G8 Genova: la verità dei media indipendenti e…

… cosa ci resta oggi

di Marco Trotta (*)   

 

Qualche giorno fa sono stato intervistato da Francesca De Benedetti per RepubblicaTV sul tema dell’utilizzo dei media indipendenti durante il G8 di Genova. L’occasione era ovviamente la condanna dell’Italia alla corte europea dei diritti dell’uomo per la vicenda Diaz durante il G8 di Genova. Insieme a me è stato intervistato anche Davide Ferrario regista di “Le Strade di Genova”, tra i film che è utile vedere per farsi un’idea di cosa è successo nel luglio del 2001. Si può scaricare da NGVision insieme a molti altri video sul tema.

Qui elenco qualche altro riferimento utile per approfondire gli spunti usciti nelle interviste

L’irruzione alla Diaz
Il video dell’irruzione alla Diaz, quello che poi è stato riutilizzato in documentari e film, non ultimo “Diaz” di Daniele Vicari sono di Indymedia, il network di movimento che si è affermato durante le mobilitazioni contro il WTO a Seattle nel ’99 e che in Italia vide un gruppo molto attivo proprio durante il G8 di Genova. La storia è contenuta nel libro “Media Activism” di Matteo Pasquinelli (qui in pdf), e in parte anche in “+KAOS – Il libro sui 10 anni di A/I” sul decennale del network Inventati/Autistici, e racconta in maniera interessante lo sforzo di un gruppo di hacker ed attivisti che grazie alla disponibilità delle prime macchine fotografiche e telecamere digitali ed alla possibilità di avere un sito dove postare questi materiali, riuscirono e fare “altra informazione” in un contesto dove ancora non esistevano né blog, né Youtube o social network. “Don’t hate the media, become the media” era lo slogan di allora.
Indymedia a Genova era alloggiata al terzo piano della scuola Pertini di fronte alla scuola Diaz. In quella scuola si trovava anche la segreteria del Legal Forum, gli avvocati del Genova Social Forum, al primo piano e le redazioni di Carta e Manifesto al secondo. Questa sistemazione ha permesso di riprendere l’irruzione nella scuola di fronte quasi in tempo reale. Nella stessa scuola era presente il network radiofonico Radio GAP che trasmise in diretta fino a quando la polizia non fece irruzione anche lì lasciando alla cronaca e alla storia la disperata testimonianza dei cronisti al microfono.

L’audio di Radio GAP fu messo in coda al film “Lavorare con Lentezza” di Guido Chiesa facendo un parallelo con un’analoga irruzione della polizia negli studi di Radio Alice a Bologna durante il ’77. Mentre il video di Indymedia fu trasmesso dal TG5 di Enrico Mentana poche ore dopo il 21 Luglio, con il logo oscurato, e fu la prima volta che un pubblico più ampio della piccola comunità della rete italiana, allora davvero accessibile a pochi, poté vedere quello che era successo alla scuola Diaz oltre le cronache modellate sulla versione della polizia.

Il filmato Blu Sky
Un altro filmato famoso è “Blu Sky” come è stato definito dal pm che portò i vertici della polizia a processo, Enrico Zucca. Ovvero pochi secondi che incastrarono definitivamente i vertici della polizia presenti di fronte alla Diaz con il sacchetto delle molotov che si stava cercando di far passare “in possesso dei manifestanti”. Nel libro “L’eclisse della democrazia” di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci si ricostruisce la vicenda che merita di essere conosciuta fin dall’inizio

Il falso fu smascherato grazie a un’intuizione dei magistrati e alla sincerità di un funzionario di polizia.

L’intuizione nacque dalla lettura delle relazioni di servizio raccolte dal Comitato d’indagine parlamentare e quindi inviate alla procura di Genova. I pm trovarono fra le carte la documentazione del ritrovamento, nel pomeriggio di sabato 21 luglio, di due molotov in corso Italia, lungo il percorso del corteo. Erano forse le stesse indicate come armi in possesso dei 93 arrestati alla Diaz? Ma perché, in quel caso, non avevano seguito il normale percoro, ossia il formale sequestro e la custodia in questura?

