Gas conteso

di David Lifodi*

Neuquén, città dell’Argentina centro-occidentale, già territorio patagonico, in lingua mapuche significa “audace”. Proprio le comunità mapuche da sempre hanno abitato questa terra, ma adesso dovranno convivere con un ingombrante vicino. Apache Energia Argentina Srl, filiale della multinazionale statunitense Apache, intende estrarre petrolio e gas shale per conto di Halliburton e Americas Petrogas e, come se non bastasse, le tre imprese hanno già provveduto ad aprire un pozzo dello stesso gas shale sui terreni della comunità mapuche di Gelay Ko: quanto basta per aprire un uno degli innumerevoli conflitti tra i nativi e il grande capitale secondo un copione già visto più volte in America Latina.
Il gas shale è un gas naturale derivante appunto dallo shale, un tipo di roccia sedimentaria composta da scaglie di argilla e quarzo, su cui presto sono confluite Apache e Americas Petrogas. Lo scopo principale, per il quale si è mossa anche la potente quanto sinistra Halliburton, consiste nel creare una nuova frontiera del gas naturale in Argentina, in grado di poter competere con le riserve della Cina e supportare quelle degli Stati Uniti. Da un lato, quindi, le perforazioni per incrementare l’estrazione di gas shale, autorizzate dalle istituzioni locali, dall’altra la fiera resistenza dei mapuche, discriminati in Argentina, come nel vicino Cile, a livello di diritti civili, sociali, politici e ambientali. Non è un caso che la comunità di Gelay Ko non sia stata nemmeno consultata per la costruzione delle infrastrutture necessarie ad alimentare il pozzo della discordia, “che raccoglie oltre cinque milioni di litri d’acqua mentre uno dei problemi maggiori dei mapuche è proprio l’accesso all’oro blu”.

La denuncia arriva dall’Associazione dei Popoli Minacciati (Apm), che, al pari dei mapuche, mette in guardia sul devastante impatto ambientale che potrebbe avere il processo di estrazione del gas shale, a partire dalla contaminazione delle falde acquifere. In realtà la questione di Gelay Ko, acutizzatasi in questi ultimi tempi, affonda le sue radici negli anni ’50: fin da allora le compagnie petrolifere avevano messo gli occhi su quel territorio, che le comunità locali hanno da tempo imparato a difendere. Le mire espansionistiche volte alla conquista di petrolio e gas non hanno riguardato solo le multinazionali, ma anche la provincia di Buenos Aires ed il Brasile, che ha tenuto lo stesso atteggiamento di potenza coloniale già sperimentato con il Paraguay in merito allo sfruttamento della diga di Itaipù seguìto al trattato capestro del 1973: acqua ed energia a prezzi stracciati provenienti dal suolo straniero. Al tempo stesso, la comunità di Gelay Ko proviene da una forte tradizione di lotte sociali, avviata negli anni’70 sotto la guida della Pastorale Indigena e capace di resistere sotto la dittatura militare, per cui l’occupazione degli stabilimenti di Apache per protestare contro la costruzione del pozzo di gas shale è stata un fatto naturale. La comunità di Gelay Ko, situata nella zona centrale della provincia di Neuquén, oltre al pozzo di gas shale appena costruito, deve fare i conti con più di duecento pozzi petroliferi sul proprio territorio già edificati in precedenza, e per questo ha dato al governatore di Neuquén Jorge Sepag un ultimatum piuttosto chiaro: stop alla costruzione di pozzi e gasdotti in territorio mapuche, diritto dei popoli indigeni a gestire ed amministrare le proprie risorse naturali, convocazione di una commissione che valuti in maniera imparziale l’impatto sociale, culturale e ambientale di Apache, trasparenza da parte delle compagnie petrolifere. In effetti le imprese voraci di gas e perforazioni hanno sempre fatto orecchie da mercante rifiutando qualsiasi forma di dialogo, nonostante sul sito di Apache esista una sezione dedicata esplicitamente allo sviluppo sostenibile nel rispetto dell’ambiente e della sicurezza per le comunità.

Insomma, una sorta di business verde, volto a tutelare, almeno sulla carta, azionisti, investitori e gli abitanti che vivono nei territori adiacenti alle attività di perforazione, secondo una perfetta operazione di green-washing. Peccato che sia bastata un’intervista rilasciata in estate da Gabriel Cherki, werken (“messaggero” in lingua mapuche) della comunità Katripayiñ ad Opsur (Observatorio Petrolero Sur), a smentire i buoni propositi sbandierati dalle compagnie petrolifere. Nella provincia di Neuquén, spiegava Cherky, non viene effettuato alcun controllo sui giacimenti, le contaminazioni sono all’ordine del giorno e le istituzioni non difendono gli interessi della popolazione, ma quelli delle compagnie petrolifere. Contaminazione dei corsi d’acqua, malformazioni genetiche e aborti sono le tristi conseguenze delle trivellazioni selvagge approvate dal governatore Sepag, preoccupato solo di rastrellare consensi tra le lobbies che di fatto si sono divise il territorio: le multinazionali del petrolio sono giunte a spartirsi i pozzi petroliferi e le zone ancora da perforare in azioni. Apache mantiene sempre una maggioranza percentuale superiore al 50%, seguono a ruota le compagnie sussidiarie, nel caso specifico Americas Petrogas Argentina, Energico Sa e Gas y Petróleo de Neuquén.

Ad oggi il dialogo tra mapuche e Apache è sospeso e gli abitanti delle comunità rischiano seriamente di essere sgomberate, con buona pace dei trattati sulla previa consultazione dei popoli indigeni firmati e sottoscritti anche dall’Argentina, ma ormai ridotti a carta straccia. Ni un pozo mas en nuestro territorio, dicono i mapuche, ma il modello estrattivista che ormai sta contagiando tutto il pianeta resta una minaccia costante.

* tratto da http://www.ildirigibile.eu/ 30 novembre 2011

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