Francia e Italia: confronto fra i due sistemi pensionistici

Foto Alessandro Giacone

Salvatore Palidda riscrive un articolo di Alessandro Giacone:  https://altritaliani.net/francia-e-italia-sistemi-pensionistici-a-confronto

In Italia si tende a pensare che i francesi pretenderebbero un sistema pensioni che in Italia e negli altri paesi è peggiore. NON è affatto così. La Francia non è affatto il paese di Bengodi. C’è un’informazione menomata e deformata. Il confronto fra i regimi pensionistici in Francia e in Italia mostra bene che quello francese -ancora prima della orrenda riforma che Macron pretende imporre a tutti i costi e contro il 75% della popolazione- è iniquo e inaccettabile e perciò è esplosa la grandiosa mobilitazione contraria grazie anche a dei sindacati e una sinistra che ancora RESISTONO!

 

L’età legale per andare in pensione è solo un’età minima, ma è sempre legata ai contributi versati. 2) la pensione di anzianità si ottiene a prescindere dai contributi versati, l’età è identica in Francia e in Italia: 67 anni ma sappiamo che è un reddito di FAME.

 

In Italia e in Francia si parla di riforma delle pensioni da almeno tre decenni, cioè da quando è trionfata la controrivoluzione capitalista liberista, che ha voluto imporre la riduzione se non l’eliminazione dello stato sociale (il welfare) cioè i diritti acquisiti dai lavoratori negli anni ’69-70. Ma soprattutto i governi attuali non vogliono far pagare tasse ai ricchi che da decenni ogni anno diventano più ricchi mentre i poveri diventano sempre più poveri e più numerosi.

 

In Italia, la prima fu la riforma Rumor (1973) che permetteva di andare in pensione nell’impiego pubblico con 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi (per le donne sposate), con 20 anni per gli statali, e con 25 per i dipendenti degli enti locali (fu una delle grandi concessioni del potere DC per coltivare e allargare la sua clientela, così come dopo le ope legis successive). Si calcola che i baby-pensionati gravino, ancora oggi, per circa sei miliardi di euro l’anno sulle finanze statali. Oggi sono ormai ultrasettantenni, ma in alcuni casi sono in pensione già da 40 anni. Alla lunga, si è detto che questo “mise a dura prova le finanze dello Stato” (senza mai dire che il debito pubblico italiano sia stato accumulato dalle regalie ENORMI che i governi -DC, di centro-destra e dell’ex-sinistra- hanno elargito al padronato e al capitalismo di stato).

Le prime contromisure furono negli anni Novanta (nel 1992, poi nel 1995, riforma Dini) ma il “problema” restò d’attualità per vent’anni.

 

In Francia non ci fu un fenomeno analogo a quello dei baby- pensionati; la situazione finanziaria delle casse delle pensioni era più equilibrata. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, erano stati creati i cosiddetti “régimes spéciaux” che permettevano ad alcune categorie (in particolare i minatori e i macchinisti dei treni) di andare in pensione a 52 o 55 anni. Per tutti gli altri, la pensione era fissata a 65 anni.

Il grande cambiamento avvenne nel 1983, con Mitterrand: l’età pensionabile fu abbassata a 60 anni, a condizione di aver versato contributi per 37 anni e mezzo.

 

La riforma Monti-Fornero (in nome della pretesa “urgenza della situazione”, nell’autunno del 2011, spostò immediatamente l’età pensionabile da 62 a 67 anni.. Lo Stato poté quindi “risparmiare” il costo delle pensioni che dovevano essere liquidate nei cinque anni seguenti, in nome del salvataggio dal fallimento. Fu una riforma estremamente brutale  (Ricordate gli esodati: oltre 400 mila, che, pensionati a forza- dovettero aspettare anni prima di ricevere la pensione).

 

In Francia, la situazione finanziaria è sempre stata meno drammatica, sia per l’assenza dei baby-pensionati che per un maggiore dinamismo demografico (l’indice di fecondità supera i 2 figli per donna, mentre in Italia è sceso a 1,2). Nel 2018, il deficit del sistema pensionistico francese era inferiore ai 3 miliardi di euro, anche perché negli ultimi trent’anni ci sono state varie riforme, attuate sempre in modo progressivo, cioè spostando gli sforzi soprattutto sulle generazioni future. Secondo la logica dominante la ragione sarebbe che “la speranza di vita tende ad aumentare quindi in futuro sarà necessario lavorare più a lungo” (non si dice che basterebbe solo limitare l’aumento vertiginoso dei profitti dei più ricchi).

La riforma Balladur (1993) portò a 40 il numero di anni lavorativi per chi lavorava nel settore privato. Dopo il fallimento della riforma Juppé (1995), grazie a uno sciopero generale di tre settimane, nel 1999 il governo Jospin creò un Fondo di riserva per le pensioni, alimentandolo con la vendita di quote delle imprese pubbliche.

