Giordania: pugni per abbattere il patriarcato

She fighter, la prima scuola di arti marziali in Medio Oriente esclusiva per le donne

di Maria Teresa Messidoro (*)

 

Così va il mondo: con l’associazione Lisangà culture in movimento partecipo alla progettazione e creazione di una palestra popolare nella comunità rurale di San Francisco Echeverría, in El Salvador.

Nella fase di ideazione del progetto, ci mettiamo in contatto con la associazione La cultura del barrio di Buenos Aires (1): la loro iniziativa di un boxeo popular, sorta nel 2018, ha come finalità quella di creare uno spazio sportivo gratuito, di scambio e incontro, contro la logica del mercato e quella individualista, che consente l’accesso a questo  diritto  soltanto a chi può pagare per ottenerlo. Però il boxeo popular è solo la punta dell’iceberg di un progetto più ambizioso.

Perché questo progetto di solidarietà sa dove si colloca e che lotta contro qualcosa di più grande. La disuguaglianza sociale costituisce una realtà estremamente complessa, che in termini di povertà non si limita solamente alla questione delle entrate economiche. Chi porta avanti boxeo popular ritiene che sia importante  tener conto del percorso di questi bambini/e e adolescenti, i cui diritti sono violati costantemente.

Questa violazione sistematica dei diritti, sommata alla criminalizzazione e stigmatizzazione che ricade sopra i quartieri in cui vivono gli adolescenti, si traduce, come dice il filosofo sloveno Slavoj Žižek, in una  violenza strutturale, simbolica e soggettiva alla quale vengono costantemente esposti gli stessi ragazzi della periferia di Buenos Aires.

La scuola di boxe, invece, stabilisce un dialogo di aiuto e cooperazione tra uguali, un dialogo a tu per tu, “perché i settori popolari hanno una voce, i ragazzi hanno una voce, non hanno bisogno che qualcuno li interpreti o parli per loro; perché per costruire alternative reali abbiamo bisogno dei loro saperi, delle loro esperienze e dei loro desideri. Non si tratta di costruire sopra gli altri, si tratta di costruire con gli altri”, dice Laura, una delle volontarie di La cultura del Barrio.

Come associazione Lisangà decidiamo di inviare proprio a Buenos Aires, a stretto contatto con l’associazione argentina, due giovani di San Francisco Echeverría, Gerardo Cartagena e Heydi Gómez, per uno stage di formazione sportiva ma anche politica-sociale, che si è svolto a febbraio di quest’anno.

Nella preparazione del materiale di supporto per la loro esperienza, mi imbatto in un articolo in cui si parla di She Fighter, la prima scuola di arti marziali in Medio Oriente, più precisamente in Giordania, per sole donne. (2)

Secondo uno studio del 2015 dell’Università di Scienza e Tecnologia della Giordania, un 64% delle donne giordane ha patito abusi sessuali, fisici o emozionali; di queste, un 90% non ne ha mai parlato con nessuno e solo un 3% sarebbe disposta a denunciare ciò che ha patito alle autorità competenti.

Ancora: in una indagine del Dipartimento di Statistico giordano risulta che un 87% delle donne del paese mediorientale giustifica la violenza intra familiare.

Ma qualcosa si sta rompendo: sulla parete della palestra del progetto She fighter, ad Amman, campeggia una frase dell’attivista statunitense Maggie Kuhn, che recita: “Parla forte, anche quando la tua voce trema”.

Le risate e le grida che accompagnano le lezioni di allenamento dimostrano che si può rompere quel silenzio che ci si aspetta da quelle donne.

La fondatrice di She Fighter è Lina Kafile, che si autodefinisce una guerriera; la sua storia d’amore con le arti marziali inizia molto presto, quando arrivava appena a due palmi dal suolo.

A 5 anni calpesta per la prima volta un tatami di taekwondo e a 14 incomincia a competere in gare ufficiali, incontrando sempre lo stesso problema: troppo uomini e troppo testosterone. Ha continuato ad allenarsi, anche se spesso costretta a cambiare palestra: ha vinto una ventina di medaglie a livello nazionale e internazionale, quando partecipa con la squadre giordana in incontri ufficiali. Ma quando la federazione del suo paese scelse di inviare alle Olimpiadi un uomo, che aveva soltanto una medaglia di bronzo, escludendola in quanto donna, decide che è ora di ripensare al proprio futuro, soprattutto dopo essersi rotta anche i legamenti.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando, durante una grande manifestazione di giovani universitari, una sua compagna fu pesantemente maltrattata. E così, nello scantinato della casa dei genitori, incominciò ad allenare un’amica, poi un’altra e un’altra ancora. Nel 2012, due anni dopo quell’episodio, inaugurava ad Amman la prima accademia She fighter, senza sapere né immaginare cosa sarebbe successo dopo.

Il dopo è oggi: oltre 15.000 donne allenate dentro e fuori la Giordania; siccome il costo del corso iniziale di autodifesa non sarebbe possibile per le classi sociali disagiate, grazie ad accordi con organizzazioni non governative di tutto il mondo, Lina ha potuto impartire lezioni gratuite alle donne dei quartieri più poveri o a quelle più vulnerabili, come coloro che possiedono delle diversità funzionali. E’ riuscita anche a insegnare a più di 3.000 rifugiate siriane, un lavoro significativo ed importante in un paese che accoglie migliaia di profughi dalla vicina Siria.

