Gino Di Costanzo: cronachetta di un suicidio

ovvero: sulla utilità dell’assenza di una coscienza di classe

Sono passati circa sei mesi dal mio riuscito suicidio, adesso riesco a parlarne. Fu un’esperienza orrenda, di quelle che ti segnano per tutta la vita, cioè per tutti quei secondi in cui ti rendi conto che stai per morire. Ma non è il caso di divagare proprio adesso, procediamo con ordine.
La morte della mia bisnonna per overdose fu un duro colpo, caddi in un viscoso stato di prostrazione che per alcune settimane ridusse il mio interesse per la vita alla pura sopravvivenza biologica. Mi sentivo smembrato, lacerato dentro. Tentai di uscirne facendo leva sulla consistenza del mio carattere da guerriero in incognito, così presi in prestito alcune sostanze liofilizzate con cui la povera bisnonna esercitava le sue narici, tirandomi su il morale. L’affetto del mio barboncino nero, Louisarmstrong, che due volte al giorno mi pisciava sui piedi col guinzaglio in bocca per catturare la mia attenzione, fece il resto.
Ero quasi guarito da quel profondo stato depressivo quando, una mattina di aprile simile ad altre mattine di aprile, lessi sul giornale che la cantante Isa Banicchi si sarebbe candidata alle elezioni. A quella sciagura nemmeno il combattente sotto mentite spoglie che ero seppe opporre resistenza, e mi arresi: la faccio finita!
Il problema vero sorse in seguito, allorquando mi accinsi a progettare le modalità della mia morte volontaria: mi resi conto per la prima volta che il soldato che mi batteva in petto era un disertore vigliacco, e di fare il volontario proprio non ne voleva sapere.
Ci pensai su un paio di giorni, poi ebbi l’illuminazione: bisognava trovare qualcuno che avrebbe fatto il lavoro per me, ma chi?
Una sera, durante una delle pisciatine casalinghe di Louisarmstrong, dopo essermi rosicchiato le unghie e spolpato le falangi, trovai la risposta. Cullai quell’idea tutta la notte, considerando anche lo spreco che avrebbe comportato la morte prematura di un genio come me. Ma il pensiero della possibile elezione di Isa Banicchi sostenne e condusse la mia determinazione fino al compimento del giorno dopo quando, terminato il periodo di ferie per malattia che mi ero preso, sarei tornato al lavoro.
Arrivai in cantiere di buon mattino, alle sette e trenta circa. Lavoravo per un’azienda che si occupava di edilizia residenziale: realizzavamo edifici inguardabili che avrebbero deturpato luoghi già offesi dall’uomo. Radunai tutti gli operai, che accorsero mostrando la sollecitudine che avrebbero immancabilmente smarrito nel corso della giornata. Quando fui sicuro di avere la loro attenzione,  con la voce ferma di uno che non torna più indietro, dissi loro: “ Sono comunista”.
Erano in dieci e trasalirono simultaneamente. Riavutisi dalla sorpresa cominciarono a scambiarsi oblique occhiate d’intesa, mentre pian pianino riducevano la distanza che mi separava da loro, che li separava da me. Dietro la mia impassibilità quasi me la ridevo per la facilità con cui stavo manipolando quei lavoratori, costringendoli a fare il mio lavoro sporco. Mi circondarono, i primi ad afferrarmi per le braccia furono i due manovali, dei qualunquisti convertiti al satanismo, ansiosi di sperimentare il loro primo sacrificio umano. Mentre questi mi tenevano fermo, uno dei tre muratori, devoto di Salvio Perusconi, mi colpì al mento, proprio con un pugno da muratore. Altri due dietro di lui, muratori pure loro, affezionati sostenitori di Lino Raudi, si contendevano  il diritto di raggiungere anch’essi l’agognata meta: la mia faccia. Ma il bello venne quando entrarono in campo i cinque carpentieri, tre di Forza Uova e due leghisti oriundi, dei veri operai insomma, che cominciarono a colpirmi anche da dietro, fin quasi a farmi perdere conoscenza. Una voce che non riconobbi, a un certo punto disse: “ Non qui, portiamo ‘sto Gorbaciov nel magazzino!”.
Mi sollevarono di peso, mi portarono nella baracca degli attrezzi e mi fecero a pezzi, sì, proprio a brandelli, mostrando grande versatilità ed eclettismo in quell’uso alternativo degli utensili.
Da morto fresco di giornata, come ero sei mesi fa, mi confortò il pensiero che non avrei mai più corso il pericolo di vedere o sentire il “deputato Banicchi”. Solo che, purtroppo, continuavo a sentirmi smembrato e lacerato, disseminato come ero – e sono – in sei pilastri di calcestruzzo di questo edificio in costruzione di cui farò parte per sempre.

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