Giacomo Verri – Il treno delle arance

– Se, al contrario, dovrete agire… prometto che farò di tutto perché la cosa si accomodi nel migliore dei modi! – Nel dirlo piegò un tantino la testa così che il ricevitore aderisse meglio, mentre con la mano sinistra afferrava, senza scopo, un cubo di foglietti, quelli che si tengono vicini per prendere appunti. Seguirono poi altri convenevoli sempre più esatti, finché la telefonata terminò.
Era un problema. E non lo era solo per il sindaco, né solo per gli impiegati delle ferrovie. Quello era davvero un problema grosso: non tanto perché il paese, con quel provvedimento, sarebbe rimasto separato dal resto del mondo, quanto perché Gianvito Triste, il più aggrottato visionario che mai si fosse visto dalle parti di Villalbana, ne avrebbe studiata una delle sue, e solo Dio sa cosa ne sarebbe seguito.
Gianvito Triste, lasciata la Sicilia ragazzino, era giunto nel nord in punta al secolo, prima delle due guerre. Villalbana era allora un villaggio di venti case di mattoni mal cotti, un grumo di muri a calcina in mezzo alla pianura, servito dalle sole polveri di una strada di campagna; visto dall’alto sarebbe forse sembrato una palla di gelato sciolta dai calori d’una piazza; c’eran più polli che gente, nei ricoveri abbondavano gli attrezzi e il fieno e, tutt’intorno, piatti come monete, si stendevano gli orizzonti delle risaie, allagate d’acqua e di canti delle mondine, curve e belle come serpi del deserto, dalle cosce lucide con le calze di filanca, i mutandoni e il cappello a larghe tese. Gianvito arrivò lì un mattino, all’alba, facendo un casino da parere l’Anticristo a cavallo. Gli abiti che portava con sé erano quelli che aveva indosso. Sulle spalle teneva una profonda cassa di arance che, fin dal primo giorno, prese a vendere con profitto. Da allora Villalbana cominciò a profumare d’agrumi, specie nel lungheggiare nebbioso degli inverni, e gli abitanti vivevano tranquilli e digerivano bene.
Nessuno aveva mai capito come Gianvito facesse a rifornire il paese di arance così sode, grumose, fresche, e come riuscisse a farlo con frequenza precisa e accanita. Lui, da che era giunto, non s’era più mosso dal paese; eppure i frutti arrivavano ed erano eccezionali: quando la gente ne apriva le carni arancioni dimenticava tutto, come se stesse entrando nelle azzurrità dei cieli. Ma Gianvito non era persuaso: c’erano frutti più buoni, diceva, ma non sapeva ancora come farli arrivare. Si interessò presso la direzione regionale delle ferrovie, domandando quale diavolo impedisse la costruzione d’una strada ferrata fino a Villalbana. Gli risposero che il paese era fuori dal mondo, non stava a mezza via tra qualche grande città, né vicino a un fiume, a un lago, a un santuario, a un bordello. Sembrava che Villalbana non stesse da nessuna parte, sbattuta in una lontananza leggendaria, circondata com’era dalla pelle vibrante delle risaie, che cambia in colore col variare dei cieli, con l’ingrossarsi delle nubi, con lo spalancarsi della luce. Gianvito andò tutti i santi giorni a chiedere, a insistere, com’avesse dovuto rompere le ossa al misero destino che incombeva sul paese, finché una mattina un uomo dalla faccia scavata e dall’anima rotta gli disse che sì, avrebbero portato la ferrovia. Ci vollero mesi per veder arrivare il brillìo delle rotaie brune e, quando ci furono, portarono con sé una manciata arsiccia di muratori che tirarono a tetto una stazioncina rosa e grigia. Da quando la ferrovia fu inaugurata ufficialmente e il treno cominciò ad arrivare con regolarità tutti i mercoledì alle undici, e si costruì la primitiva stazione, con una scrivania, il telefono, e uno sportello per vendere i biglietti, si videro per le strade di Villalbana uomini e donne che fingevano un contegno normale e corrente, ma che in realtà sembravano gente di circo. Capo stazione fu fatto Amos, uno che, a dispetto del nome moschettieroso, nel paese non aveva mai lavorato e che, da allora, avrebbe guardato il mondo come lo guarda un re in trono.
Gianvito si racconta che non abbia mai sorriso della sua conquista: diceva solo che era una cosa  giusta e che avrebbe dovuto essere così da sempre. Quando entrava alla stazione non lo faceva con sussiego; anzi, sembrava voler chiedere il permesso con gli occhi grigi incastrati nella faccia di rughe. Per lui il treno era una necessità, com’è per gli uccelli il sereno; gli serviva per portare ai villalbani le più belle arance che si fossero mai vedute. E lo fece, lo fece per molti anni. Ogni mercoledì arrivava una cassa coi frutti dorati, una cassa enorme che, con un paranco, si posava sulla banchina. Gianvito rompeva i sigilli e poi, con benedettina pazienza levava i pomi uno a uno, li metteva nell’aria, li annasava. Quelli che non lo soddisfacevano li buttava tra le rotaie, sì che la stazione ebbe sempre un colore di Sicilia tra le sue grigiosità. Le arance che invece resistevano alla cernita le incassava in plateau leggeri, caricandoli su un calessino che Gianvito, col tempo, s’era potuto comprare.
