Francesca Coin: lavoro da pazzi, droghe a go-go

Un libro che quasi non circola. Come accade ai piccoli editori non è visibile: a 14 mesi dall’uscita poche recensioni e nessuna vetrina illuminata. Eppure… il tam-tam di lettori e lettrici fa girare la voce: c’è un testo importante, contro-corrente, documentato. Ed ecco che «Il produttore consumato» di Francesca Coin [Il poligrafo, 306 pagine, 23 euri] inizia a girare e si organizzano dibattiti con l’autrice.

Il titolo si rifà a una bella frase di Karl Marx [la citazione è a pagina 36] ma il sotto-titolo aiuta a capire meglio di cosa si tratta: «saggio sul malessere dei lavoratori contemporanei». Si scrive poco su chi lavora, ancor meno si ricerca, eppure «a clamorosa smentita di una presunta marginalità, all’alba del terzo millennio i lavoratori sono il bersaglio primo delle riforme economiche e politiche del libero mercato» spiega l’autrice.

«Sotto tutte le latitudini, le condizioni di lavoro dei salariati contemporanei sono sempre più dure». Il libro parte da qui, dal livellamento «verso il basso» nella mondializzazione, dalle nuove/antiche forme di «oppressione». In queste prime pagine, come poi in tutto il volume, la documentazione è copiosa, impressionante. Si potrà dissentire – è ovvio – su alcune delle analisi ma bisognerà comunque fare i conti con i numeri e le testimonianze che la Coin raccoglie dalle fonti ufficiali come da quelle «non autorizzate». Quando a esempio – per un attimo saltiamo alla fine del libro – l’autrice vuole condurre una ricerca su «la qualità della vita» dei lavoratori in fabbrica «e le eventuali cause del loro disagio» troverà [nella Cgil prima e nella Filca poi] sordità e paura. Condurrà dunque un’inchiesta fra lavoratori che chiedono di restare anonimi in una fabbrica della quale non ci è dato sapere il nome. Eppure quanto emerge [paura compresa] è un malessere, spesso condito di antidepressivi ed abusi di vario tipo, purtroppo in sintonia con quella distanza «stellare» fra lavoratori e cosiddetta pubblica opinione che emerge solo per tragedie come quelle della Tyssen…  per essere poi subito rimossa.

Proviamo a zig-zagare in alcuni snodi importanti del libro. Per rimanere sconcertati che – in Cina o in Indonesia ma anche nell’Est europeo – assai di frequente «la giornata media di lavoro sia di 12 ore». Che emergano, «nella luminosa era del libero mercato […] lavoro forzato, paghe al minimo, straordinari folli e poi abusi, minacce e violenze di ogni tipo». Che in Paesi ove i turni di lavoro sono sempre più lunghi, non siano pochi i sindacalisti che denunciano alcune direzioni di fabbrica perché somministrano anfetamine ai dipendenti per far loro reggere quegli orari e quei ritmi.

Dopo un trentennio anomalo [quello 1945-‘73] dove chi lavora, nel nord ma anche nel sud del pianeta, conquista diritti sino ad allora negati, parte una controffensiva che resuscita condizioni di semi-schiavitù. Parlando dell’assenteismo per esempio, Coin ricorda che oggi «l’iper-lavoro è tanto diffuso che […] il problema non è più l’assenteismo ma il presenteismo ovvero quel fenomeno per cui i lavoratori saranno presenti qualunque cosa capiti, “in salute o in malattia”, anche se sono malati, deboli o tanto esauriti da non lavorare efficacemente». Uno stato d’emergenza, secondo l’autrice. Che viene affrontato, a livello di massa, attraverso il ricorso «a sostanze psicotrope», ovvero a vari tipi di droghe, alcune legali e altre fuorilegge. Ma si creano anche dipendenze da… stili di vita: «la dipendenza dal cibo e dall’acquisto d’impulso sono due delle più diffuse patologie contemporanee».

Ancora zigzagando fra i risultati della lunga [cinque anni] che sorregge questo saggio, incontriamo il sistema satellitare di Wal-Mart, «secondo solo a quello del Pentagono», le diverse forme dell’iper-lavoro in Olanda e in Giappone, la tendenza ad incentivare i consumi di massa attraverso il «marketing sensoriale», le tecniche subliminali, l’oniomania [cioè la sindrome da shopping] e, andando indietro nel tempo, le tre guerre dell’oppio – ovvero l’utilizzo dell’oppio come strumento di conquista coloniale – per finire con alcuni dati riassuntivi sul secolo appena concluso che l’Oms ha definito «il più violento nella storia del mondo». Ma è assai interessante l’analisi sulla diffusione delle droghe negli Stati Uniti in vari passaggi cruciali del 1900.

Riassumere troppo non si può. E’ un testo che non procede per facili slogan e che dunque non si presta a essere condensato in tre-quattro formulette finali. Francesca Coin ci rivela molto sull’attuale modo di produrre e sul crescente ricorso a droghe, sul nesso [forte eppure reso invisibile dai media] fra una maggiore produzione di merci e il crescente malessere, interrogandosi ovviamente anche sulle vie d’uscita, sulla possibilità che – di nuovo, come in altri momenti storici è accaduto –  i lavoratori non siano solo da «consumare», negare, gettare via come appendice secondaria delle macchine [o delle merci]. Lavoratori e ovviamente lavoratrici perché «un macro-esempio» di quel che accade è la condizione delle donne. Per riprendere una frase che si rifà al pensiero femminista, citata dalla Coin, di Barbara Ehrenreich: «Se pensi che il tuo scopo sia l’uguaglianza, i tuoi standard sono troppo bassi. Non è sufficiente avere diritti uguali a quelli degli uomini, in un mondo in cui anche gli uomini vivono come bestie».

Se di vie d’uscita immediatamente praticabili sarebbe irrealistico parlare è pur vero che un filo di speranza [resistenza e in taluni casi contro-offensiva] si affaccia in alcune pagine di questo saggio: «dalla Bolivia alla Corea […] passando per il Sudafrica è stato un susseguirsi di lotte e rivolte di minori, operai, disoccupati, popolazioni indie, braccianti e contadini senza terra contro le politiche di liberalizzazione imposte dal Wto e dalle istituzioni finanziarie».

E’ insomma un testo che va sottratto a un oblio immeritato. Perciò se non riuscite a trovarlo nelle librerie ordinatelo all’editore:  casaeditrice@poligrafo.it, 049 8360887: non sono pochi 23 euri ma il libro li stra-vale.

Questa mia recensione è uscita su «Come» nel febbraio 2008

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