Gian Filippo Pizzo: fantascienza come alternativa

La fantascienza arriva in Italia negli anni Cinquanta, ed ha il suo primo boom editoriale tra il 1957 ed il 1961: proprio tra lo Sputnik e Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio. Non è quindi azzardato sostenere che i primi lettori di queste pubblicazioni tipicamente da edicola fossero alla ricerca esclusivamente di avventure spaziali, un po’ prosecuzioni del tradizionalissimo genere della narrativa di viaggio, un po’ anticipazione di un possibile futuro tecnologico – figlio a sua volta del razionalismo illuminista e del positivismo del secolo precedente – che credeva che lo spazio potesse essere la nuova frontiera dell’umanità.

A riprova, il fatto che i giornali subito dopo il volo di Gagarin decretarono la prima “morte della fantascienza” (una seconda “morte” si ebbe nel luglio 1969, dopo l’allunaggio).

 

Ma chi si è accostato alla fantascienza in un secondo tempo, alla fine di questo periodo di successo, negli anni Sessanta, ha trovato un quadro molto diverso. La società era cambiata, la tecnologia aveva migliorato lo stile di vita delle famiglie, la musica ritmica sostituiva la melodia all’italiana, la fantascienza stessa era un’altra cosa. Bruciando in pochi anni quella che negli Stati Uniti era stata un’evoluzione che aveva impiegato lustri, la fantascienza di quel periodo era quella della corrente che fu chiamata “sociologica”. Ad usare questa espressione, modellata sull’originale social science fiction, fu una signora che si chiamava Roberta Rambelli ed alla quale tutti i lettori di questo genere devono essere grati, per il gran lavoro da lei svolto non solo come scrittrice, traduttrice, curatrice di collana, ma soprattutto per aver convinto editori non specializzati a pubblicare in collane generaliste autori particolarmente meritevoli (Bradbury, Simak, Sheckley) e ancora di più per aver confezionato alcune fondamentali antologie di social SF. Una di queste si chiamava Fantascienza: guerra sociale? (Silva, 1965), e chi scrive ha sempre mentalmente eliminato il punto interrogativo dal titolo, perché effettivamente i racconti presentati prefiguravano il conflitto che avremmo vissuto e che ancora viviamo per molti aspetti della società. Altro che conquista dello spazio, mostri giganti, alieni che vogliono invadere la Terra, macchinari superscientifici: la fantascienza sociologica parlava di guerre del futuro, manipolazione genetica, problemi religiosi, tecnologia troppo invadente, società totalitarie. Insomma, si recuperava un aspetto già presente nella tematica di uno dei padri fondatori della SF, Herbert George Wells, e che era stato momentaneamente abbandonato in favore della visione più avventurosa e positivista dell’altro grande precursore, il Jules Verne dei Viaggi straordinari. Ed anzi vi si aggiungeva, fino in pratica a conglobarla nella SF, una corrente minoritaria ma significativa della letteratura “alta”, l’antiutopia che aveva avuto i suoi massimi esponenti in Aldous Huxley (Il mondo nuovo, 1932) e in George Orwell (1984, 1949), entrambi inglesi come Wells. Nessuna meraviglia che chi si è formato come lettore di Sf negli anni Sessanta (magari alternando a queste letture i classici della letteratura mondiale, che finalmente venivano proposti in edizioni economiche negli “Oscar”, e mettendo sul piatto un disco dei Beatles o degli Stones) abbia del genere una visione abbastanza diversa da quella dei primissimi lettori di “Urania”.

 

Negli anni Settanta succedono più fatti. Intanto in Italia rimbalza l’ultima evoluzione della fantascienza anglo-americana, che da un lato – dal punto di vista formale – vede l’apertura ad un certo sperimentalismo linguistico che per la narrativa corrente era già vecchio (Joyce ne fu infatti l’autore paradigmatico), dall’altro consiste nell’inserimento nelle tematiche fantascientifiche di aspetti cari essenzialmente alla cultura mitteleuropea, che riguardano la psicologia, la filosofia, l’antropologia e altre scienze umane. Esplorare lo “spazio interiore” all’essere umano e non lo spazio esterno al nostro Pianeta è il nuovo imperativo (James G. Ballard, 1962). In secondo luogo, la fantascienza entra nelle librerie, pur senza abbandonare le edicole, e questo contribuisce ad un certo sdoganamento (mai completato fino ad oggi, per la verità) di un genere letterario ingiustamente ghettizzato. Per finire, questa situazione generale aiuta gli autori di casa nostra, che rispetto al passato hanno molte più occasione di poter pubblicare le loro opere.