Gli uomini e le donne, il siciliano li guardava di sfuggita, come si osserva il paesaggio in ferrovia; ma le sue arance, ah, le sue arance egli le aveva sempre fitte negli occhi, come la Madonna dei sette dolori tiene in cuore le lame. Se doveva andare alla posta, lasciava all’impiegato un’arancia; al caffè, quelle rare volte che ci passò, volle che gli spremessero solo frutti scelti da lui; dal barbiere, per far passare il tempo, ruotava tra le dita la più grossa sfera arancione che avesse nelle sue cassette in quel momento e, a tratti, ci infilava l’unghia e poi la passava sotto al naso. Anche ai morti, quand’erano bell’e calati nel buco, lui non lanciava un pugno di terra ma un’arancia odorosa. E le arance c’erano, perché c’era la ferrovia, un inutile ramo di ferrovia.
Avevano proprio detto così gli ingegneri: un inutile ramo di ferrovia da smantellare. Come poteva, il sindaco, dirlo a Gianvito, senza che quello si mettesse a fracassare il mondo? Ben sapeva che sarebbe stato come andare ad annunciargli il diluvio universale. La paura che gli suscitava quell’uomo era più grande di quella che aveva per il destino.
Era il tramonto, ovvero l’ora delle confidenze, quelle che gli uomini normali si prendono, in testa a un giorno di fatiche. Ma Gianvito non era un uomo normale, era un monomaniaco nella cui mente albergavano secolari pensieri fissi, il re dei quali era quello intorno alle sue arance e al treno che gliele portava. Togliergli la ferrovia sarebbe stato come levare il succo ai suoi frutti.
Quando Amos e il sindaco, con un codazzo di assessori, arrivarono in vista della casa, Gianvito stava in capo al balcone, come sempre a quell’ora, con l’aria d’un cristoforo colombo in prua alla Santa Maria. Gli piaceva guardar, di lì, il mondo, perché diceva che era meglio star fermi e stare in alto per vederci chiaro: sembra assurdo, ma egli non era mai salito in groppa al treno, sostenendo che, col suo correre come una gazzella nelle steppe, gli richiamava l’idea della precarietà della vita.
 – Gianvito! – gli urlarono. – La stazione… la devono abbattere! Via tutto, via i treni, via le rotaie… Hai capito?
Egli guardava lontano, appoggiato a due braccia sul finto granito del balcone monumentale che si librava a tutto strabalzo come un ventre di donna cannone. Arrampicava gli occhi nel cielo per spiare in tralice i piedi degli dei tra le nuvole rosa per il tramonto. Sul suo viso non ci fu nessuna vibrazione, nelle sue pupille non si ingrandì un vistoso rimpianto, né tra i fili della barba brahmsiana crebbe un mosto di rabbia, né lungo i lucidi mustacchi ghibellini, né tra i grumi della fronte, che aveva tarlata come un comò centenario. L’unica cosa che gli videro fare fu una breve smorfia seguita da un lungo posare delle ciglia: stette serio come un collegio cardinalizio cui avessero dato il compito di eleggere un papa in quattro e quattr’otto.
– Va bene! – rispose, e poi svuotò la faccia di ogni espressione, come se avesse messo i pensieri a maggese.
Gianvito smise di portare le sue arance ai clienti, e molti se ne dolsero. Lo pregarono, ma lui niente. Finché il treno funzionò, e funzionò, da quel giorno, ancora per poco più di due mesi, seguitarono ad arrivare anche gli agrumi, ed egli andava a pigliarseli accompagnato da cinque o sei ragazzoni che avevano imparato il mestiere, gente scelta e robusta, alla quale sembrava che avesse trasmesso anche l’ossessione per quei frutti. Ma non li vendeva più.
Arrivò il giorno in cui si sarebbe dato inizio alla demolizione. Per incupita ironia, la direzione generale decise che gli ingegneri sarebbero arrivati a Villalbana in treno. Per l’ultima volta. Lo buccinarono i giornali, e pure il sindaco si prese la premura di stampigliare dei volantini strombettanti, a drappi funebri, l’evento.
Il treno procedeva sbuffando, come sbuffano i treni quando fanno della strada in più, non prevista dal tabellario. Sarebbe giunto a Villalbana in faccia al mezzogiorno, col sole a perpendicolo. Tutti in paese temevano che il Triste facesse un colpo di testa, una matterìa che avrebbero ricordata per decenni. E n effetti una cosa accadde: il treno, là dove le rotaie piegano un poco, e la curva è nascosta dal cavalcavia, il treno, dicevo, nel prender l’abbrivio e infilare il corto tunnel, si trovò di fronte a un enorme vulcano di palle corrugate, una montagna di frutti, densa come un cimitero millenario, superba come la torre di Babele. Evidentemente per Gianvito quello era il modo più bello di opporsi al progresso che gli ingegneri dicevano di portare togliendo la via ferrata e promettendo una nuova super strada che sarebbe passata giusto a un chilometro da Villalbana. Il siciliano metteva innanzi a quegli uomini una gran fronte rugosa come quella che Moby Dick aveva martellato sul grugno di Ahab, una fronte rugosa arancione, fitta, fiera, furiosa.
L’empio mostro ci andò a sbattere come un cucchiaio che affonda nella marmellata: le palle schizzarono in cielo in un volo dorato.
Fu forse, quello, il più bello spettacolo che Villalbana avesse mai goduto. Ancora una volta il Triste aveva saputo portare la vita, come aveva portato il profumo degli agrumi nel vasto inverno del nord.
Del suo corpo si accorsero più tardi: era stato anch’esso tra quelle arance dalla scorza rugosa, anche Gianvito aveva messo il suo capoccione contro al treno, un capoccione che adesso si era spaccato, come un frutto maturo, come le arance che era solito gettare tra le rotaie quand’erano troppo guaste.

