali.

Sfruttando i dati, le tecniche di machine learning e l’intelligenza artificiale, Google potrà offrire contenuti didattici prodotti automaticamente. Mentre per valutare (e stimolare) gli studenti si affiderà al metodo dell’addestramento tipico delle sue piattaforme: stelline, voti, like, premi in cambio di risposte rapide e facilmente misurabili; classifiche e livelli dove inquadrare ragazze e ragazzi.

L’educazione, però, è un’altra cosa. Richiede delle accortezze specifiche se si fa online (meglio evitare le chat di gruppi, stabilire delle regole di protezione per quelle video, ecc.), ha bisogno di pazienza, di creatività, di condivisione e di fiducia. Tutti poi devono avere la possibilità di raccontare le proprie esperienze e trarne delle lezioni. Le tecnologie possono aiutare a farlo, come insegna tra l’altro la pedagogia hacker.

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DI BOCCIATURE, VOTI E ALTRE AMENITÀ – Mauro Piras

Lo dico subito: questo è uno sfogo. Una reazione irritata a una serie di cose che abbiamo dovuto sentire in giro sulla scuola in queste settimane, nel pieno dell’emergenza. Una reazione ai luoghi comuni, alla pigrizia intellettuale, ai riflessi condizionati, o forse a una visione reazionaria della scuola talmente radicata nella cultura dell’italiano medio (del giornalista medio, del politico medio, dell’opinionista medio) che neanche ce ne rendiamo più conto. “È un 6 politico!”, “Se li promuoviamo tutti non c’è più serietà!”, “Così si deresponsabilizzano gli studenti!”, “Il lavoro dei docenti non ha più nessuna dignità!”, “Non ha più senso mettere i voti!”. Ecc. Tutto più o meno riassumibile nel sommo principio: “Signora mia, non c’è più la scuola di una volta!”. Cosa piuttosto commovente, a dire il vero, perché, a parte il caso ormai raro di qualche quasi ottuagenario brontolone, la maggior parte di questi spropositi viene pronunciata da gente come me, cinquantenni che hanno fatto la scuola degli anni ottanta, semisgangherata, che hanno fatto un esame di maturità superleggero, con due materie all’orale di cui una a scelta e l’altra pure, che non hanno mai vissuto sulla propria pelle un’emergenza di questo genere. Quindi quello che segue è un tentativo di tradurre in frasi leggibili la serie di contumelie e insulti che attraversano la mia mente quando leggo o sento quelle cose.

Primo, il “6 politico”. Che dire? Che non c’entra niente, che parlare di “6 politico” in questo contesto è solo sciatteria, approssimazione, pigrizia linguistica. L’espressione è venuta fuori appena si è iniziato a parlare di promuovere tutti. Intanto, promuovere tutti non vuol dire dare a tutti lo stesso voto, come vedremo dopo. Ma soprattutto, anche se questa promozione fosse una sorta di benedizione data a tutti gli studenti per chiudere quest’anno disastrato: ma che cosa c’entra il 6 politico? Il 6 politico è un’idea della contestazione studentesca, che aveva un chiaro significato politico (come dice appunto l’espressione): è l’idea che ogni valutazione è sbagliata, che va rifiutato qualsiasi voto, perché è classista e frutto del sistema sociale, cioè del dominio di classe; il voto serve solo a distinguere, secondo una borghese logica meritocratica che santifica i rapporti sociali esistenti. Quindi, l’unica è abolirlo. Ma non abolirlo e basta: abolirlo mettendo 6 a tutti, dando a tutti lo stesso ma il minimo. Niente bravi e scarsi. Niente primi e ultimi della classe.

Che cosa – c’entra – tutto – questo – con – l’emergenza – attuale? Niente. Lo ripeto: niente.

Promuovere tutti a causa di una emergenza che ha rischiato di far collassare il sistema scolastico italiano (che invece ha saputo reagire molto bene), o anche aiutare tutti a causa di questa emergenza non ha niente, ma proprio niente, di politico. È solo banale buon senso.