Occorreva una prima verifica, controllando tutti i verbali relativi alle molotov sequestrate durante le manifestazioni. Per non insospettire la polizia di stato, i pm non chiesero direttamente l’elenco, ma domandarono al procuratore aggiunto Pellegrino di avanzare una formale richiesta a sua firma. L’elenco arrivò. E le molotovre di corso Italia non vi comparivano. Non vi era quindi stato alcun atto di formale sequestro e custodia in questura. La pista era dunque buona.

Ma serviva la prova definitiva, che arrivò grazie alla testimonianza di Pasquale Guaglione, il vicequestore (in servizio a Bari) che aveva firmato la relazione scritta sul ritrovamento in corso Italia. A Guaglione furono mostrate le fotografie delle due bottiglie: una portava l’etichetta di un vino dei colli piacentini, l’altra commemorava un raduno degli alpini. Non gli fu detto che si trattava delle molotov della Diaz. Gli fu semplicemente chiesto se riconosceva nelle immagini le bottiglie rinvenute nel cespuglio l’anno prima. Guaglione non ebbe alcuna esitazione: erano proprio quelle. Il cerchio si chiudeva. Le molotov erano state certamente introdotte alla scuola Diaz dagli stessi poliziotti.

Ma il vero colpo di scena doveva ancora venire. Ebbe la forma di un breve video, ripreso dalla tv genovese Primo Canale nel cortile della scuola Diaz a perquisizione in corso. E’ un documento a suo modo memorabile, un piccolo monumento alla vergogna della polizia di stato. Le immagini ritraggono un gruppo di persone riunite quasi a cerchio davanti all’ingresso della Diaz-Pertini, a pochi metri dal portone. Discutono di qualcosa. Uno dei personaggi ha in mano un sacchetto azzurro. È l’involucro che custodisce le molotov. Il personaggio che regge il principale “risultato” della perquisizione è Giovanni Luperi. Accanto a lui si riconoscono Gilberto Caldarozzi, Spartaco Mortola, Vincenzo Canterini, Pietro Troiani, Francesco Gratteri, Lorenzo Murgolo. Di spalle c’è Giovanni Fiorentino (non indagato).

Per i pm è la prova che tutti hanno fin lì mentito, negando negli interrogatori ogni contatto diretto con le bottiglie molotov. La sequenza, secondo i magistrati, riprende il “conciliabolo” durante il quale viene deciso l’esito dell’operazione, ossia l’attribuzione ai 93 ospiti della scuola del possesso collettivo delle bottiglie incendiarie portate dall’esterno, con il conseguente arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e la possibilità di giustificare a posteiori la perquisizione eseguita sulla base dell’articolo 41 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps).

“Scoprimmo il filmato,” racconta oggi Enrico Zucca, “grazie all’insistenza di uno degli indagati, Michele Burgio, che ricordava una telecamera in azione poco dopo la consegna delle molotov, che lui stesso aveva portato nel cortile della scuola. Avevamo ricevuto e già vagliato moltissimi filmati. Li riguardammo con occhi nuovi e ci accorgemmo di questa sequenza. Sequestrammo il video e lo battezzammo ‘Blue sky’, perché ci permetteva finalmente di vedere un po’ di cielo chiaro…”

La vicenda delle molotov è così controversa che il tribunale di secondo grado nella sentenza emessa il 18 Maggio 2010 ha dovuto annotare che l’allora responsabile dell’Ufficio Relazioni Esterne della Polizia di Stato, Roberto Sgalla, non solo nell’immediata conferenza stampa non parla del “ritrovamento” delle molotov, ma sulle tracce di sangue che i giornalisti riscontrano nella scuola risponde con la storia delle “ferite pregresse” che verrà rilanciata dalla stampa per ancora lungo tempo prima di essere smentita