In questo quadro nasce la rivista “Robot”, la più completa ed amata pubblicazione italiana di sempre, l’unica che pubblicasse assieme ai racconti articoli, saggi, recensioni, rubriche, lettere. Proprio un articolo su fantascienza e politica (di Remo Guerrini, nel numero 12 del marzo 1977) scatenò un aspro dibattito con e tra i lettori, la maggior parte dei quali si dichiarava apolitica o comunque pensava che la letteratura (intendendo più probabilmente la narrativa di genere) non dovesse prendere posizioni ideologiche, e che in ogni caso queste non riguardavano i lettori, che volevano sentirsi liberi di apprezzare tanto uno scrittore di destra come Heinlein quanto uno di sinistra come Delany. E’ stato scritto più volte che la diatriba provocò la fine della rivista, ma questo non è completamente vero: sicuramente avrà provocato un disinteresse da parte di una piccola frangia di acquirenti, ma non certo della gran parte. E’ possibile che questa giustificazione abbia funzionato inizialmente come alibi e per tale motivo può essere stata alimentata ad arte, ma la realtà fu che la rivista ebbe un progressivo calo di vendite semplicemente perché aveva esaurito il suo ciclo, aveva perso la sua carica innovativa. D’altronde, pare che gli italiani non amino i racconti, di qualunque genere letterario e specialmente di fantascienza, e sin dal 1952 e fino ad oggi riviste ed antologie hanno sempre venduto meno dei romanzi.

Comunque sia stato, a cavallo degli anni Settanta ci fu un dibattito, spostatosi da “Robot” alle fanzine (le riviste degli appassionati) ed a pubblicazioni a tiratura più limitata, che si chiamavano “Un’ambigua Utopia” (il nome era mutuato dal sottotitolo del romanzo di Ursula LeGuin I reietti dell’altro pianeta, Editrice Nord 1974) o “Pianeta Rosso” per la parte dell’estrema sinistra e si confrontavano con “Dimensione Cosmica” e altre della destra. Il dibattito ovviamente rifletteva la situazione italiana, ed è sintomatico notare come in fondo non si trattasse di una contrapposizione tra opposte ideologie, quanto piuttosto tra un certo conservatorismo di matrice essenzialmente cattolica e tradizionale e la cultura post sessantottina, che proprio nella science fiction e nella sua libertà di espressione vedeva un veicolo atto a propugnare le stesse idee di libertà già rivendicate in altri campi: famiglia, spinello, LSD, amore, coscienza, musica, consumi… Altrettanto indicativo è notare come l’assunto principale dell’articolo di Guerrini, e cioè che uno scrittore riflette sempre, magari inconsciamente, le sue idee, anche politiche, assunto che aveva appunto sconvolto i lettori benpensanti di “Robot”, veniva dato per scontato da queste pubblicazioni, che non su questo riflettevano ma sul significato da dare alle opere di certi scrittori (i quali venivano tirati per la giacca da una parte e dall’altra: vecchia abitudine della cultura italiana, come dimostra il caso di Nietzsche). Il culmine dell’intera vicenda si è probabilmente avuto con la pubblicazione di una raccolta di saggi di Diego Gabutti, pubblicata nel 1979 da La Salamandra con l’emblematico titolo di Fantascienza e comunismo.

 

Gli anni Ottanta vedono il trionfo del cyberpunk, anticipazione (ma presto anche riflesso) della globalizzazione e della rete telematica mondiale, corrente densa di significati politici, ma ad un livello più generalista (economia globale, multinazionali, sfruttamento e/o crescita del terzo mondo, bioingegneria e quindi bioetica, e così via) e di non immediata lettura nei suoi rapporti con la politica italiana. A leggere correttamente i libri di Sterling o di Gibson sono in pochi.

Negli anni Novanta, spinta anche dal crescente successo del fantasy, la SF torna ad essere un genere prettamente avventuroso, sia pure con maggiore attendibilità scientifica e maggiore coerenza narrativa: i personaggi non sono più stereotipi, il background riflette opinioni correnti dei più noti divulgatori di psicologia e antropologia, vanno di moda grandi saghe che miscelano l’avventura con una visione politicamente corretta del nostro e degli altri mondi, costruiti in maniera coerente con le ipotesi ecologiche e con gli insegnamenti della storia. Per quanto non citati, Desmond Morris, Jacques Le Goff, Turing e Laing sono riferimenti costanti di questa narrativa, come in passato lo erano stati Wiener, Von Braun, Spengler, Gibbon.