Se questa espressione serviva a dire che dobbiamo evitare di mettere tutti sullo stesso piano, usate un’altra espressione per favore (che so: “todos caballeros”). Ma fare questa osservazione è veramente fastidioso: infatti nessuno ha mai pensato di mettere tutti sullo stesso piano, e comunque, se ci mettiamo nelle condizioni degli studenti e di questa fine d’anno disastrata, bisogna anche pensare che vanno smussati gli angoli, che non possiamo impiccare tutti ai voti e alle gerarchie, già odiose. In ogni caso, anche quest’ultimo ragionamento, come quello sulle bocciature (su cui torno sotto) non ha veramente niente a che fare con il “6 politico” che, lo ripeto (mi vergogno di farlo), è un progetto “politico”, lo dice la parola.

E veniamo alla questione delle bocciature. Il governo ha annunciato che, a causa dell’emergenza, nessuno sarà bocciato: tutti promossi. Anzi, non il governo ma la ministra Azzolina: particolare non secondario. Perché la ministra è stata lasciata da sola in questa faccenda, nessuno dei suoi colleghi ministri, nessun Presidente del Consiglio si è fatto carico di sostenere e riprendere questa decisione, di richiamare all’ordine un’opinione pubblica scomposta che si è messa a sparare contro la ministra con ogni mezzo, calcando la mano su una persona più giovane, in apparenza più inesperta e, soprattutto, donna. Solidarietà totale alla ministra Azzolina, mi sia permesso di dirlo in questo sfogo in cui mi permetto di tutto.

Allora, le bocciature. All’annuncio del governo, e al decreto che lo ha confermato, si è scatenato il putiferio: “è una sanatoria”, “gli studenti non studieranno più”, “li stiamo deresponsabilizzando”, “il lavoro dei docenti così non ha nessuna dignità”. E così via. La cosa terribile, che fa perdere la lucidità, è che purtroppo alcune di queste cose, soprattutto le ultime, sono state dette anche da alcuni colleghi, da docenti che a quanto pare pensano che non sia possibile insegnare niente a nessuno senza lo spauracchio della bocciatura. Ma mordo il freno e cerco di mettere ordine nelle idee.

La bocciatura, cioè la ripetenza dell’intero anno, è molto controversa. Diversi studi affermano che è inutile e dannosa, perché non servirebbe davvero a recuperare gli apprendimenti e colpisce quasi sempre le classi sociali più deboli, oltre a essere un costo per le famiglie e per la società. Tuttavia, la cosa è controversa, appunto. Ci sono anche buone ragioni per difenderla: la necessità di seguire il ritmo di apprendimento delle persone, che non è uguale per tutti. Nella scuola democratica, se la bocciatura esiste, viene giustificata con un argomento del genere. Non ha più la funzione, che aveva una volta, di escludere dal sistema. Perché il sistema scolastico, se è democratico, è inclusivo.

Bene, in Italia la bocciatura esiste per queste ragioni. Deve quindi essere equa. Come può essere equa in queste condizioni? Come si può pensare di dire a un ragazzo: “beh, senti, qui il sistema scolastico è semi-collassato, noi da febbraio o marzo ti seguiamo alla meno peggio, però tu stai in campana: se eri insufficiente nel trimestre e se non recuperi studiando a casa in questa situazione improvvisata, noi ti bocciamo! O ti rimandiamo a settembre se ti va bene, dai. La scuola è una cosa seria! Se studi sarai promosso!”

Non riesco a trovare argomenti contro questa cosa perché mi sembra del tutto surreale. Ma il problema è che se anche la mia formulazione è caricaturale, il senso di chi vuole bocciare in queste condizioni è questo. Si dice cioè che se uno studia si vede anche in questa situazione, quindi chi non studia non può andare avanti.

Ma diciamola in modo più difendibile: si può dire, è stato detto, “c’è il problema di quelli che a settembre rientreranno in classe con gravi carenze, come facciamo a farli andare avanti?” È vero, c’è questo problema. Ma allora questa deve diventare una sfida: come tenere in classe studenti diversi con livelli diversi di apprendimento senza avere in mano questa arma di esclusione/selezione che si chiama bocciatura? È una sfida per la didattica, ma non è impossibile. Se solo imparassimo davvero a fare una didattica personalizzata, e non lasciassimo questa cosa unicamente alle Indicazioni ministeriali.

Insomma, bocciare è iniquo perché la scuola non può dare quello che deve, e quindi non si può chiedere agli studenti di dare esattamente quello che devono. Il patto formativo si è infranto per cause esterne, e va riformulato. Togliere la bocciatura, ma mantenere dei sistemi di valutazione e di recupero è il modo corretto di riformularlo, perché si evita l’effetto “todos caballeros”.

