«Gandahar» di Renè Laloux

Un vecchio film di fantascienza da recuperare

di Luca Cumbo   

Tratto dal romanzo di fantascienza «Les hommes-machines contre Gandahar» (Gli uomini macchina contro Gandahar) di Jean-Pierre Andrevon, pubblicato in Francia nel 1969, il film narra le vicissitudini della città chiamata Jasper, nel pianeta Gandahar, attaccata da un nemico sconosciuto che sembra puntare allo sterminio totale di tutti gli esseri viventi.

Il guerriero Sylvian è incaricato dal Consiglio delle Donne, a capo del governo, di indagare la natura del nemico per poterlo sconfiggere. Senza scendere troppo nel particolare della trama, si potrebbe azzardare che il film affronti lo scontro fra mente-guerra-elemento maschile vs anima-pace-elemento femminile: vari simbolismi fallici deliranti da un lato e nudità femminili al comando dall’altro, tutti esposti senza alcuna malizia, sembrano voler indicare questa direzione.

La regia è di Renè Laloux, alla sua terza prova con un lungometraggio animato dopo aver diretto lo splendido «La planete sauvage» (Il pianeta selvaggio, 1973) [ne abbiamo parlato qui https://www.labottegadelbarbieri.org/il-pianeta-selvaggio-un-esercizio-di/] e «Les Maîtres du temps» (I maestri del tempo, 1982) quest’ultimo con la collaborazione di Jean Giraud, in arte Moebius, all’animazione. «Gandahar» ha avuto inoltre un montaggio e un regista differente, Harvey Weinstein, per la versione uscita in Usa, insieme alla collaborazione per i testi dello scrittore Isaac Asimov.

In «Gandahar» l’animazione è affidata a Philippe Cazaumayou, nome d’arte di Philippe Caza, importante fumettista e illustratore francese. Caza è stato collaboratore della ormai leggendaria rivista francese di fumetti «Metal Hurlant», fondata da Moebius e Philippe Druillet. Caza si mise in mostra a inizio carriera grazie ad una tecnica che utilizzava un personalissimo bianco e nero, per poi passare negli anni successivi a un uso altrettanto personale del colore.

Pur suggestiva, l’animazione non raggiunge le vette oniriche de Il pianeta selvaggio, che pure pativa la mancanza di risorse adeguate per la piena realizzazione del progetto. In «Gandahar» tutti i personaggi – uomini, robot, animali – sembrano ingessati nei movimenti, di contro però gli spunti offerti sono interessanti, i dialoghi mai banali, le ambientazioni efficaci e ben disegnate.

Probabilmente sulla produzione ha influito negativamente il periodo in cui il film è stato realizzato: la fine degli anni Ottanta del secolo scorso è stata uno dei momenti più bassi per la qualità dell’animazione europea; come termine di paragone basti pensare che nello stesso periodo di «Gandahar» – comunque un’oasi lussureggiante nel deserto “paninaro” euroamericano – in Giappone uscivano «Laputa, castello nel cielo» (1986) e «Il mio vicino Totoro» (1988) dello Studio Ghibli, due lungometraggi con standard qualitativi lontani anni luce dai contemporanei europei e americani (qui non si parla di successi commerciali, ma di qualità artigiana del lavoro). Renè Laloux, per portare a compimento il progetto, dovette rivolgersi allo studio d’animazione statale della Corea del Nord (SEK Animation Studio di Pyongyang), spinto dalla mancanza di fondi adeguati allo sviluppo delle proprie idee e dal disinteresse generale dei produttori francesi ed europei.

Degna di nota è la colonna sonora: sono adeguate e ben integrate nel contesto le musiche di Gabriel Yared, musicista libanese nato a Beirut nel 1949, stesso anno del primo armistizio tra il neonato Israele e il Libano. Yared incominciò a comporre musiche da film con Jean-Luc Godard in «Sauve qui peut (la vie)» del 1980, poi divenne autore di varie colonne sonore hollywoodiane e persino vincitore del premio Oscar per le musiche di «The english patient» (Il paziente inglese, 1996).

«Gandahar» è comunque un film da vedere.

Luca

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