Gli anni Settanta a Milano

di Cecco Bellosi

Le incisive epigrafi di Davide Steccanella (*) hanno il merito di avere dato una cornice al quadro intenso, teso e drammatico del conflitto sociale negli anni Sessanta e Settanta.

A Milano.

Ognuno di noi porta con sé i ricordi, soprattutto alcuni che rimangono dentro, e la memoria della propria parte.

Da parte mia, nel rispetto del dolore degli altri.

Subito, il primo episodio mi ha riportato all’adolescenza trascorsa tra il Lago, Como e Milano. Nel 1962, quando le cariche della polizia hanno investito e ucciso Giovanni Ardizzone in Piazza del Duomo durante la manifestazione contro la “crisi dei missili” a Cuba, avevo quattordici anni, i pantaloni corti, la tessera della Federazione Giovanile Comunista fresca di stampa.

E il sogno castrista in testa.

Rivedo ancora quelle macchie di sangue.

Poi il ricordo corre alla sera del 12 dicembre 1969 e, nella buia notte di tre giorni dopo, al volo di Pino Pinelli da una finestra della questura.

Quando è diventato evidente che gli anarchici erano innocenti e che la strage era di Stato.

Gli “anni di piombo” sono iniziati quella sera.

Oggi, a cinquant’anni di distanza, le stragi fasciste e di Stato sono scomparse nella loro nebbia, densa di burattinai orfani dell’OVRA, la polizia segreta del regime, e di viscidi burattini come Stefano Delle Chiaie.

Ma ormai, nella memoria della rimozione e del ritorno della marea nera, rimane solo il “piombo rosso”, su cui si è riversato anche un rovesciamento semantico significativo: “Anni di piombo” era un film sulla carica repressiva dello Stato, non su chi lo combatteva.

Lo stragismo di Stato e il terrorismo di destra sembra non siano mai esistiti, dispersi insieme alla loro archiviazione.

La situazione non può però essere compresa se non si inscrive nel quadro internazionale dell’epoca. L’Italia è stato un Paese a sovranità limitata. La divisione del mondo in blocchi e la Guerra Fredda non ammettevano alcuna possibilità di cambiamento di campo: ogni sussulto, in luoghi piccoli come Cuba; o periferici, per il mondo di allora, come il Vietnam, hanno scatenato crisi e guerre reali.

Figuriamoci al centro dello scacchiere di quella forma particolare di conflitto.

Questa realtà ha determinato la scissione tra piano istituzionale, politico e sociale.

Il riciclaggio e l’utilizzazione del personale di polizia proveniente dal fascismo, la costituzione di Gladio, i rapporti di una parte della Democrazia Cristiana con il sottopotere d’ordine della mafia erano funzionali alla difesa del quadro istituzionale. In quel contesto, persino le stragi e i tentativi o le allusioni di golpe assumevano un carattere di stabilizzazione dell’unico quadro politico possibile.

Non ha senso allora parlare del coinvolgimento di “servizi segreti deviati” nelle stragi fasciste ma di un ruolo attivo dei servizi segreti della Repubblica nelle stragi. I servizi segreti, per definizione, svolgono le attività che non si possono dire: il lavoro sporco.

Noi, quella notte del 12 dicembre 1969, abbiamo perso la nostra innocenza.

Non è una giustificazione, è un’assunzione di responsabilità.

Il terzo episodio che mi è rimasto impresso nella memoria sono i cadaveri di Walter Pezzoli e Roberto Serafini, crivellati di colpi in via Varesina, di nuovo in una gelida serata del dicembre 1980. Di Walter ricordo la cella vuota a Cuneo. Ogni volta che ci passavo davanti per andare all’aria, vedevo il suo nome: ogni cella, in quel carcere, recava il nome dell’abitante. Era stato tradotto a Genova, per il processo alle Brigate Rosse. Era uscito, assolto. Walter non era mai stato delle BR, era un giovane ragazzo anarchico di Pero, come tanti, con i suoi sogni, le sue speranze, i suoi compagni. Ma, una volta fuori dopo un’ingiusta detenzione, allora sì era entrato nelle BR.

Per pochi mesi, forse per pochi giorni.

Quando si dice il destino.

Su Walter hanno scritto i suoi amici e compagni di un tempo il libro di memorie “Zaré”, i pochi che avevano condiviso le sue scelte e i molti che non lo avevano fatto. C’erano centinaia di persone qualche mese fa, in un paese di periferia, a ricostruire per un momento l’atmosfera di condivisione di quegli anni.

Tra diversi, da un’origine comune.

E tutti avrebbero compreso che negli anni Settanta c’era un mondo, attorno a noi, vicino a noi, con noi, che voleva cambiare il mondo.

La lotta armata ne è stata la parte estrema, non estranea.

Di quegli anni è stato rimosso il contesto: un movimento denso di lotte, di condivisione, di appartenenza. Così, una scelta politica è stata ridotta a una scelta esistenziale nichilista, separata, folle.

Trentaseimila persone inquisite e seimila incarcerate dovrebbero dire invece qualcosa sull’ampiezza di un fenomeno sociale.

Una storia che ha conosciuto le sue origini in quel contesto: i fenomeni sociali scaturiscono dalla società, non dal nulla.

Come sosteneva un vecchio dalla barba bianca nato a Treviri.

Karl Marx.

L’unico grande vecchio che mi sia capitato di conoscere.

In tutti i suoi scritti.

12 settembre 2019

(*) è un avvocato: le sue epigrafi sono state messe in pagina dal quotidiano “La repubblica”

L’IMMAGINE è stata scelta dalla “bottega”: il potere come le tre scimmiette (l’opposto di quel che si cerca di fare qui: aprendo occhi, orecchie e bocca)

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