Giornalisti incantati o incantatori?

Intervista a Raffaele Simone (*)   

Fra i più importanti linguisti e filosofi del linguaggio, Raffaele Simone nel suo «Presi nella rete«» rema controcorrente parlando della mediasfera come di un demone incantatore. E sui giornalisti la pensa così.

I mezzi tecnologici a disposizione dei giornalisti continuano a mutare ma in Italia l’adeguamento non sembra dar frutti. Condivide questa impressione? E’ pigrizia o assenza di una cultura di base?

«L’informazione si distingue nettamente in diverse branche: i grandi quotidiani, i grandi settimanali, la tv, la radio, ciascuno dei quali ha regole, stile, menu e format. Nell’insieme, anche paragonandola a quella di altri Paesi occidentali, l’informazione italiana non mi pare di qualità eccelsa e la consulto spesso obtorto collo: scritta sciattamente, poco accurata nella confezione, molto urlata (nei media fonici, anche in senso letterale: un tema di cui bisognerebbe discutere con più dettagli) con poche firme dilaganti e ripetitive, priva di copertura internazionale seria, troppo ricca di interviste e di pezzi fatti su richiesta… Insomma, è l’informazione propria di un Paese di seconda categoria quale siamo. Il telegiornalismo ne è l’emblema peggiore. Troppa ciancia politica, troppi ragazzi inesperti in video, nessuna capacità di elocuzione istintiva, ben pronunciata e sensata, nessunissima capacità di intervistare sul serio… Nessun nostro media (se posso usare la parola in questa orribile forma) è all’altezza del País, del Figaro, della Faz o del Guardian come fattura e attendibilità.

Quanto ai mezzi tecnologici, mi pare che la possibilità di accesso immediato ad altre fonti (quale la permettono le risorse telematiche personali, dall’iPad in giù) serva essenzialmente ad allontanarsi dai fatti, facendoseli raccontare da qualcun altro a cui si chiedono in prestito o si rubacchiano. Tendenza vistosissima nelle corrispondenze straniere della Rai: nessuno dei fortunati corrispondenti è mai “sul posto”; si accontentano di vedere le cose nella tv locale e di ri-raccontarle stando comodamente seduti in ufficio. Che pacchia! Un lavoro così vuoto si potrebbe far da Roma, con molto minor spesa!».

 

Secondo Noam Chomsky «scrivere è il problema minore, è importante imparare a pensare». E’ questo oggi il problema del giornalismo?

«Non so a cosa di riferisse Chomsky con quella frase. In ogni caso, non è vero che scrivere sia il problema minore. Anzi. Ma prima di scrivere, la filiera prevede altre fasi obbligatorie, alcune delle quali vengono saltate con troppa disinvoltura. La prima è identificare il fatto e starci sopra, e non prenderlo dal racconto di altri o da un comunicato stampa. Troppi giornali italiani sul fatto non ci sono mai. Il quotidiano che proprio al Fatto si intitola è uno straordinario campione di questa specialità: confezionato al 90 per cento in redazione, con interviste, opinioni, pastoni e agenzie. In pratica si fa con qualche telefonata e qualche mail! In ogni numero ci sono sì e no un paio di cronisti che escono dalla sede per andare a vedere “il fatto”. Un giornale di questo tipo ha poco a che vedere con l’informazione come la intendo io. Il primo compito del giornalista è scoprire, analizzare, raccontare fatti (piccoli, grandi, grandissimi; occasionali, permanenti, durevoli) standoci sopra senza mollare: vedendo di persona e trovando la miglior maniera di raccontarli. Se questa condizione manca, non abbiamo più a che fare con un giornale, ma con un’agenzia di basso livello».

 

L’ossessione dello scrivere “in tempo reale” fa paradossalmente perdere il contatto con il mondo reale? detto in altri termini l’eccessiva velocità offusca il quadro generale?

«Karl Kraus, ai primi del Novecento, diceva che il giornalista lavora in fretta, al punto che se lavora lentamente non conclude nulla. Può essere. Sta di fatto che l’informazione italiana è divorata da decenni dall’esigenza di quel che viene chiamato “il ritmo”. Questa parola allude al fatto che su tutti i media bisogna essere brevi, scattanti, sbrigativi. Le raccomandazioni più frequenti degli anchor-people italiani sono: “in una battuta…”, “per favore rapidissimo…” e stupidate simili, che non permettono mai di concludere un discorso. La trasmissione Ballarò (che considero stucchevole e mal fatta) trionfa in questo metter fretta a chi sta argomentando (ha anche altri difetti, ma qui non ne dico nulla). Questo spirito si è esteso agli altri media: sui quotidiani la brevità è regola (salvo poche eccezioni); suppongo e temo che lo spirito di Twitter (142 battute e non di più) si diffonderà ancora, eliminando ogni discorso articolato. Del resto la dilagante free press sta imponendo questo modello anche al lettore, che diventerà presto incapace di leggere più di 4 righe».


Mondi concreti mescolati a quelli virtuali, verità legate ai fatti e altre fabbricate in modo sempre più convincente: è solo un problema di regole e di leggi?

«Il distanziamento dai fatti di cui ho parlato si coniuga malignamente col dilagare della realtà virtuale favorito dalla mediasfera (ho dedicato a questo tema l’intero mio libro Presi nella rete. La mente ai tempi del web). Si sa che ormai molti fatti non accadono per proprio conto, ma vengono “prodotti” appositamente perché se ne parli. Sono quindi fatti indotti o anche falsi fatti. Gli uffici stampa servono per questo: creare fattoidi di cui i media parlino. Allo stesso fine la tendenza, di cui ho già parlato, a prendere i racconti da altri, favorita dall’accessibilità istantanea di tutti i media dal proprio tavolo. È come con le industrie farmaceutiche che si inventano le malattie per vendere i corrispondenti farmaci; le grandi agenzie internazionali inventano fatti per riempire pagine che altrimenti richiederebbero costose analisi di eventi reali».

BOX – Linguistica e non solo

Fra i molti libri di Raffaele Simone ci sono testi politici e legati all’attualità come «L’università dei tre tradimenti» ma anche un romanzo «Le passioni dell’anima» (protagonista Cartesio). La gran parte delle sue pubblicazioni ha però a che fare con il linguaggio e con le forme della conoscenza: da «Maistock. Il linguaggio spiegato da una bambina» del 1988 a «Fondamenti di linguistica» del 1990 a «La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo».

Nel recente «Presi nella Rete» esamina la tempesta culturale generata dalla mediasfera dove «funzioni e bisogni prima inesistenti vengono alla luce e diventano perfino urgenti appena si rende disponibile un mezzo tecnico capace di soddisfarli» e dove la lettura e perfino la conversazione sembrano riguardare solo una minoranza.

(*) Questa mia intervista è stata pubblicata nel numero 86 (agosto 2013) di «Giornalisti», la rivista trimestrale dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna (db)

 

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