Poi ci sono quelli che hanno detto: certo, si sapeva che non avremmo potuto bocciare, ma non andava detto subito, andava detto all’ultimo momento, tipo il 9 giugno. Il ridicolo di questa posizioni si sovrappone all’indignazione per quella che espongo dopo (“senza la minaccia della bocciatura gli studenti non studiano”), ma mi limito al primo aspetto, per ora: quindi, se capisco bene, le regole del gioco non devono essere chiare, e non deve esserci lealtà e trasparenza nel rapporto tra scuole e studenti perché questi tendono solo a fregare, vogliono solo il voto e la promozione e quindi, essendo degli esseri privi di ogni autonomia intellettuale e morale, vanno trattati come dei bambinelli violenti e viziati. Una sorta di “ignobile menzogna”. Davvero possiamo pensare questo? Davvero vogliamo impostare la relazione didattica su questi principi? Mi fermo qui.

Ma veniamo al punto fondamentale, quello che fa più arrabbiare: “se non si può bocciare gli studenti non faranno più niente”, “i docenti non avranno più strumenti per farsi rispettare”, “ne va della dignità del lavoro degli insegnanti”. E infatti circolava quel meme odioso, con i due minions: sotto la scritta “tutti promossi per decreto” il minion “profe” e il minion “allievo”, e questo che se la ride e sbeffeggia il primo. Una cosa intollerabile, che mi ha fatto davvero infuriare (mettete pure la parolaccia), perché mediocre dal punto di vista di ogni vero insegnante. Questa è la cosa più grave, secondo me, perché parte dal presupposto che si possa insegnare solo usando la minaccia del voto e della bocciatura, altrimenti non si ottiene niente. Quello che fa arrabbiare qui non è la concezione deformata che viene data degli studenti, di cui ho già detto sopra: questa già basta, perché la realtà di una relazione è determinata da entrambe le parti, e se nella relazione didattica la parte più influente, quella del docente, imposta tutto sulla sfiducia, la relazione è già corrotta, e non per colpa dei discenti, per colpa del docente. Ma di questo ho già detto. Il problema più grave, qui, è la concezione della didattica che c’è dietro: l’insegnamento ha un solo obbiettivo, in questa concezione, verificare che i discenti abbiamo appreso, siano arrivati a dei “risultati”. E poi giudicare e selezionare, tra chi è arrivato ai risultati e chi no. In questa visione non c’è niente per un insegnamento fatto della condivisione di un comune ambiente di crescita e apprendimento; fatto del dialogo, della discussione e analisi comune dei problemi, della condivisione delle difficoltà, del confronto. Non c’è niente di una idea di apprendimento come crescita culturale e formazione, come acquisizione di competenze nella pratica quotidiana, pratica che è non solo del discente ma anche del docente, che procede per tentativi ed errori con il primo. Non c’è niente dell’idea che imparare, formarsi, farsi una cultura, acquisire delle competenze è anche frutto di un processo in cui si sta immersi, semplicemente, e che questo processo funziona anche se non si è sempre sotto la minaccia del voto e della bocciatura. Quello stesso tipo di esperienza culturale che noi tutti, pieni delle nostre letture, delle nostre visite ai musei, delle nostre conferenze, insomma della nostra cultura, conosciamo e pratichiamo sempre; ma a quanto pare questo apprendimento “per immersione”, nel processo, vale solo per i pochi privilegiati con cui ci identifichiamo, per gli uomini d’oro, non per gli iloti, non per gli uomini di bronzo e di ferro che sono i nostri studenti. Loro sono condannati a soffrire, a subire la scuola come una catena, come una costrizione fatta di minacce, voti e paura della bocciatura (o identificazione con la bocciatura, per i più sfigati), per i quali quindi è del tutto legittimo imbastire l’ignobile menzogna “vi possiamo bocciare anche se non possiamo”.