La palestra She fighter è un centro esclusivamente femminile, dove le alunne ricevono lezioni di autodifesa e di combattimento, oltre a brevi corsi di formazione sulla violenza maschilista, trasformandosi così in uno spazio sicuro e di crescita per le donne che vi partecipano.

Shahed è una studentessa di medicina; quando frequentava una palestra tradizionale, durante gli allenamenti di kick boxing, gli uomini la guardavano sempre dall’alto in basso. “In un allenamento riuscii a buttare al tappeto un uomo, che si è rialzato con un occhio nero. Ciononostante, leggevo sempre nei suoi occhi la sua presunta superiorità” racconta. E per questo, per combattere a modo suo il paternalismo, ha scelto She fighter, in cui svolge oggi il ruolo di allenatrice.

Lina Khalife aggiunge: “Insegniamo alle donne le tecniche che devono servire, in una situazione reale, a produrre una reazione automatica. Ciascuna di loro ha una sua storia, ciascuna ha vissuto una esperienza che ora può tornarle utile”; perché è importante non solo imparare ad attaccare, ma anche schivare situazioni pericolose e modificare i propri atteggiamenti fisici e mentali per prevenire aggressioni.

La fondatrice di She Fighter, Lina Khalife

 

In palestra giungono donne di qualsiasi età ed estrazione sociale, giordane o straniere, religiose o laiche, donne nubili, sposate o divorziate; anche se la maggioranza è tra i 15 e i 35 anni, tra le alunne ci sono ultrasessantenni e si insegna a bambine a partire dai sei anni.

Non ci sono solo le lezioni di autodifesa, si applica anche una tecnica mista di taekwondo, boxe, kick boxing e kung fu, che Khalife ha ribattezzato Metodo She fighter. Perché “le donne devono smettere di pensare di essere deboli”, afferma la fondatrice. Perché secondo lei, il problema delle donne non è una questione esclusivamente di sicurezza fisica, è invece una mancanza di opportunità e di fiducia. “Qui non imparano soltanto a difendersi, ma soprattutto a credere in se stesse”.

Per questo Lina si impegna a promuovere una maggiore coscientizzazione e acquisizione di spazi da parte delle donne, in un paese dove solo il 19% delle donne lavora fuori casa. Se non si è indipendenti finanziariamente, non si è liberi; “se gli uomini hanno i soldi, hanno anche il controllo, in tutti i sensi, sulle proprie mogli, figlie, sorelle” dice, riflettendo a voce alta.

E’ una lavoratrice instancabile, moltiplica le conferenze e i seminari di formazione dentro e fuori la Giordania, senza preoccuparsi troppo delle minacce fisiche e delle denunce, che lei definisce surreali, di mariti che maltrattano le proprie donne e osano denunciarla per l’insegnamento di difesa personale alle loro spose…

La violenza di genere è un problema enorme e globale, per questo non possiamo limitarci a parlarne: dobbiamo agire” conclude.

E così, mentre lottano contro una realtà ostile sotto molti aspetti, i colpi ed i pugni sono a volte una forma di sollievo per Shahed e le altre donne della palestra, una specie di vitamina corroborante per la propria autostima e un supplemento di energia per sentire di poter fare ciò che ci si propone.

Shahed, che mostra orgogliosa i lividi, ha trovato nelle arti marziali una passione e una forma di vita. Soprattutto ha acquisito la certezza che se dovrà subire un attacco, saprà stare in guardia per restituire il colpo.

In tutti i sensi.

Epilogo

L’ articolo su She fighter era apparso nel 2019 su Pikara; ho contattato personalmente l’autrice Andrea Olea (3), giornalista, femminista viaggiatrice, conoscitrice del Medio Oriente. Mi ha confermato che l’esperienza di She Fighter continua a crescere. (4).

Ora aspettiamo soltanto che il patriarcato crolli sotto i colpi delle donne, anche delle giordane. La nostra pazienza ha un limite.

NOTE

1 Una presentazione dell’Associazione La cultura del barrio, in italiano, qui https://drive.google.com/file/d/1997aJlTQEu4mLsIezEnx1nXGTxmLUCV4/view?usp=sharing

 https://www.pikaramagazine.com/2019/02/shefighter-artes-marciales-jordania/

3 https://www.andreaolea.com/sobre-mi.html

4 https://www.shefighter.com/

 

 

  1. La foto di copertina, che ritrae la giovane allenatrice di She Fighter Shahed Mansour, è di Teresa Suárez, ed è tratta dall’articolo di Andrea Olea.
  2. La frase di Maggie Kuhn mi ha fatto scoprire questa attivista statunitense, che confesso di non aver mai incontrato nel mio percorso di formazione femminista. Vissuta nel secolo scorso, è stata la fondatrice delle Pantere grigie. Affermava che la vecchiaia è un tempo eccellente per indignarsi e combattere ogni discriminazione. Grazie Maggie, lo terrò presente.

 

(*) Vicepresidente Associazione Lisangà culture in movimento, www.lisanga.org

 

Teresa Messidoro

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