Fulvio Vassallo Paleologo: “Arbeit macht frei” (1 e 2)
Un “Accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro”, secondo il ministro della Pubblica Sicurezza Libico, il generale Younis Al Obeidi, dovrebbe consentire ai 250 rifugiati eritrei rinchiusi nel carcere libico di Brak, nei pressi di Sebha, in Libia la libertà: la libertà di essere schiavi a tempo indeterminato in un campo di lavoro libico senza alcun riconoscimento del loro diritto di asilo e senza alcuna garanzia che gli abusi che hanno già subito non continuino.
Il”lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia”, loro promesso, che una parte soltanto dei detenuti di Sebha ha accettato, non permetterà loro alcuna libertà di circolazione, come spetterebbe a qualunque titolare del diritto di asilo, e li consegnerà ad una rigida catena gerarchica che esigerà da loro un vero e proprio lavoro forzato.
Che fine faranno poi coloro che non accetteranno l’imposizione di questa ulteriore deportazione? Quali mezzi di persuasione verranno impiegati?
Il lavoro promesso in cambio della libertà appare solo come un tentativo di disperdere il gruppo di profughi eritrei, da giorni vittima di torture e violenze da parte della polizia libica, e rendere più difficili le inchieste internazionali sulle responsabilità di questa ennesima deportazione violenta subita da persone che avrebbero dovuto essere accolte come rifugiati.
Se questo è anche il risultato dell’intervento del governo italiano non ci si può certo stupire per tanta “umanità”, nelle stesse ore nelle quali a Roma la polizia di Maroni ha caricato a freddo, con una violenza che purtroppo sta diventando consuetudine in ogni manifestazione di protesta, migliaia di cittadini aquilani che protestavano per l’abbandono nel quale il governo ha lasciato il loro territorio dopo i mesi di propaganda elettorale.
I rifugiati eritrei, che si trovano nel centro di detenzione di Braq da 8 giorni, durante i quali sono stati maltrattati e torturati, nel silenzio di tutte le autorità italiane che si sono dovute accorgere del caso soltanto dopo che alcune associazioni umanitarie, RaiTre e l’Unità avevano avviato una mobilitazione che ogni giorno va crescendo, avevano fatto appello all’Italia e all’Europa per essere inseriti in un programma di ritrasferimento in Europa verso paesi che avrebbero riconosciuto effettivamente il loro diritto di asilo.
Maroni non può affermare che “Il governo italiano non ha alcuna responsabilità nella vicenda dei profughi eritrei trattenuti in Libia”, per il ministro “resta indimostrato che gli eritrei abbiano fatto parte degli 850 respingimenti”. Le sue dichiarazioni sono smentite da diverse testimonianze, una delle quali, raccolta da un giornalista del Manifesto, conferma che tra i reclusi di Brak vi sono diversi migranti respinti lo scorso anno in Libia dai mezzi militari italiani. E su queste vicende, presto, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo potrebbe emettere una sentenza di condanna per i respingimenti collettivi verso la Libia, vietati da tutte le convenzioni internazionali, effettuati dal nostro paese a partire dal 7 maggio dello scorso anno.
Maroni afferma oggi che “se si chiederà al nostro governo di fare una missione umanitaria in Libia, il ministro degli esteri ne vaglierà l’opportunità, ma dall’Europa non è venuto nessun interessamento, cosa davvero singolare e incredibile perchè dovrebbero essere proprio le istituzioni europee ad intervenire e non a chiedere ad altri di farlo”. Quella missione è doverosa perchè la impone un ordine del giorno già approvato lo scorso anno quasi all’unanimità dal Parlamento ( ordine del giorno Marcenaro), e l’Europa non è tenuta a risolvere i guai che combina la collaborazione del governo italiano con il regime di Gheddafi.
Da parte sua l’Europa, meglio, il Parlamento Europeo lo scorso 17 giugno hanno ricordato a tutti, e dunque anche al governo italiano, che in Libia vengono violati i diritti fondamentali dei migranti e dunque dovrebbero cessare quelle forme di collaborazione, come i respingimenti, che rendono possibili le più terribili violazioni dei diritti fondamentali della persona. Quelle violazioni che qualcuno forse in Italia ritiene accettabili, come effetti collaterali del “successo storico” consistente nel blocco degli arrivi, in gran parte di potenziali richiedenti asilo come appunto erano e sono gli eritrei incarcerati a Brak. Domandiamo agli italiani se si sentano più sicuri dopo questo scempio di umanità.