Viceversa non è decisiva la circostanza della conferenza stampa tenuta da Sgalla per dimostrare la buona fede degli imputati; infatti, osserva il P.M., in precedenza i giornalisti erano stati allontanati e Sgalla formalmente aveva vietato le riprese video; ma soprattutto Sgalla non ha riferito il fatto più eclatante del ritrovamento delle molotov, e nella successiva intervista rilasciata alle ore 02,00 al TG24 della RAI, oltre a ridurre il numero dei feriti a circa una ventina, ha introdotto la tesi che le ferite presentate dagli occupanti fossero pregresse, in quanto riferibili agli scontri dei giorni precedenti.

Quella conferenza stampa di fronte alla Diaz, ripresa da un video amatoriale, è stata poi inserita nel documentario “Genova. Per noi”, distribuito allora da Carta, Unità, Manifesto e Liberazione. Con Sgalla che chiedeva di non riprendere, rendono più chiaro il modo nel quale si cercò di far passare una versione di comodo quella sera. Dal minuto 2.10.

 

MauroBiani-G8genova

L’agente “coda di cavallo” identificato da un video fortuito
Nella sentenza della corte europea dei diritti dell’Uomo del 7 Aprile si legge che

La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti è dipesa, accusano poi i giudici, “in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia”

Un caso eclatante, tra i tanti, è stato quello dell’agente “coda di cavallo”, anche questa raccontata nel già citato libro “L’eclisse della democrazia”. Nei video dei pestaggi alla Diaz ad un certo punto i magistrati riconoscono un poliziotto che picchia un manifestate a terra con un manganello, o forse un bastone, e che si riconosceva perché aveva una “coda di cavallo”. Ad una richiesta diffusa inizialmente a tutte le questure la risposta fu l’invio di cinque foto ma nessuna corrispondeva all’immagine dell’uomo nel video. Il resto vale la pena riportarlo per intero dal libro stesso perché mette in chiaro anche quale è stato il rapporto tra i vertici della polizia e De Gennaro, da una parte, e la magistratura inquirente dall’altra.

“Ricordo che nelle audizioni del dottor De Gennaro e del dottor Manganelli, attuale capo della polizia” racconta Zucca, “facemmo presente il disagio procurato dal mancato chiarimento di alcune circostanze, per noi intollerabile, che gettava discredito sull’immagine dell’istituzione. Era un segno troppo evidente della mancata collaborazione. La polizia di stato era addirittura incapace di individuare un suo appartenente con caratteristiche così rare e anche un sottoscrittore del verbale di arresto un atto pubblico e per di più diretto alla magistratura. La risposta fu in apparenza un impegno solenne: non preoccupatevi… Ma in quella occasione, considerato che stavamo per decidere sui rinvii a giudizio, a chiaro che l’altra parte avrebbe voluto sentire assicurazioni e impegni, secondo i desideri esternati, cioè che forse i poliziotti avevano sbagliato, ma non dolosamente. Di questo dovevamo tenere conto. Era evidente che l’inchiesta si sarebbe chiusa in altro modo e avrebbe coinvolto uomini di vertice. Il contatto cercato era reciprocamente fallito. Si preparava lo scontro finale.”