Poi la riforma Fillon (2003) spostò da 60 a 62 anni l’età minima pensionabile e ridusse il numero dei cosiddetti regimi speciali. In particolare, i contributi furono parificati e anche nel settore pubblico fu necessario “cotiser” (contribuire) per 40 anni (invece di 37,5). Infine, sotto la presidenza Hollande (l’ex-sinistra peggiore della storia francese, cioè simile al PD italiano), vi fu la riforma Touraine (2014), tuttora in vigore, che fissa le condizioni per beneficiare di una pensione a tasso pieno, come riassunto dalla tabella seguente:

Anno di nascita Numero di trimestri richiesti
Dal 1955 al 1957 166 (41 anni e 6 mesi)
Dal 1958 à 1960 167 (41 anni e 9 mesi)
Dal 1961 à 1963 168 (42 anni)
Dal 1964 à 1966 169 (42 anni e 3 mesi)
Dal 1967 à 1969 170 (42 anni e 6 mesi)
Dal 1970 à 1972 171 (42 anni e 9 mesi)
Dal 1973 in poi 172 (43 anni)

 

Occorre quindi non fissarsi sull’età minima pensionabile. Perché ciò che riempie le casse pensionistiche non è l’età in sé, ma i contributi versati nel corso della vita lavorativa. Si vede allora che il sistema pensionistico francese è già uno dei più esigenti per non dire uno dei più duri a livello europeo.

La maggioranza delle donne e persino delle persone nate dal ’60 in poi -quindi ventenni negli anni ’70- ha raramente avuto la “fortuna” di accedere a un impiego stabile a tempo indeterminato per 40 anni, cioè sino agli anni 2010. Quindi non hanno potuto versare contributi sufficienti neanche nel 2020 (a 60 anni) ma devono lavorare ancora per almeno 10 o 20 anni (anche oltre i 70 anni!!!). Solo una persona nata nel 1961, e che ha iniziato a lavorare all’età di 20 anni nel 1981, ha potuto effettivamente maturare 42 anni di contributi ed andare in pensione nel 2023, all’età di 62 anni. Una persona nata nel 1973, che ha iniziato a lavorare nel 1994, all’età di 21 anni, potrà andare in pensione nel 2036. Di fatto, all’età di 64 anni. Ma questi casi sono la minoranza.

 

Ma sono aumentate la precarietà o l’instabilità del lavoro sia per le donne che per gli uomini e per tanti anni sino al oltre il 2000, chi lavorava con partita IVA non pagava contributi, ma pagava l’IVA. Le donne e i giovani nati negli anni ‘80 che hanno iniziato a lavorare a 25 anni per avere la pensione a tasso pieno, dovrebbero aver lavorato SEMPRE fino al 2048, cioè fino all’età di 68 anni, ma sono casi rari. Insomma, già con il sistema francese attuale, moltissime persone dovranno lavorare ben oltre il “limite” italiano dei 67 anni.

Nel 2020 Macron presentò un progetto di “pensione a punti” per semplificare i sistemi esistenti: prevedeva che ogni euro di contributi sarebbe equivalso a un punto di pensione. Ovviamente un tale progetto favoriva solo chi aveva stipendi più elevati. Inoltre il governo Edouard Philippe (governo del primo settennato Macron) inserì l’età perno (âge pivot) di 64 anni. Le grandi manifestazioni di piazza, la sconvolgente rivolta dei gilet gialli e poi la pandemia di covid, indussero Macron a ritirare la riforma.

 

Ma non è affatto vero che il sistema pensionistico francese sia al collasso, anche se il deficit aumenta ma nient’affatto in misura allarmante. Basterebbe tassare un po’ i super-ricchi, ma Macron ha sempre rifiuta di istituire la tassa sui ricchi.

Alla sua elezione Macron ha avuto 20% des voti degli elettori aventi diritto al voto al 1° turno ed é stato eletto al secondo turno con 38,5% di questo elettorato votante, per metà di gente di sinistra per non fare vincere la fascista-razzista Le Pen.

Ma ora vuole imporre una pensione con 43 anni di contributi a tutti i costi e contro oltre il 75% dei francesi contrari (sondaggi riconosciuti da tutti i media). E pretende di non farsi intimorire dai dieci scioperi generali e dall’opinione pubblica ostile; crede di poter contare sulla brutalità repressiva della polizia. Ma la maggioranza dei francesi ha capito bene che si tratta di un’infame fregatura soprattutto per le donne e i giovani e in generale per tutti i lavoratori con bassi salari mentre vuole privilegiare i salari alti.

In Italia, negli ultimi anni si è cercato di attenuare gli effetti più drastici della legge Fornero. S’è parlato di quota 100 (età di pensionamento + anni di contributi), spostata poi a 103 e a 105. L’operaio italiano nato nel 1968 e pensionato nel 2032 -ammesso e non concesso che abbia potuto lavorare sempre in regola- raggiungerà addirittura quota 110 (64+46).

Donne, giovani e lavoratori dei mestieri più usuranti sono ovviamente i più colpiti. La riforma di Macron è sostanzialmente ingiusta perché colpisce soprattutto chi ha iniziato a lavorare da giovane e ha statisticamente una minore speranza di vita.

L’età pensionabile non si impone, ma si dovrebbe constatare, cioè riconoscere caso per caso chi può lavorare e vuole farlo oltre i 62 anni.

Il sistema pensionistico francese è di fatto simile a quello italiano. La pensione minima si ottiene alla stessa età. L’età pensionabile è teoricamente più bassa, ma nei fatti in Francia il numero di contributi richiesti è già superiore a quello italiano (che oscilla tra i 41 e i 42 anni). La Francia non è il paese dei balocchi!

Perciò la mobilitazione popolare contro la riforma Macron resta forte ed è diventata un fatto politico totale!

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