Maroni non può eludere le responsabilità che anche a livello internazionale vengono attribuite all’Italia ed al suo governo. E’ vero che esistono accordi bilaterali con almeno 30 Paesi ma non si può concordare con il ministro dell’interno quando afferma che “questo non vuol dire che dobbiamo occuparci di quello che accade in ciascuno di essi. Certo, la Libia ci è vicina, non avrei obiezioni personalmente a un’azione di tipo diplomatico, ma più e meglio di noi dovrebbe fare l’Unione europea”. Secondo il ministro, da parte dell’Europa c’è stato “un atteggiamento di disinteresse incredibile e singolare’’.
La verità che il governo italiano non vuole ammettere è che gli altri accordi bilaterali sono solo accordi di riammissione, ma non prevedono il respingimento collettivo in acque internazionali, come nel caso degli accordi con la Libia, in particolare per effetto dei protocolli aggiuntivi stipulati dallo stesso Maroni con il ministro dell’interno libico nel corso di una missione lampo nei primi giorni di febbraio dello scorso anno. Lo stesso accordo tra Spagna e Marocco, troppo spesso richiamato a sproposito, ha consentito il respingimento di natanti fermati in acque marocchine, e non i acque internazionali, ed in ogni caso il Marocco, a differenza della Libia, aderisce alla Convenzione di Ginevra e consente, sia pure con gravi limiti le attività dell’UNHCR ( Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati).
Il ministro Maroni dovrebbe ricordare bene la differenza degli accordi con la Libia rispetto agli altri accordi di riammissione che l’Italia ha stipulato con altri paesi dal 1998 in poi, perché è stato proprio lui l’artefice delle nuove regole operative che nel febbraio 2009 ( quando restò chiuso all’interno di un ascensore guasto in un ministero libico, tanto per ricordare) hanno integrato i protocolli firmati da Amato nel dicembre del 2007, poi recepiti ed espressamente richiamati nel Trattato di amicizia italo-libico sottoscritto da Berlusconi nell’agosto del 2008. Contro tutte le ipocrisie e le manovre strumentali coperte da una disinformazione sistematica che il governo impone o suggerisce alla maggior parte degli organi di stampa, con la coraggiosa resistenza di Rai Tre, dell’Unità e di qualche altro giornale, continuiamo a chiedere la liberazione immediata e incondizionata di tutti i profughi eritrei detenuti a Brak, l’accesso per tutti coloro che lo chiedano alla procedura di asilo e ad un ritrasferimento in un paese firmatario della Convenzione di Ginevra. Chiediamo anche che la Libia, con la copertura politica e finanziaria del governo italiano, cessi le deportazioni di potenziali richiedenti asilo e di soggetti vulnerabili come donne e minori verso paesi dittatoriali nei quali potrebbero subire torture o trattamenti inumani o degradanti. Nei giorni scorsi centinaia di nigerini presenti in Libia sono stati deportati in Niger, come riferisce la stessa agenzia di stampa ufficiale Jana, senza che a nessuno di essi fosse consentito chiedere asilo in Libia o far valere la protezione internazionale.
Chiediamo ancora una volta ai parlamentari italiani di impegnarsi per la sospensione del Trattato di amicizia con la Libia, in base al quale l’Italia dovrà pagare a Gheddafi diversi miliardi di euro nei prossimi anni per continuare a garantirsi il blocco degli sbarchi, e lucrosi affari per alcune nostre imprese. Un blocco che produce esattamente quella tragedia umanitaria e quei corpi violati, nel carcere di Brak come in altre parti della Libia, che nessuna velina ministeriale potrà mai occultare. Il lavoro forzato non rende liberi, “Arbeit macht frei” stava scritto sulla porta del lager di Auschwitz.
Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo – mercoledì 7 luglio 2010
ARBEIT MACHT FREI 2 – IN LIBIA ANCORA RICATTI E IMBROGLI CONTRO GLI ERITREI
Mentre i mezzi di informazione italiani, con l’eccezione dell’Unità, di Raitre e di pochi altri, hanno steso una cortina di silenzio sulla sorte degli oltre 200 eritrei detenuti e abusati nel carcere di Brak, in Libia, una agenzia AFP chiarisce meglio la portata dell’accordo, un vero e proprio “patto leonino” che il governo libico, con la mediazione dell’OIM, avrebbe imposto ad una parte dei detenuti, mentre circa un terzo sembra che ancora si rifiuti di sottoscrivere l’”accordo di regolarizzazione”, che secondo le autorità di quel paese “ li sottrarrebbe alle bande di criminali” trafficanti ovviamente, e conterrebbe addirittura”misure per l’accoglienza e l’integrazione”.