Chi non è d’accordo reagirà con il solito argomento pseudo-realista: “le tue sono illusioni, i ragazzi puntano solo al voto e alla promozione”. Questo argomento, apparentemente ovvio come ogni argomento realista, falsa invece la realtà. Primo, come ho già detto, siamo noi ad avere impostato una relazione didattica dominata da voti, verifiche, crediti e paura della bocciatura, quindi dire che i ragazzi sono così è solo una profezia che si auto-avvera. Secondo, parlare così vuol dire chiudere gli occhi di fronte a una parte enorme del nostro sistema scolastico che non funziona secondo questo schema comportamentista “stimolo-reazione”, cioè “minaccia-risultato”, ma funziona proprio nell’altro modo che ho descritto, cioè la scuola primaria, e anche buona parte della scuola secondaria di primo grado, poiché in entrambe si boccia poco o niente; e in realtà anche molta della secondaria di secondo grado, dato che davvero per molti docenti le cose non sono così, e non sono affatto spaventati all’idea che tutti verranno promossi. Terzo, se la scuola vuole essere democratica deve chiedersi una volta per tutte che cosa vuole fare: se vuole continuare a pesare come un incubo su molti studenti, o se vuole essere un processo comune di crescita e formazione. Infine, una cosa che molti insegnanti delle superiori avranno notato in questi giorni di didattica a distanza: ci sono studenti, di solito più fragili e introversi, che stanno meglio, lavorano meglio, proprio perché la gabbia si è allentata, inevitabilmente. E questo fenomeno dice molte cose su che tipo di clima si vive spesso in aula, nella relazione didattica.

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La funzione degli insegnanti all’epoca del corona virus – Romano Luperini

Chiuse le scuole per il virus, sempre in vacanza questi insegnanti, molti avranno pensato. La leggenda dell’insegnante che lavora poco, che fa due mesi di vacanza e va a scuola solo la mattina, è dura a morire, e ultimamente è stata fomentata dagli attacchi non solo delle forze politiche di destra, ma della opinione pubblica e della stampa. La critica ai “professori” e in genere agli uomini di cultura, accusati di “buonismo”, ha imperversato sino a poco tempo fa (si ricordi la campagna contro i vaccini). Faceva parte di una ideologia e di una strategia, volta alla conquista non solo del potere politico, ma dell’egemonia (nel senso gramsciano del termine) che indubbiamente la destra è riuscita recentemente a conquistare.

Ma gli insegnanti hanno sempre lavorato duro e in queste settimane forse ancora di più, faticosamente sperimentando nuove forme di comunicazione e di didattica a distanza. E anche qui i giornali si sono soffermati solo sulla novità dei mezzi di comunicazione, e non è mancato chi vi ha visto un modello da realizzare su ampia scala, capace di sostituire il rapporto diretto in classe. D’altronde questo è un progetto che serpeggia da tempo nei gruppi dirigenti; e certamente non manca chi legge le sperimentazioni attuali come un primo passo in questa direzione.

Gli insegnanti però sanno bene quanto siano fondamentali nel processo educativo lo sguardo e la voce dell’insegnante, quanto siano decisive le emozioni che solo la loro presenza diretta può suscitare. Se lavorano a casa ore e ore per imparare a usare e poi per usare le piattaforme, gli audiovisivi e l’altro materiale è solo perché non hanno mai rinunciato a servirsi di questi strumenti tipici della civiltà odierna; ma volevano e vogliono servirsene come strumenti da fare interagire con lo insegnamento in presenza che resta per loro insostituibile. Oggi, semplicemente, fanno di necessità virtù. Cercano spesso di superare la loro iniziale diffidenza e, quasi sempre, la loro sostanziale ignoranza della tecnica elettronica e passano ore e ore a impararla, a preparare la lezione che apparirà l’indomani sullo schermo dei computer nelle case degli alunni, a immaginare nuovi esercizi interattivi, a cercare immagini e libri da citare o commentare. Non mitizzano lo strumento che usano. Sanno bene che non tutte le famiglie lo possiedono o sono capaci di usarlo correttamente. E che comunque non potrà mai sostituire l’insegnamento diretto, vis-à-vis. Ma sanno anche che, nella situazione attuale, è giocoforza giovarsene e che imparare a farlo può essere una conquista per tutti, docenti e discenti.

E tuttavia questo della didattica a distanza è solo un aspetto del problema. In realtà gli insegnanti svolgono oggi una funzione in parte nuova e insostituibile. Tengono insieme il paese, o almeno contribuiscono a farlo. Stabiliscono rapporti online con i genitori, oltre che con gli allievi, li coinvolgono nelle scelte didattiche, stabiliscono delle reti di discussione e di coesione che mancavano. Avvicinano le famiglie alla scuola e la scuola alla realtà del paese. Svolgono insomma una insostituibile funzione sociale di cui tutta la comunità deve essere loro grata.