“Coda di cavallo” alla fine è stato identificato, ma in modo del tutto fortuito e non per merito della polizia. Il riconoscimento è avvenuto grazie alla “segreteria legale” degli avvocati di parte civile raccolti sotto la sigla Genoa Legal Forum (Glf). Qualcuno ad un certo puntò notò, in un filmato relativo a una manifestazione svoltasi a Genova, ma successiva al G8, un agente con caratteristiche simili a “Coda di cavallo”. L’agente della Digos genovese e quello ripreso la notte della Diaz – si chiesero i collaboratori del Glf – erano forse la stessa persona? Gli accertamenti hanno confermato l’intuizione della “segreteria legale”. Con un incredibile dettaglio: il confronto informale fra le immagini e la persona in carne e ossa è stato compiuto direttamente in aula, durante le udienze del processo Diaz, che “Coda di cavallo” ha seguito con assiduità. Il misterioso poliziotto, cercato invano nelle questure di tutta Italia, è un agente della Digos genovese, che è scampato all’imputazione ma non ha rinunciato a seguire le udienze: non è chiaro se in veste privata durante le ore libere dal lavoro o comandato dai superiori. In ogni caso una beffa, quasi una provocazione per i magistrati, arrivati a identificarlo troppo tardi, con la prescrizione in arrivo, per poter procedere contro di lui.

Beffa nella beffa, “Coda di cavallo” (ma con i capelli tagliati) ha assistito anche all’udienza finale, il 19 maggio 210, quando la Corte d’appello ha letto la sentenza di secondo grado. Per quanto ormai scoperto, l’agente ha voluto esserci, incurante degli sguardi più disarmati che attoniti di avvocati, parti civili, semplici cittadini.

Video scomodi a doppio taglio.
Il materiale audio/video raccolto a Genova non fu immediatamente disponibile solo sul sito di Indymedia. Nel agosto 2001, in tempi record, un primo montato fu diffuso in VHS in quello che poi è rimasto alla storia come “Aggiornamenti #1” e che, proprio per questo, è stato successivamente rieditato. Ora si può scaricare da NGVision. Quel video fu il primo tentativo di squarciare il velo della ricostruzione massmediatica grazie a testimonianze dirette dalla piazza ed ai manifestanti vittime dei pestaggi.

Ma che il lavoro dei mediattivisti di allora fosse fastidioso fu chiaro quando il 20 febbraio 2002 un’operazione congiunta dei carabinieri alla ricerca di “nodi di Indymedia” portò alla perquisizione dei centri sociali Gabrio di Torino, Tpo di Bologna, Cecco Rivolta di Firenze nonché di una sede dei Cobas di Taranto. L’obiettivo era acquisire materiali da utilizzare “per tutti i filoni d’indagine del G8, sia quelle sui manifestanti violenti sia quelle che riguardano i presunti abusi da parte delle forze dell’ordine” nelle indagini coordinate dai pm genovesi Anna Canepa e Andrea Chianciani. In realtà molto di quel materiale fu usato per imbastire le inchieste sui cosiddetti “fatti di strada” che riguardavano le “violenze dei manifestanti” e fin dall’inizio furoni i soli oggetto delle attenzione della magistratura. Quell’evento, che in qualche modo prese alla sprovvista il movimento, portò molte persone ad impegnarsi nel supporto legale che servì non solo a raccogliere audio e video per difendere quegli stessi manifestanti dalle accuse che si stavano montando, ma anche per documentare i tanti casi di violenza da parte delle forze dell’ordine in quei giorni. I materiali raccolti furono usati e poi resi disponibili nel sito ProcessiG8.

La trappola di Piazza Alimonda
Un altro momento essenziale dove foto e video hanno avuto un ruolo determinante per smontare le prime ricostruzioni massmediatiche sul G8 di Genova è stato senz’altro in Piazza Alimonda dove il 20 Luglio venne ucciso Carlo Giuliani. Il primo mezzo di inchiesta sociale ai tempi del web per raccontare quello che successe davvero su il forum “Pillola Rossa” che oggi è stato rimesso in piedi nel sito del comitato ufficiale Piazza Carlo Giuliani.
Molte delle prime foto che smentivano le versione ufficiali furono pubblicate lì. Per esempio quella del sasso che deviava il proiettile che poi colpiva Carlo nonché la storia dell’estintore ad oltre 6 metri di distanza che si voleva far passare come una minaccia incombente contro chi occupava il defender dei Carabinieri. Tutto questo mentre sui giornali veniva (e viene ancora) pubblicata solo la famosa foto di Dylan Martinez dell’agenzia Reuters che nello schiacciamento prospettico faceva sembrare Carlo molto più vicino. Un dossier completo è contenuto in “Genova nome per nome” di Carlo Gubitosa che si può anche scaricare in pdf. Mentre dopo anni di battaglie anche legali, nonché in film come “Carlo Giuliani, ragazzo” della Comencini, la famiglia Giuliani ha raccolto tutte queste evidenze nel documentario “La Trappola” che si può scaricare dal sito Piazza Carlo Giuliani. Anche per questo motivo Giuliano Giuliani, il papà di Carlo, nel commentare la sentenza di Strasburgo non ha potuto fare a meno di notare che:

“Finalmente la Corte europea ha determinato ancora una volta le brutture commesse dallo Stato italiano. Già la sentenza di Cassazione su Bolzaneto aveva stabilito che lì c’erano state torture ma questo povero paese non ha una legge sulla tortura come gli altri paesi civili e quindi non si è fatto nulla”. Lo ha detto all’ANSA Giuliano Giuliani, papà di Carlo, ucciso da un carabiniere durante gli scontri in piazza a Genova durante il G8 del 2001 commentando la sentenza della Corte di Strasburgo sulla Diaz. “Per anni la Diaz era stata considerata una perquisizione legittima e a Bolzaneto si distribuivano cioccolatini e caramelle” ha aggiunto Giuliano Giuliani. “Fu la sentenza di secondo grado che diede un giudizio negativo, ma fino al 2010 il giudizio che veniva fuori dalle aule di tribunale, dal potere politico e dalla grande informazione era che si trattava di una perquisizione, non di una macelleria messicana, come un poliziotto che vi partecipò alla fine ammise”. “Chissà se l’attuale governo troverà il tempo di occuparsi di queste cose che riguardano la dignità del Paese” ha detto ancora Giuliano Giuliani. “La Diaz fu tra l’altro un effetto delle pressioni dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro – ha aggiunto Giuliani – come scrive anche la Cassazione. Le sue pressioni per fare recuperare credibilità alla polizia dopo la morte di Carlo e gli scontri portarono alla Diaz”. Giuliani ricorda: “la condanna in Italia per la Diaz non è tanto per la macelleria in sé ma per il falso che venne commesso inducendo l’ispettore e l’agente a introdurre le due bottiglie molotov nella scuola. I poveretti che presero le botte rischiarono anche 14 anni di carcere per terrorismo per le due molotov che i poliziotti misero nella scuola di nascosto”. “Mi indigna una cosa – ha concluso Giuliani -: che la prova regina di quel falso è un filmato di 5,5 secondi che li fa vedere fuori dalla scuola con il sacchetto con le due molotov. 5,5 secondi di video sono serviti per condannare i più alti capi della polizia ma ore di video sulla morte di Carlo non sono serviti a smentire l’imbroglio sullo sparo deviato”. Cosa bella, ma resta rabbia per Carlo – “Oggi resta la rabbia, perchè questa cosa è bella ma resta impunito l’omicidio di Carlo”. Lo ha detto Giuliano Giuliani, il papà di Carlo, ucciso da un carabiniere durante gli scontri in piazza a Genova in occasione del G8 commentando la sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia per tortura per i fatti della scuola Diaz. “La corte europea che oggi condanna per la tortura l’Italia è la stessa, anche se con una diversa composizione, che ci diede torto quando facemmo noi ricorso per le sentenze sulla uccisione di Carlo. In un primo tempo la ‘piccola corte’ di 7 membri ci diede ragione, poi lo Stato fece ricorso alla “grande chambre” composta di 12 membri e con sette voti contro cinque respinse il nostro ricorso lasciando senza verità, nessun accenno di verità l’omicidio di Carlo”.

