Gheddafi, i nazisti, un leone, i film censurati e noi

Furono massacrati all’alba del 1 dicembre 1944. Dormivano tutti dopo la festa: quella che credevano una vittoria era solo un vile inganno. Dopo aver combattuto con i francesi in vari fronti della seconda guerra mondiale un centinaio [il numero esatto non è stato reso noto] di fanti africani, soprattutto senegalesi, vengono finalmente rimpatriati. Nel campo di transito a Thiaroye, vicino Dakar, scoprono che il salario pattuito non verrà pagato per intero. Il furto e l’arroganza sono la goccia che fa traboccare il vaso: si ribellano, prendono in ostaggio il comandante francese del campo. Trattative concitate, poi l’accordo: otterranno tutto quello che era stato promesso. Ai soldati africani basta la “parola d’onore”: rilasciano subito l’alto ufficiale e la sera festeggiano quella piccola, grande vittoria. Poche ore dopo vengono sorpresi nel sonno e massacrati dalle truppe francesi. Avevano combattuto contro il nazismo in nome della libertà ma restavano truppe coloniali, servi.

E’ una vicenda narrata nel film Campo Thiaroye dello scrittore e regista senegalese Ousmane Sembene [straordinario anche il suo Mooladè che, se avete perso nelle sale, potete recuperare nel video-libro edito da Feltrinelli e Lucky Red].

Nel Morandini, dizionario dei film [Zanichelli] Campo Thiaroye viene inquadrato come «un episodio storico che i libri di storia omettono, un orrendo crimine del colonialismo francese…». Uno dei tanti.

Anni fa mi era tornato in mente Campo Thiaroye perché finalmente stava circolando – in cineclub, centri sociali e qualche festa di Liberazione meno ingessata – un documentario censurato che riguarda da vicino la storia italiana. E’ Fascist Legacy di Ken Kirby, due puntate di 50 minuti trasmesse dalla Bbc nel novembre 1989 sui crimini delle truppe fasciste, subito acquistate dalla Rai, doppiate in italiano… per non essere mandate in onda. Mai.

Che dei crimini all’ombra del tricolore [con o senza fascio aggiuntivo] non si possa parlare è evidente a chi conosca i libri di pochi storici coraggiosi, in testa Angelo Del Boca. Quando il settimanale Carta pubblicò la mia recensione a Italiani, brava gente? [Neri Pozza] appunto di Del Boca mi capitò di incontrare a un dibattito alcuni giovani alter-mondialisti – “no global” secondo l’etichetta più banale – che erano informatissimi sull’oggi ma sconvolti di avere ignorato tanti pezzi importanti e sanguinosi della storia italiana.

Anche a me accadde lo stesso… Lo scoprii un po’ alla volta. E mi pare utile raccontare un pezzo piccino-picciò di questa mia luuuuuunga lotta (mai finita e di certo non può terminare) fra ignoranza e conoscenza.

Presi un po’ di coscienza passando per un clamoroso rapimento internazionale nel 1961, un processo che fece storia e un libro che molti citano (ma pochi hanno letto).

Avevo solo 13 anni quando i giornali di tutto il mondo annunciarono con clamore che agenti segreti israeliani avevano catturato in Argentina il nazista Adolf Eichmann, primo responsabile della “macchina organizzativa” nei lager cioè dello sterminio. Fu processato e condannato, l’anno dopo cioè nel 1962, a Gerusalemme in un processo sul quale ci restano riflessioni sconvolgenti in La banalità del male di Anna Harendt.

Era appunto il “banale” organizzare i crimini, una burocrazia perfetta e apparentemente priva di odio uno degli aspetti più inquietanti di quell’uomo sotto processo che visibilmente continuava a non provare pietà per le vittime: erano numeri in un meccanismo, quelle erano le leggi… qual è il delitto, dov’è l’orrore? si chiedeva Eichmann.

Mi turbò, come credo accadde a molti, scoprire anche quanti criminali nazisti fossero liberi. E cominciai ad appassionarmi a questo frammento di una storia non conclusa (nulla allora sapevo di come tanti criminali nazisti scapparono in America latina grazie a una rete che aveva tre punti di forza: Usa, Italia e Vaticano; oggi ne siamo certi grazie ai documenti segreti diventati pubblici negli Stati Uniti). Del processo Eichmann è rimasta memoria in moltissimi, meno dei processi successivi che si aprirono in Germania, pochi anni dopo, contro responsabili di crimini gravissimi: non erano figure di primo piano ma anelli di quella catena “banale”.