La solidarietà della redazione di La letteratura e noi va oggi a tutti gli insegnanti, il sacrificio dei quali è certo meno drammatico e decisivo ma non meno prezioso di quello dei medici in prima linea. La nostra è una società in crisi e priva di forti valori, ma, come è successo altre volte nella storia, è nei momenti estremi che sa trovare le ragioni della resistenza. È importante che il virus sia vinto ma è importante pure che in questa battaglia sia riconosciuta anche la funzione insostituibile che svolgono gli insegnanti.

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Ceci n’est pas une école – Sara De Carlo

È il lontano 1951 quando Isaac Asimov scrive il racconto breve The fun they had in cui immagina la scoperta, a opera di un ragazzino di nome Tommy, di un vecchio libro sul quale viene descritto il sistema scolastico del XX secolo. Tutto si srotola attraverso la sorpresa che Tommy e la sua amica Margie provano nel rendersi conto che nel passato l’istruzione non era affidata a un insegnante elettronico ma a esseri in carne e ossa, che esistevano luoghi comunitari chiamate scuole in cui ci si incontrava e si imparavano cose. E così, a chiosa del racconto, Margie pensa a quanto i bambini potessero aver amato la scuola e chiude: “Chissà come si divertivano!”.

Non è stato necessario arrivare al 2157 – anno in cui Asimov colloca la propria storia –, poiché dall’oggi al domani ci siamo trovati sprofondati nella distopia di quell’ipotesi narrativa. A dire il vero, come tutti i nodi che stanno venendo al pettine in questi giorni di sospensione, è solo una falsa percezione quella che ci fa credere che tutto sia arrivato senza preavviso, che il nuovo si sia disposto davanti ai nostri occhi con forma d’irruzione.

Se è vero che il presente era nell’ordine della barbarie del neoliberismo, del suo violento rifiuto per un pensiero che sia ecosistemico, della sua perversa necessità di procedere arricchendo esiguità e affamando moltitudini, se è vero che la pandemia era stata predetta da virologi, sociologi, antropologi etc. e che oggi i governi, senza nessuna dialettica possibile, decidono di spostare su tutti noi le responsabilità della propria sordità, della propria crisi, è ugualmente vero che la stessa identica dinamica si riproduce nell’ambito della scuola.

Sono decenni che gli attori del mondo scolastico – dai docenti agli studenti al personale A.T.A. – lamentano il problema dell’edilizia scolastica e delle classi pollaio, sono anni che noi docenti ci ritroviamo a fare i conti con un obbligo di formazione – non normato in modo chiaro ma tristemente effettivo – relativo a piattaforme di didattica virtuale senza che sia dichiarato il senso di quella formazione, di utilizzo di registri elettronici in strutture dove spesso manca la connessione (e questo in aggiunta al cartaceo, ragion per cui non si realizza uno snellimento né amministrativo né ecologico); sono anni che veniamo sollecitati a sfruttare le infinite potenzialità delle L.I.M. che però poi sono di fatto presenti a singhiozzo nelle nostre aule; sono anni che, qua e là, si sopperisce alla mancanza di spazi facendo ricorso in via sperimentale a un monte ore di didattica virtuale.

E così da marzo scorso tutti questi segnali, sulla scorta della situazione emergenziale, hanno preso la forma precisa della didattica a distanza. Precisa non è aggettivo corretto, però, dato che l’articolazione di questo esperimento sociale procede a suon di indicazioni vacue, note, decreti, circolari che delineano contorni la cui definizione trova gradualmente la sua fisionomia scabrosa. In un limbo di ambiguità ricattatoria, il governo rinuncia per forza di cose a un discorso netto, dal momento che dichiarare con parole quello che insegue nei fatti significherebbe mettere nero su bianco lo scavalcamento della Costituzione (pensiamo all’articolo 3 sulla necessità di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, ma anche ovviamente al 33 sulla libertà d’insegnamento) e del contratto collettivo nazionale di lavoro; si procede in una dimensione che corre il rischio, per la nebulosità e la fretta nella quale attecchisce, di non permettere nessuna riflessione articolata.