E’ proprio il caso di ripetere, purtroppo, “ARBEIT MACHT FREI”, il lavoro rende liberi. Secondo l’accordo imposto dal governo libico ad una parte degli Eritrei, che probabilmente avrebbe firmato qualsiasi pezzo di carta pur di lasciare il carcere militare di Brak nel quale vengono abusati da giorni,”l’ambasciata eritrea in Libia consegnerà dei documenti, e dunque identificherà, i detenuti” al fine di permettere “a quanti lo desiderano di insediarsi in Libia”.
L’insediamento dovrebbe avvenire non certo per libera scelta delle persone ma esclusivamente all’interno di uno dei campi di lavoro socialmente utile che la Libia esibisce con orgoglio per dimostrare il carattere socialista del suo regime. Ma la sorte degli eritrei dispersi in questi campi ed affidati alla rigida organizzazione dei tanti gerarchi libici appare segnata, ed una volta considerati come migranti economici rimane ancora assai alto il rischio che alla prima occasione vengano espulsi nel paese d’origine, dove ad attenderli troverebbero carcere e torture. Il regime eritreo ha buona memoria.
E’ rimasto in ombra in questa soluzione il ruolo dell’Italia, che pure era stata sollecitata dal Commissario ai Diritti umani del Consiglio d’Europa ad un “chiarimento” con la Libia sulla vicenda della deportazione degli eritrei da Misurata a Brak.. Come sono rimasti inascoltati i numerosi appelli per un ritrasferimento (resettlement) dei profughi dalla Libia in Italia, come già avvenuto negli anni passati, seppure in poche decine di casi.
Il capo della missione OIM in Libia Laurence Hart ha dichiarato, sempre secondo l’AFP, che la soluzione è stata individuata dalle autorità libiche “per integrare gli immigrati eritrei in attività di lavoro socialmente utile, come è stato fatto in passato nel caso di altri immigrati somali”. Tutti dovrebbero sapere però la sorte di sfruttamento sistematico e di abusi quotidiani a danno dei somali e degli eritrei in Libia, come si ricava dai rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International. E come gli eritrei anche i somali avrebbero avuto, ed hanno diritto, ad ottenere tutti non solo un permesso di soggiorno per lavoro, magari in una condizione di grave sfruttamento, ma il riconoscimento dello status di protezione internazionale, e dunque della libera circolazione sotto la sorveglianza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Un ruolo di garanzia che cessa quando un migrante non è riconosciuto come rifugiato ma come un comune migrante economico, magari da fare rientrare nel paese di origine alla prima occasione. La soluzione adottata dal governo libico mette “fuori gioco” ancora una volta l’UNHCR che peraltro in Libia ha sempre avuto una limitata capacità di azione.
La stessa agenzia riferisce poi la vera ragione della chiusura della piccola delegazione dell’UNHCR a Tripoli, che aveva riconosciuto lo status di rifugiato a 8.951 persone e ne aveva riconosciuto altre 3.689 come richiedenti asilo. Per il governo libico si trattava invece di “immigrati clandestini”, che “in nessun modo potevano essere considerati come rifugiati o richiedenti asilo” . Ecco perché all’inizio di giugno l’ufficio dell’UNHCR a Tripoli veniva chiuso, proprio perché, a detta delle autorità libiche, avrebbe posto in essere “attività illegali”. Adesso sembrerebbe che sia stata consentita la riapertura dell’ufficio, ma con un mandato limitato soltanto ai casi già trattati in passato. E poi, se tutti i potenziali richiedenti asilo sono considerati come migranti economici, che senso può avere la presenza dell’UNHCR a Tripoli?
Una domanda alla quale dovrebbe fornire risposta anche l’Ufficio centrale dell’UNHCR a Ginevra, anche perché la Libia non ha ancora sottoscritto la Convenzione di Ginevra..
E’ caduto intanto nel vuoto l’appello del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa Hammarberg che sollecitava l’Italia i ministri Maroni e Frattini a chiarire la situazione con la Libia ed a trasmettere informazioni allo stesso Consiglio d’Europa in merito alla vicenda degli eritrei arrestati in Libia, anche alla luce dei numerosi report di agenzie internazionali che indicavano tra i deportati eritrei trasferiti a Brak ed a rischio di ulteriore deportazione nel loro paese di origine, anche migranti che lo scorso anno “avevano cercato di raggiungere l’Italia per cercare di ottenere uno status di protezione internazionale” ed “erano stati respinti in Libia senza avere la possibilità di inoltrare la relativa domanda”. Probabilmente, come ha detto lo stesso Gheddafi in diverse occasioni, in particolare nel suo viaggio a Roma lo scorso anno, anche Maroni risponderà adesso al Consiglio d’Europa quanto affermato da Berlusconi lo scorso anno, che in Libia non esistono richiedenti asilo, che si tratta solo di migranti irregolari, anzi “clandestini”, e che dunque non ci sono problemi di violazione di norme internazionali.