 

 

NOTA BIOGRAFICA: Giacomo Verri

Nato a Borgosesia (Vercelli) nel 1978. Insegno Lettere alle scuole medie. Laurea con il Prof. Giu-seppe Zaccaria presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro” con una tesi inti¬tolata Oltre la teoria: la narrativa di Umberto Eco. Attualmente sto frequentando un Dottorato di Ricerca in¬titolato ‘Tradizioni linguistico-letterarie dell’Italia antica e moderna’ sempre presso l’Università di Ver¬celli e sempre sotto la guida del Prof. Zaccaria. Mi occupo degli scrittori della ‘Ronda’, in particolare di Baldini e Cardarelli.

Narrativa:
– Un mio romanzo, Partigiano Inverno, è stato selezionato tra gli otto finalisti del Premio “Italo Calvino” 2011.
– Un mio racconto, Buoni maestri, è apparso sulla rivista online «Libri senza carta».
– Un mio racconto, Passano i guerriglieri di piombo, apparirà su «Nuova Prosa».
– Piccola intervista impossibile a Beppe Fenoglio, apparsa su «SibriSenzaCarta».

Articoli:
– “Baudolino. Dal riso alla menzogna: un altro modo di sognare il Medioevo”,         «Otto/Novecen-to», 2/2010, pp. 195-216.
– Segnalazione del volume di Giuseppe Torelli, Paesaggi. Storia e leggende in         Piemonte, presentazione di Giuseppe Zaccaria, Novara, Interlinea, 2010, in         «Novarien» (39).
– “Due scritti valsesiani di Achille Giovanni Cagna: Boccioleto e Valsesia”, che         apparirà in «De valle sicida», anno XXI, 2011.
– “Guglielmo da Baskerville VS Adso da Melk: istanze della ragione e del cuore nel         Nome della rosa di Umberto Eco”, che apparirà su «Rivista di Studi Italiani»,         2/2011, anno XXIX.
– “‘Ma gavte la nata”: sconfitta del non-senso, sospensione del processo         interpretativo ed epifania dell’Occasione ne Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco’,         che apparirà su «Levia Gravia», XII, 2010.
– “I castelli di Cannero: un ‘paesaggio’ manzoniano di Giuseppe Torelli”, apparso su         «LibriSenzaCarta».
– “Fame di letteratura”, intervento sullo stato della narrativa odierna apparso su         «SibriSenzaCarta»

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Clelia

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