Eppure dovrebbe stare nel genoma del nostro stesso mestiere il fatto di andare a cortocircuitare gli ingranaggi, a comprenderne dinamiche e fini, a cercare le maglie nella rete. Fatto sta che la scuola riproduce, oggi più che mai, lo sgretolamento e l’atomizzazione della società che vuole insegnare ad abitare: quella scuola dove da decenni gli organi collegiali hanno perso via via il loro potere, la scuola dell’autonomia e delle competenze, non è di certo da marzo scorso che ha in buona parte dismesso il suo compito dialettico e comunitario.

Ma da marzo il silenzio è di certo più assordante perché siamo pochi, siamo pochissimi, a pensare che sia ancora e tanto più necessario agire…il più delle volte se avanzi critiche ti verrà risposto: “ma ti sembra il momento di fare polemiche?”. Tanto più ci sembra necessario avviare riflessioni, per estendere, per mettere a tema ciò che a fatica viene assunto come problema. Michel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano ci ha insegnato come alle strategie del potere è possibile rispondere dal basso attraverso tattiche, più o meno consapevoli, movimenti imprevedibili che a partire proprio dal linguaggio che viene dall’alto ne rielaborano la grammatica, sovvertendola. Detto che non credo che il nostro compito sia produrre risposte – che andranno piuttosto elaborate nel tempo -, trovo però sia doveroso agire in una qualche maniera il conflitto, ora più che mai.

Nei giorni scorsi ho ripreso in mano Descolarizzare la società di Ivan Illic e ho provato a rileggerlo nell’ottica della didattica a distanza: ci sono elementi che in effetti, anche nella loro semplicità, sembrano quanto mai attuali. Il primo tra gli obiettivi che un buon sistema scolastico dovrebbe porsi, dice Illic, è quello di “assicurare a tutti quelli che hanno voglia d’imparare la possibilità d’accedere alle riserve disponibili, in qualsiasi momento della loro vita” (torniamo al succitato art. 3 della Costituzione!). Mentre la ministra Azzolina dichiara a gran voce e con fierezza che la DAD avrebbe raggiunto la gran parte delle studentesse e degli studenti italiani, a noi balzano agli occhi esperienze dirette e dati che vanno nella direzione opposta: e cioè che un terzo delle famiglie italiane non ha computer o una connessione adeguata, il 42% nel nostro Meridione (e non mi si venga a dire che vabbè, molti hanno gli smartphone e possono utilizzare quelli, perché non è una soluzione neanche lontanamente proponibile!). Ci balza agli occhi la difficoltà – che a volte diventa impossibilità – di interagire in forma virtuale con studentesse e studenti disabili. Ci balza agli occhi che altri grandi dimenticati di tutta questa storia sono i malati oncologici, i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze costretti nei letti d’ospedale; i grandi dimenticati sono tutti coloro che seguono la scuola in carcere e che non sono stati messi nelle condizioni di portare avanti coi propri docenti alcun prosieguo della didattica (il Garante nazionale dei detenuti e delle persone prive di libertà personale ha inviato una lettera di protesta al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Giustizia per sollecitare provvedimenti).

Il digital divide riproduce per forza di cose le polarizzazioni sociali già esistenti e corre il rischio di produrre una nuova forma di drop-out, un’esclusione, una forma diversa della dispersione scolastica a cui siamo abituati, per certi versi ancora più inquietante.

Parafrasando Illic, dunque, potremmo dire che per la maggior parte delle persone l’obbligo della didattica a distanza è un impedimento al diritto di apprendere; ed in questo emerge lo zoccolo duro e reazionario dell’indicazione neoliberista secondo cui tutto è possibile (anche portare a termine l’anno scolastico quando sembrava impossibile!) ma non per tutti.

Ma immaginiamo pure benevolmente un futuro prossimo in cui il digital divide sia superato: bene, come dimenticare che entrare a gamba tesa nelle case delle nostre studentesse e dei nostri studenti non è operazione semplice e neutrale? Come dimenticare che esiste un pudore non valicabile che descrive gli stati d’animo dei nostri alunni? Che qua e là esistono case che di casa hanno ben poco, famiglie scompaginate e logorate, genitori problematici, sorelle e fratelli disfunzionali?

E qui raggiungiamo pure il discorso – che però merita un’attenzione precipua – della questione del capitalismo della sorveglianza, del controllo e del possesso dei nostri dati che passa per le piattaforme virtuali. Immaginiamo pure benevolmente un futuro prossimo in cui sia superata la questione big data, in cui siano superate le problematiche economiche tout court e di conseguenza quelle relazionali: bene, la scuola che vogliamo è quella che immagina nel suo racconto Asimov?