Su questi processi, ci rimane soprattutto la sofferta e straordinaria testimonianza – in forma di oratorio teatrale – di Peter Weiss, L’istruttoria [fu rappresentata più volte anche in Italia e comunque la si può leggere in un volume della Einaudi]. La linea difensiva, confermata da fatti e testimoni, dei tedeschi sotto processo era che queste persone – colpevoli di crimini orribili e infatti quasi tutte condannate – erano stati bravi, anzi esemplari, cittadini prima della guerra e ottime persone erano tornate dopo il 1945. Una linea difensiva che certo puntava sulle attenuanti, visto che i crimini erano incontestabili, ma era anche una verità. Bravi cittadini, obbedienti: giunsero loro quegli ordini e li eseguirono. Dov’è il crimine? Eppure anche lì, dissero i testimoni, qualcuno – fra i tedeschi, fra i soldati di Hitler – si era opposto. Dunque qualcosa si può fare sempre.

Qualche anno dopo scoprii – la storia familiare è spesso rimossa come quella pubblica – che mio padre era stato ufficiale fascista in Africa; con lo stesso criterio anche lui, anello intermedio di una catena di orrori, avrebbe dovuto essere processato. Ma gli italiani non ebbero la loro Norimberga a guerra conclusa né i processi successivi. Una serie di amnistie [discutibili e comunque applicate in modo scandaloso], di procedimenti archiviati, di documenti nascosti nehgli “armadi della vergogna” e di [comunque più rari] processi – quasi sempre finiti in beffa – nel dopoguerra rimise in libertà gli anelli minori di quella catena ma anche i peggiori assassini e i capi, compresi Rodolfo Graziani o quel Valerio Borghese che nell’ombra continuò a tramare contro la democrazia come hanno confermato anche i documenti segreti statunitensi che ora sono consultabili.

Anche per questa nostra smemoratezza collettiva, da noi il fascismo è rimosso, ignorato… mentre i tedeschi delle generazioni successive hanno fatto i conti sul serio con il nazismo. Quasi tutti in Italia, compreso Gianfranco Fini hanno chiesto «scusa» – chi lo ha fatto prima e chi molto dopo – agli ebrei per le persecuzioni ma le istituzioni mai hanno ricordato e pianto quelli che siamo andati a massacrare in Africa. Anzi passano gli anni i governi ma è bene che le imprese africane degli italiani – fascisti e non – vengano nascoste.

E infatti la censura – strisciante, mai dichiarata ma netta – colpisce dagli anni ‘80 sino a oggi Il leone del deserto: il film di Moustapha Akkad fu un campione d’incasso in molti Paesi europei. Un “filmone” tipico di Hollywood, con tutti i pregi e i difetti delle grandi produzioni, con ottimi attori [Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Irene Papas, John Gielgud… ]. Non lo si può vedere. Ci sarà una ragione. Questioni burocratiche pare. Il vero motivo è che mostra, in modo documentato, gli orrori italiani in Libia. Il «leone» del titolo era Omar Al Muktar, eroe della resistenza libica, tuttora notissimo in tutta l’Africa. Sarebbe chiedere troppo coraggio al nostro ministro della Pubblica istruzione… [scusate. avevo dimenticato che abbiamo sì una ministra ma senza scuola pubblica] che suggerisse di aprire il prossimo anno scolastico con questo film? Chissà però che qualche distributore coraggioso rimandi questo film nelle sale o che almeno nelle videoteche e librerie se ne possa acquistare un copia. I francesi hanno ancora molti Campo Thiaroye da scoprire ma questo non consoli noi italiani “brava gente”.

In questi giorni quasi tutti [perfino la Lega ma ovviamente nel suo caso è una sceneggiata] parlano male di Gheddafi. E figuriamoci se io trovo qualche motivo per difendere uno dei peggiori dittatori in circolazione, non per caso eccellente amico dell’Arturo Ui italiano che si fa chiamare Silvio Qualcosa. [La resistibile ascesa di Arturo Ui è un’opera di Bertolt Brecht sul nazismo versione gangster; ne consiglio assai la rilettura].

Però ogni tanto persino Gheddafi ha ragione. Magari in parte, magari per ragioni poco nobili.

In una delle ultime visite italiane sul petto del colonnello spiccava la foto di Omar al Mukhtar, «il leone del deserto». Cosa vuol far capire il leader libico, prima demonio terrorista e oggi angelo, agli ex-colonizzatori? Onon è a loro – cioè a noi – che parla?