Quando “become the media” è diventato reale
A quasi 14 anni di distanza molte cose sono cambiate nel contesto politico, sociale e tecnologico. Quel che c’è di certo è che l’enorme produzione di video, racconti e foto dopo il G8 di Genova, quell’inarrestabile movimento che ha reso “become the media” reale, ha spinto prima il paese e poi quella parte di giornalismo più attenta alla ricerca della verità a produrre inchieste e libri che hanno definitivamente ribaltato le ricostruzioni ufficiali che si stava cercando di imporre all’epoca. Marco Giusti nel racconto sul Manifesto delle vicissitudini del suo “Bella Ciao” lo dice chiaramente (per inciso scrivendo Carta male!)

Molti pensavano che la Rai avesse in qualche modo bucato Genova, ma non era vero. Ma c’era anche moltissimo materiale, inedito, che iniziava a uscire dalle piccole società indipendenti presenti a Genova, Charta, Indymedia, Radio Sherwood. Roberto Torelli aveva lavorato tutta l’estate a questa ricostruzione. Io avevo cercato di dare al tutto una forma, un montaggio, diciamo qualcosa di cinematografico. Carlo Freccero ci aveva dato l’idea buona per iniziare: l’attacco alla Diaz, da lì sarebbe partito il racconto delle giornate come un lungo flashback. E ci aveva illuminato sul commento sonoro. Nessuna voce off, nessuna intervista, solo le voci e i rumori veri della strada e una colonna sonora di canzoni rock scelte da una ragazzina, mia figlia Elena, che aveva allora quattordici anni e aveva appena finito la quarta ginnasio (oggi ne ha ventotto e insegna Latino a Cambridge). I Blonde Red­head, gli Inter­na­tio­nal Noise Con­spi­racy, i Kent, i Tool, i Blur. Quello che sen­ti­vano i ragazzi. La musica fun­zio­nava per rico­struire l’energia gio­va­nile che si deve essere sen­tita a Genova.

Oggi che aprire un blog è questione di due minuti, fare foto e video con gli smartphone è alla portata di chiunque e i social media sono veicolo tanto di informazioni utili quando di autentiche panzane molto spesso interessate, domandarsi cosa significa fare informazione indipendente e ragionare sul proprio ruolo è sempre più importante. In un contesto tecnologico ossessionato dall’eterno presente o dalla “prossima innovazione”, poi, provare a ragionare con qualche anno di esperienza sulle spalle può aiutare ad identificare le due o tre traiettorie più promettenti in tempi di Wikileaks e cablegate. Qualche tempo fa Mazzetta lo aveva fatto scrivendo

Il trascorrere degli anni continua quindi a confermare il bisogno di canali di pubblicazione che siano allo stesso tempo protetti e accessibili al più ampio numero di contributi, perché è evidente che anche i governi democratici, non meno di quelli autoritari, siano particolarmente aggressivi contro chi diffonde notizie e documenti sgraditi. Anche nei paesi che in teoria garantiscono la libertà d’espressione e cantano le lodi del giornalismo come cane da guardia della democrazia, c’è ancora e sempre chi rischia grosso diffondendo informazioni che danno fastidio. L’esperienza d’Indymedia resta quindi un patrimonio prezioso d’indicazioni e di riflessioni su una maniera diversa di costruire un media partecipato e al tempo stesso capace di proteggere chi lo alimenti dalle ritorsioni dei poteri più o meno forti e più o meno costituiti.

Più di recente Tom Liacas in un contributo tradotto anche in italiano ha ragionato in un contesto più globale come quello dei nuovi movimenti (gli indignados, le primavere arabe, ecc.)