Negli anni Duemila non c’è nessun particolare innovamento – o forse ce ne accorgeremo quando saremo in una corretta prospettiva storica – e la fantascienza sembra proseguire seconde le linee precedenti. E’ vero che il numero di film di SF è in continuo aumento, è vero che elementi fantascientifici fanno capolino in altri generi letterari senza procurare disturbo nei lettori (sono concetti ormai assimilati dalla cultura di massa, e perciò banalizzati), è vero che aumenta il numero di “commistioni” fra generi popolari diversi, ma il genere fantascientifico nel suo complesso non presenta nessuna novità. Anzi, pare di assistere ad una involuzione: quella che una volta veniva definita (anche) “letteratura di idee” adesso di idee non ne ha molte ed è incapace di attingere alle nuove scoperte o teorie scientifiche (ovviamente il tutto in generale e con le dovute eccezioni: autori come Egan o Benford non solo smentiscono questo assunto, ma anzi paiono molto più in accordo con il progresso scientifico di quanto non lo fossero scrittori come Asimov o Clarke rispetto alla scienza dei loro tempi).

 

E questo è uno dei motivi che ci ha spinto a fare questa antologia: se la SF tradizionale è ormai incapace di trarre stimoli dalla scienza e dalla speculazione filosofica, la SF di più chiara derivazione dall’utopia (positiva o negativa) dovrebbe trovare nei cambiamenti sociali sotto gli occhi di tutti ampi motivi di riflessione. Indubbiamente sarebbe una produzione marginale, ma non per questo meno valida, o meno necessaria.

Un secondo motivo è talmente banale che non varrebbe la pena di esplicitarlo. Perché la fantascienza non dovrebbe essere sottoposta alle stesse considerazioni che hanno riguardato le altre arti e il loro significato nei confronti della società? E se il dibattito sul valore sociale della letteratura sembra ormai seppellito, secondo noi vale ancora la pena di tenerlo vivo – e comunque col parlarne nei confronti della SF non facciamo altro che colmare un vuoto.

Più importante un terzo motivo, squisitamente politico. Lungi dal pensare che con la caduta del muro di Berlino le “vecchie” categorie di destra e sinistra siano ormai superate (così ci ha scritto un amico, avuto notizia della selezione che stavamo compiendo), troviamo invece che di fronte ad uno spostamento a destra anche di partiti tradizionalmente rivoluzionari occorra reagire rivendicando sia pure per mezzo della narrativa le istanze e i desideri di quella parte della società civile ancora rimasta ai margini della società del benessere. E siccome siamo e vogliamo restare in un regime di libertà e di pluralismo, crediamo sia nostro diritto opporre la nostra visione a quelle che ci sono state proposte dall’editoria negli ultimi anni, come l’antologia Fantafascismo (curata da Gianfranco de Turris per Settimo Sigillo, 2000) o il ciclo “ucronico” Occidente di Mario Farneti (Editrice Nord).

 

Ma, alla fin fine, il motivo principale è forse un altro, ancora più semplice. Se, come si diceva sopra, la fantascienza ha ottenuto un certo sdoganamento anche a livello accademico (le tesi di laurea sull’argomento sono ormai consuete) in virtù della forza di certe sue trovate e dell’abilità di alcuni (pochi) scrittori; se film come Matrix o romanzi come quelli di Philip Dick sono in grado di provocare dibattiti sull’essenza della realtà e sulla trascendenza, dibattiti squisitamente speculativi che coinvolgono la logica e la filosofia; se molti concetti una volta appartenenti ad una ristretta fascia di “sognatori” sono divenuti di pubblico dominio; se la fantascienza ha anticipato problemi oggi presenti nel mondo (dall’ecologia alla sovrappopolazione); se… Se tutto questo è vero ed è stato riconosciuto, perché non deve essere altrettanto per la più sociale di tutte le “scienze”, la politica?

Ecco, far vedere che oltre a presentarci “mostri, astronavi e robot” la science fiction può speculare sul nostro futuro – e parliamo proprio di speculazione, estrapolazione, non delle fantasticherie ambientate in un remoto futuro partorite da qualche sceneggiatore hollywoodiano – prendendo spunto dalla situazione del presente ci sembrava estremamente significativo. Ancora di più se questa speculazione non si basa su situazioni astratte ma su quello che abbiamo sotto gli occhi in tutti i momenti: le guerre dimenticate, la povertà del terzo mondo, l’infanzia negata, la carenza di acqua, il potere economico delle multinazionali, le epidemie nascoste. Di più ancora se l’ambientazione di questi racconti è italiana, se i riferimenti più immediati sono alla nostra storia trascorsa e recente, se guardano alla situazione della nostra popolazione, se la riflessione riesce ad essere persino “partitica” più che politica (e ovviamente ci sono testi certamente non allineati con la sinistra ufficiale… ).