La risposta è secca, ed è no. Perché con tutti i grossi limiti che la didattica in presenza ha attualmente, continuiamo a credere che sia l’unica forma di negoziazione del sapere cui spetti a pieno titolo il nome di “didattica”: nel suo produrre comunità, nel suo produrre incontri di corpi permette, per dirla con lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la “partecipazione a un ambiente significante”.

Del resto, una didattica virtuale normalizzata sarebbe tossica. Lo stesso Benasayag lo dice bene nel suo saggio Il cervello aumentato: la riduzione della distanza tra uomo e macchina, uomo e tecnica produce un effetto di ibridazione che conduce inevitabilmente all’atrofizzazione di zone cerebrali.

La promiscuità con la tecnologia provoca cambiamenti finanche sui nostri corpi, per via di quella delega di funzioni che insegue un paradigma produttivista, la performatività, la riuscita impeccabile. E invece il vivente funziona diversamente: una memoria sana è una memoria che dimentica e che modifica il ricordo, una memoria plastica; un apprendimento sano è quello che include la difficoltà, la non riuscita, la vulnerabilità. Tutte cose che possono darsi solo in una relazione fatta di spazi e corpi che li abitano.

Corpi che, nello spazio della scuola (anche oggi con gli svariati limiti già denunciati), provano quantomeno a scambiarsi gesti e sintomi, zigzagando tra movimenti e parole, convergendo e allontanandosi talvolta, scambiandosi – più che informazioni – esperienze, con l’obiettivo principale di condividere solidarietà. E invece è possibile scambiarsi una solidarietà senza corpi?

Come dice Benasayag, non si tratta di essere tecnofobi o tecnofili (la realtà è già ibridata!) ma di riflettere in forma conflittuale su quanto abbiamo dinanzi e farci trovare pronti quando e se proveranno a trasformare l’eccezione nella regola, l’emergenza in quotidianità. Non so se noi fino a febbraio a scuola ci divertivamo: purtroppo non credo, avevamo da ripensare davvero troppe cose, da sistemarne altrettante; fatto sta che oggi assistiamo a un arretramento pericoloso.

Io intanto, mentre ragiono con alunni, compagni e colleghi sul tutto, mentre con loro scovo tattiche, al termine della spiegazione su Spinoza ho detto alle mie ragazze e ai miei ragazzi: “Fatevi un favore: nei prossimi giorni per qualche ora staccate tutto, disconnettetevi, prendete i colori e meditate su una delle definizioni degli affetti dell’Etica, quella che più vi colpisce. E poi…disegnate! E sarà un lavoro collettivo, dato che alla fine metteremo insieme i disegni di ciascuno e andremo a formare un’immagine di Dio, ovvero della Natura. Perché Spinoza questo ci insegna: che siamo parte di un tutto e che stiamo bene se mettiamo insieme i pezzi, se moltiplichiamo relazioni con ogni essere del mondo organico e inorganico, se facciamo in modo che i nostri corpi si incontrino; se facciamo in modo che questa condizione innaturale che vede ognuno di noi, da solo, chiuso in una stanza, davanti a un pc, non si ripeta più”.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

2 commenti

  • Pierluigi Pedretti

    Bene i sette punti di Masala, condivido in toto, e da insegnante non aggiungo nulla. Sulle “appendici” ci sarebbe da discutere tanto e non ne ho voglia, soprattutto ci sarebbe da rispondere ai Soloni, anche di sinistra, che pontificano senza avere mai insegnato.

    • Francesco Masala

      quando ero giovane, non so adesso, non seguo più il calcio, si diceva che in Italia c’erano 50 milioni di commissari tecnici della nazionale di calcio.
      adesso mi sembra che ci siano milioni di virologi, e tutti, quelli che non hanno uno specchio in casa, sopratutto, guardano e criticano cli altri, come quei pensionati che nel tempo libero, cioè tutto, stanno di vedetta davanti alle reti dei cantieri (controllando e giudicando il lavoro degli altri).
      uno che ha fatto qualche anno di scuola ne sa più degli insegnanti, chi ha preso qualche volta un’aspirina si atteggia a medico.
      così va il mondo (male, mi sembra).

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