Ormai, nel mondo in rapida evoluzione di oggi, gli Indipendent Media Center sono un capitolo di storia antica per i digital native. Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito all’emergere di una cultura globale realmente interconnessa, mentre paesi ricchi e poveri del mondo vanno ormai sperimentando elevati tassi di penetrazione delle tecnologie di rete. Per di più, in questo breve lasso di tempo si è verificato un così grande avanzamento nel campo dell’innovazione digitale e delle strategie degli attivisti, che molti movimenti sociali fanno sistematicamente ricorso a strategie di condivisione di contenuti e a un’impostazione social media marketing all’interno dei propri percorsi, senza neanche considerarsi media-attivisti. Eppure, ancorché riprodotta in tendenze e movimenti moderni, la sinergia generata dalle comunità quando ricorrono a social network strategies per sostenere le proprie battaglie ha dato origine ai momenti di cambiamento sociale, politico ed economico che hanno fatto notizia a partire dalla Primavera Araba. Su questi fronti, la mobilitazione della rete ha portate alla luce sensazionali e inaspettati riscatti del mondo reale, come il rovesciamento di regimi autoritari e persino l’emergere di nuovi modelli economici basati sulla condivisione delle risorse.

Mediattivi oggi
Fare un ragionamento articolato su cosa significa fare mediattivismo oggi esula dall’intenzione di questo contributo. Ma qualcosa si può aggiungere. Chi vuole confrontarsi su questo terreno ha bisogno di:

  • Nuove competenze e sempre più specifiche. Non basta scrivere o saper montare video. Occorre avere padronanza di numeri e gestione di documentazione cartacea e digitale per fare, ad esempio, del buon “data journalism”. Ovvero una informazione capace di trovare nuove storie, incrociare dati e racconti, produrre l’inchiesta sociale come quella dei comitati contro l’Ilva di Taranto, il Mous in Sicilia, la TAV in Val di Susa con l’autorevolezza di chi sa usare le fonti giuste nel modo giusto. La moltiplicazione delle piattaforme multimediali e la competizione con chiunque in rete nell’accaparamento del bene più prezioso, l’attenzione delle persone, è una vera sfida a saper costruire narrazioni avvicenti ma rigorose. Che sappiano comunicare storie importanti senza scadere nella propaganda che imperversa in una società che confonde il giornalismo delle opinioni con quello dei fatti e di conseguenza trasforma i social media in arene dove acchiappare i click degli utenti con titoli ad affetto, foto e video ammiccanti, con buona pace dei contenuti. Scrivere una buona storia ha un costo, fare fact checking e debunking è molto più oneroso ed ha bisogno di tempo, esperienza e competenze come racconta a proposito dei video di Youtube, per esempio Amedeo Ricucci.
  • Sostenibilità economica. Indymedia è stata resa possibile dalla filantropia ed è oggi è superata da servizi commerciali come Youtube. Carta, Liberazione e Unità non esistono più. Tirare su un sito è relativamente facile, ma mantenerlo nel tempo, aggiornalo, manutenzionarlo, proteggerlo e renderlo fruibile è un costo che i movimenti, per loro natura transitori, non riescono a accollarsi. Eppure è un impegno non meno importante delle vertenze politiche che vengono portate avanti.
    I siti citati qui si reggono grazie all’autofinanziamento delle comunità che ci sono dietro. E nell’era del digitale, che tutto rende disponibile ma che può far scomparire interi archivi con un click, è un tema ineludibile che impatta questioni come la memoria storica prima che le scelte tecnologiche. Insomma è una questione politica e solo secondariamente tecnica. Oggi il sito del Genova Social Forum (era qui www.genova-g8.org) non esiste più e sono passati solo 14 anni. Pochi nella storia di un uomo, un’enormità per quella tecnologica. Eppure non se ne può fare a meno se non si vuole rischiare che rimangano nella storia solo le verità degli altri e si debba continuamente ricorrere a quelle scritte nei tribunali per cercare un po’ di giustizia. E di verità.(*) ripreso da http://www.marco.trotta.eu . La vignetta è di Mauro Biani.

 

Marco Trotta

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