Omar al Mukhtar è appunto «il leone del deserto» che ho citato prima. Il leader libico, prima demonio terrorista e oggi angelo, oggi loda il signor P2-1816 (quello che, di secondo mestiere, fa il presidente del consiglio) e in qualche modo i conti – quantomeno economici – con il passato sono saldati. Forse quella foto non è rivolta alla memoria mutilata dell’Italia ma serve solo per la retorica interna e internazionale (in ogni grande città araba c’è una via dedicata a Omar al Mukhtar). Retorica. Nascondersi dietro un grande.

Negli anni di «mani pulite» un uomo politico, sedicente di sinistra, dopo un commosso ricordo pubblico del «martirio di Giacomo Matteotti» fu arrestato: nelle mutande aveva i soldi di una mazzetta. Colpa sua, non di Matteotti. Amnesty International e il film «Come un uomo sulla terra» raccontano cosa c’è nelle mutande – o meglio nei lager – di Gheddafi. Non per questo la vergogna tocca Omar al Mukhtar, anzi. La vergogna è tutta italiana e infatti, 80 anni dopo, quasi tutti preferiscono glissare su storie ignobili.
Ma voglio dirla un po’ meglio questa storia di quanto fummo infami in Libia.

Un salto nel tempo. Fra gli anni ’20 e ’30 per oltre 200 volte i partigiani libici guidati dal «leone del deserto» attaccano gli italiani e svaniscono nel nulla. Imprendibili. Omar Al Mukhtar ha 63 anni quando, nel 1923, diventa il capo della resistenza anti-italiana in Cirenaica, come allora veniva chiamata la Libia. Una vita da insegnante del Corano e poi gli ultimi anni da eroe e genio militare. Infinitamente superiori per numero (oltre 20 mila contro 2-3mila) e per armamento (aerei e gas tossici massicciamente usati) i fascisti ci misero un decennio per piegare la resistenza libica che dalla sua aveva solo l’appoggio della popolazione e la conoscenza del territorio.
A vincere fu il generale Rodolfo Graziani, con massacri e campi di concentramento. Fascisti certo. Ma anche il colonialismo di Giolitti fu sanguinario quando nel 1911 (su pressioni del Banco di Roma, legato a interessi vaticani) aggredì la Libia: repressione scientifica, deportazioni (migliaia tra Favignana, Ustica e Ventotene ma anche tanti schiavizzati nelle grandi fabbriche del Nord Italia) e massacri come quello di Sciara Sciat su cui calò la censura. «Tripoli, bel suol d’amore» si cantava: in realtà suolo di orrore. Fra il 1911 e il ’15 la popolazione della Crenaica passa da 300mila a 120 mila. Allora però la sinistra italiana si opponeva al colonialismo. Forse perchè allora una sinistra c’era.
Fu dunque Graziani, un criminale di guerra al pari delle Ss, a sconfiggere Omar al Mukhtar. Deportando circa 100mila libici in 13 campi di concentramento: in 40mila vi moriranno.

Nell’estate del ’31 «il leone del deserto» è con soli 700 uomini, pochi viveri e quasi zero munizioni. L’11 settembre è catturato e dopo un processo-farsa impiccato il 16 settembre. Ha 70 anni e sale al patibolo sereno. «Non ci arrenderemo, la prossima generazione combatterà e poi la successiva e la successiva ancora». Da uomo religioso aggiunge: «da Dio veniamo e a Dio torniamo».
Di tutto questo sapremmo in Italia zero se non fosse per il coraggio di Angelo Del Boca e di pochi altri storici. In particolare sul massacro di Sciara Sciat bisogna ricordare il libro di Lino Del Fra – «Genocidio nell’oasi» – recentemente riedito.
Così paura fa la memoria che nell’Italia democratica non si può accedere agli archivi militari (salvo rare eccezioni come documenta «I gas di Mussolini: il fascismo e la guerra d‘Etiopia» sempre di Del Boca) e persino la fiction viene censurata. Lo ripeto: «Il leone del deserto» in Italia non circola Governi di vario colore lo hanno bloccato con vari pretesti. Persino 20, 30 anni dopo l’uscita del film. E noi zitti – quasi tutti – come per i simboli leghisti nella scuola di Adro.
Gheddafi non ha i titoli per annettersi Omar al Mukhtar. Chi invece si oppone ai suoi lager e al fascio-leghismo italiano sì. Che “il leone del deserto” sia ricordato almeno da noi, come i fratelli Cervi, come i martiri di Campo Thiaroye. E come Carlo Giuliani.

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