Questi i fatti, e le menzogne, come sta venendo fuori dalle numerose testimonianze che smentiscono Maroni e confermano che tra gli eritrei deportati a Brak ve ne sono parecchie decine che lo scorso anno l’Italia ha intercettato in acque internazionali, mentre cercavano di raggiungere l’Italia per chiedere asilo, e che ha riconsegnato alle motovedette italo-libiche, che li hanno poi ricondotti nei centri di detenzione come quello di Misurata. Persone che se avessero raggiunto un qualunque paese europeo avrebbero avrebbero avuto diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale.
Ma sta succedendo qualcosa di ancora più grave che i comunicati ufficiali nascondono.
La circostanza che la maggior parte degli eritrei trasferiti da Misurata a Brak si stia rivolgendo ( meglio, sia stata costretta con la forza a rivolgersi) al proprio consolato per il rilascio di documenti identificativi, e che questi documenti permetteranno l’inserimento in una “comune di lavoro”, come quelle presenti in Libia, uno degli ultimi baluardi evidentemente del socialismo ( e infatti in quel paese è vietata la proprietà privata della terra), comporta alcune conseguenze assai gravi, che alleggeriscono le responsabilità dei governi e costituiscono la premessa per la dispersione dei duecento rifugiati eritrei, declassati adesso a semplici migranti economici, che il “magnanime” governo libico accetterebbe di “regolarizzare”.
La identificazione di queste persone da parte del governo eritreo le rende ricattabili a vita, anche per le “attenzioni” che questo governo riserva a madri, mogli, figlie e sorelle di quanti tentano la via della fuga all’estero in cerca di asilo. Inoltre avere accettato, meglio essere stati costretti dai libici, con le violenze subite da giorni, a sottoscrivere un “accordo di integrazione” fissa a tempo indeterminato gli eritrei nella comune di lavoro nella quale verranno assegnati,ed impedisce loro qualsiasi futuro riconoscimento dello status di rifugiato, sia per i ricatti che potrebbero subire sui loro parenti in Eritrea, sia soprattutto perché una volta qualificati come migranti economici, e dopo avere chiesto “protezione”, attraverso la richiesta dei documenti identificativi, alla loro rappresentanza diplomatica in Libia, potrebbe ritenersi venuta meno la ragione per riconoscere loro, anche da parte dell’UNHCR, lo status di protezione internazionale.
Un trabocchetto in uso in Italia fino a qualche anno fa, quando ancora non era entrata in vigore la normativa comunitaria attuata con il decreto legislativo n.25 del 2008, consisteva nel chiedere e verbalizzare alle persone appena sbarcate se volessero lavorare in Italia. Tutti naturalmente rispondevano affermativamente, e tanto bastava alle forze di polizia per respingere immediatamente e ritenere infondata la domanda di protezione internazionale, con la successiva adozione di provvedimenti di espulsione o di “respingimento differito”. Un “trucchetto” che il d.lgs n.25 del 2008 ha in qualche modo ridimensionato, togliendo alla polizia di frontiera qualunque potere discrezionale nell’esame della domanda di asilo che adesso è di pertinenza esclusiva della competente commissione territoriale. Ma evidentemente la “formazione congiunta” italo-libica produce i suoi frutti ed ecco che adesso la polizia libica, e il governo che la dirige, hanno imparato lo stesso “trucchetto” che anni fa si praticava in Italia, e in certi casi, come alle frontiere portuali dell’Adriatico, si continua a praticare ancora oggi per impedire ai potenziali richiedenti asilo l’accesso alla procedura.
Per negare tutela e riconoscimento ai potenziali richiedenti asilo basta considerarli e trattarli come “migranti economici”, e dunque “clandestini”, se tentano di accedere al territorio senza i necessari documenti di ingresso e soggiorno. Quello che prima si faceva in Italia, a Lampedusa, adesso si fa in Libia, con l’aggravante che le persone vengono trattenute in condizioni disumane, esposti a continui abusi, cosa che capitava e capita anche in Italia, ma certamente non ai livelli di “raffinatezza” della polizia libica. La scelta di passare per migranti economici, e dunque di “regolarizzarsi” per andare a lavorare come schiavi, potrebbe dunque apparire per gli eritrei di Brak l’unica via per porre fine a giorni interminabili di torture e soprusi di ogni genere. E chissà che fine faranno quelli che non firmeranno questi “accordi di integrazione”, e i tanti che sono stati feriti e che vengono ancora picchiati se solo chiedono di essere curati.