Trovare racconti che rispondessero a queste esigenze non è stato facile, ma alla fine pensiamo di esserci riusciti. Accanto a storie più squisitamente politiche ve ne sono altre che, senza essere legate all’attualità e senza essere particolarmente di parte, propongono riflessioni più generali sul “potere”, sul ruolo dell’individuo nella società. Le abbiamo inserite perché la nostra è pur tuttavia un’antologia di racconti e la leggibilità delle opere è stata la nostra prima preoccupazione. Pertanto questa raccolta può essere letta semplicemente come un’antologia di fantascienza italiana – prodotto che scarseggia sempre sul mercato. Una raccolta che, speriamo, trovi consenso anche aldilà delle posizioni politiche proprio in virtù del fatto che molti racconti sono notevoli, ben scritti, validi sotto svariati punti di vista, capaci di creare pregevoli atmosfere.

 

Infine – che altro dire? – troverete che si può fare una “guerra preventiva” contro Marte (non si sa mai… ), che la contestazione al G8 di Genova ha provocato effetti indesiderati, che anche i robot si mettono a fare i kamikaze, che il Comunismo (almeno quello storico) non è davvero il regime migliore, che le elezioni italiane possono essere più efficienti… questa è fantascienza!

UNA (non proprio) BREVE NOTA

Questo bel pezzo (che ovviamente pubblico con l’autorizzazione di Gian Filippo Pizzo e della casa editrice) apre l’antologia “Ambigue utopie” ovvero “19 racconti di fantaresistenza”, pubblicata in marzo da Bietti; spero che possa favorire una discussione fra amanti e detrattori della fantascienza, innamorati (anche respinti) dell’utopia, apocalittici, integrati e le moltitudini di non so. La mia recensione del libro su codesto blog è in data 9 giugno; mi sono anche augurato di fermare Vittorio Catani che anche in questo libro – genialmente imperterrito – continua a procurare munizioni, cioè idee, ai nostri nemici (quelli che ci succhiano aria, sangue e intelligenza).

Ribadisco l’invito a leggere il libro, interessantissimo anche nei suoi limiti – storicamente dati avrebbe detto il famoso barbuto di Treviri – fra i quali la presenza di una sola donna. Le statistiche continuano a parlarci di un’Italia dove i poteri e le visibilità restano nelle mani maschili mentre sono le donne a studiare e leggere di più. Prima o poi questa incogruenza si tramuterà in un’esplosione… ma questo è un discorso che forse va tenuto in caldo per un’altra occasione.

Ricordo che il mio amore per le (molte) fantascienze si è tradotto in alcuni libri-ornitorinchi scritti con Riccardo Mancini, al cui ricordo dedico saggezze e pazzie dei martedì o venerdì che ho e – come da vecchio modo d1 dire – di quelli che mi mancano. Per aspera ad astra, al solito.

Infine “meditati consigli per un sobrio ma urgente acquisto”. Sabato ho preso in edicola l’Urania 1563 (4,20 euri per 284 pagine) ovvero “Rollback” del canadese – anche lui stra-lodato su codesto blog, nellas sezione “Omonimie” – Robert Sawyer. Vi invito alla spesa per due ragioni: la  prima è che ho una cotta (intellettuale) per lui e  la seconda che nelle 130 pagine lette finora ci sono più idee, inquietudini, suggestioni che nei 20 Urania precedenti – eppure alcuni non erano malaccio – tutti insieme. (db)

Redazione
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2 commenti

  • Gian Filippo Pizzo

    Solo una precisazione, caro Daniele: di donne ne abbiamo contattate tante, ma quasi tutte hanno declinato l’invito. Molte avevano altri impegni, altre preferiscono scrivere generi diversi (la SF non attira più, oggi vanno fantasy e noir – e questo sarebbe materiale di dibattito), qualcuna ci ha mandato racconti fuori tema o non validi. Alla fine è rimasta solo Daniela Debenedetti, che però credo tenga alto il vessillo della “categoria”. Tra l’altro, sto cercando di assemblare nuove antologie ma il problema rimane (anche se, spero, meno accentuato).
    Cari saluti e grazie.

  • Ehm… “Milena” Debenedetti… 🙂

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