L’accordo di “integrazione” e dunque la “regolarizzazione” forzata, con l’avvio degli eritrei ai “campi di lavoro socialmente utile”, ha altri importanti risvolti che certo faranno dormire sonni più tranquilli ai nostri ministri che da anni negano la presenza in Libia di richiedenti asilo e giustificano anche in questo modo i respingimenti collettivi in acque internazionali, praticati con tanto successo, prima dalle nostre unità navali, in particolare dalla Guardia di finanza, ed adesso subappaltati ai mezzi navali donati ai libici. I quali non hanno certo problemi di doversi adeguare agli scomodi standard dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa in materia di diritti umani, e alla Convenzione di Ginevra, soprattutto per quanto concerne il divieto di respingimento (refoulement) affermato dall’art.33 della stessa Convenzione. E infatti, se di migranti economici si trattava, e dunque di irregolari, o di “clandestini”,che magari avrebbero attentato alla “sicurezza” degli italiani, anche nel caso di somali ed eritrei, come di nigeriani o togolesi, ben potevano giustificarsi sia le retate a terra che la polizia di Gheddafi ha intensificato proprio a partire dagli accordi con l’Italia, quanto i respingimenti collettivi in acque internazionali, senza alcuna identificazione, vietati dall’art.4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’auomo e dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, documenti che evidentemente sono carta straccia non solo per la Libia ma anche per l’Italia.
Chiediamo ancora una volta che la Corte Europea dei diritti dell’uomo pronunci finalmente la sua sentenza per i respingimenti collettivi in Libia praticati il 6 e 7 maggio del 2009 dalla nave Bovienzo, altrimenti se passerà ancora del tempo, dopo fatti come la deportazione da Misurata, dei ricorrenti non ne resterà più traccia.
Attendiamo adesso con angoscia crescente altre notizie sulla sorte dei profughi eritrei, anche dopo la loro “liberazione”, magari per conoscere le tappe della loro “integrazione” in Libia. E vorremmo anche avere notizie al più presto sulla sorte dei numerosi feriti di Brak e delle donne e dei bambini rimasti a Misurata, come delle migliaia di migranti che la Libia continua a trattenere nei propri centri di detenzione, ancora inaccessibili, a parte qualche “visita guidata”, usata come al solito per ingannare l’opinione pubblica internazionale, o almeno quanti si accontentano delle liturgie sulla sicurezza recitate dai ministri sulla pelle di persone esposte giorno per giorno a detenzione illegale e ogni sorta di trattamenti inumani o degradanti.
Vorremmo anche che l’OIM e l’UNHCR chiarissero il senso della loro attuale presenza in Libia, magari facendo sapere quali garanzie sono previste perchè non venga coartata la scelta verso i cd.”rimpatri volontari” e quale sorte attende coloro che ancora si trovano in quel paese e sarebbero nelle condizioni di fare valere il diritto di asilo o un altro status di protezione internazionale in un qualunque paese che aderisca, a differenza della Libia, alla Convenzione di Ginevra.
Fulvio Vassallo Paleologo – Università di Palermo
UNA BREVE NOTA
care e cari, stamattina sul blog (come commento al pezzo “Ci stanno uccidendo” dove trovate altre notizie e aggiornamenti) era stato inserito solo il secondo documento di Fulvio Vassallo Paleologo ma appunto i documenti erano due: adesso li trovate entrambi qui. Ne approfitto per aggiungere che, a quanto sembra, le notizie continuano a essere pessime (persino a peggiorare, ove ciò sia possibile). Qualcuna/o si augura che dal meeting internazionale antirazzista di CECINA – vicino Livorno – che si apre domani possa partire quache iniziativa forte; bene ma credo che nessuna/o di noi debba delegare ad altre/i la responsabilità. Dobbiamo tutte/i continuare a muoverci. Ovunque sia possibile, ogni giorno. L’impegno è salvare tutte le persone recluse nei lager di Gheddafi ma ricordiamoci comunque quella frase citatissima (in un altro contesto) che, più o meno, suona così: “se pure salvi una persona solo comunque hai salvato un mondo” . Restiamo umani. (db)
Ci piace il tuo post e noi di Vongole & Merluzzi pensiamo a tal proposito che l’uomo (politico) deve ritorvare la misura di se stesso nelle cose quotidiane!
Spero avrai modo e voglia di ricambiare la visita…fuori misura! 😉
http://vongolemerluzzi.wordpress.com/2011/04/30/fuori-misurata/