Grandezza e miseria di due donne cattoliche – di Mark Adin

Agnese Moro ha coraggio da vendere. Vederla lì, a dialogare con uno dei macellai di suo padre, la illumina di una luce singolare.

Paola Binetti non sorride mai. E’ un soldato indurito da feroci campagne contro l’omosessualità, l’aborto, il testamento biologico, l’eutanasia. E’ per la vita, lei.

Agnese parla di amore, quando ricorda il padre, ne rivela dolcezza e piccole debolezze. Racconta del “suo”, mettendo a nudo l’incancellabile dolore. Ciò nonostante è piena di coraggio quando affronta il tema di una giustizia possibile: “La condanna non restituisce la giustizia. Il dialogo invece sì, seppure alla fine di lunghi percorsi personali”. Si riferisce anche a Franco Bonisoli, brigatista di lacrima facile, che si commuove ma non si muove, non abiura i valori che lo hanno convinto al suo impegno di classe. E questo lo fa più vero. Non riesce a fare i conti con molti fatti personali. Il dialogo tra i due appare sincero, nel contesto di una manifestazione pubblica genovese, ideata e condotta da un altro figlio di morto ammazzato: Nando Dalla Chiesa.

Agnese è portatrice di una inconcepibile dolcezza, atterrisce la forza del suo amore, la testimonianza di un perdono che lascia attoniti quanto sgomenti di fronte al suo manifestarsi.

Il ceffo della Binetti, come da un film di Dreyer, arcigno e severo, amplifica l’effetto di parole dure. Si dice che usi il cilicio. Dal Medioevo sopravvivono strumenti di tortura auto-afflittiva? Una donna laureata, specializzata in neuropsichiatria infantile, allattata al seno della scienza, attinge i metodi dei flagellanti, di chi ritiene il dolore strumento di ascesi, di chi elegge il dolore a misura talmente necessaria, per glorificare Dio, da invocarlo e procurarselo, quando esso naturalmente non venga da sé, nel qual caso lo benedice.

Paola Binetti è “numeraria” dell’Opus Dei. Di conseguenza, dormirebbe su un tavolaccio di legno; porterebbe, come prescritto dalla regola, allacciata alla coscia per almeno due ore al giorno, la sadica giarrettiera  (il cilicio, per chi non lo sapesse, è un nastro che porta al suo interno una serie di ganci appuntiti che martoriano la carne); si flagellerebbe una volta alla settimana con un tipo di frusta dal nome evocativo: “disciplina”.

Mi trattengo, volterianamente, dal giudicare. La fede è per me ancora un mistero. Se non che la dottoressa Binetti è pure Onorevole, siede in Parlamento, e dal suo scranno propone leggi.

Una delle ultime promulgate, su suo pervicace interessamento, riguarda il testamento biologico. La neolegge impedisce di disporre circa la propria morte. Insomma, semplificando molto: se io volessi rinunciare all’agonia, alla alimentazione forzata, all’umiliazione, ma soprattutto al dolore della parte terminale della mia vita, non ritenendolo necessario né tantomeno salvifico, per legge non potrei farlo.  Perché lo Stato me lo impedirebbe.

Agnese Moro, invece, contribuisce alla apertura di una strada  importante per superare un trauma lesivo della nostra coscienza civile collettiva, condizione necessaria per procedere oltre la nostra storia recente. Gli equivoci, le menzogne, i travisamenti, le verità negate, il sangue, costituiscono ancora un impedimento a capire, a sapere, a giudicare. E’ un bisogno collettivo, più o meno consapevole, quello di girare la pagina, un fatto di democrazia.

Ma “non s’ha da fare”. Lo Stato non lo permette. Eppure la figlia di Aldo Moro, che non smette di ricordare, uno per uno, i poliziotti della scorta del padre, unendo le loro vite sullo stesso piano valoriale della vita del genitore, durante un momento di collasso emotivo di Bonisoli, arriva a prendergli la mano con un gesto naturale e discreto, forse affettuoso, e a tenerla tra le sue.

Non posso fare a meno di esserne colpito. In un gesto così scandaloso, risiede e rivive il mistero dell’amore che può sopraffare ogni cosa, che vince su tutto. Anche a un non credente la cosa risulta chiara, anche un ateo non può non ricordare la figura di un uomo di duemila anni fa, ucciso perché il suo amore fu intollerabile e spaventò. Non si è mai pronti del tutto a sopportare un amore incondizionato: la luce, se molto forte, può accecare.

Eppure queste due anime sono presenti da sempre nella cultura cattolica.

Il paragone è ardito, ma per amor di iperbole e in spregio alla correttezza filologica: una pare figlia di Francesco d’Assisi, l’altra di Jacopone da Todi.

Due conterranei, figli della medesima civiltà, letterati, il cui sentimento religioso prende strade diverse. L’uno canta la gioia, l’altro invoca il dolore. L’uno si esprime anticonformisticamente in volgare, “laudato sì mi signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore”, l’altro continua a scrivere  anche in latino, “me sentire vim doloris”,  fammi sentire la forza del dolore. Il “giullare di Dio” è giocoso e “iucundo”, il secondo è attratto, quasi eroticamente, dal dolore della madonna: “fac ut tecum lugeam”, fammi piangere con te. Ossessionato dalla sofferenza come percorso di ascesi mistica.

Nel solco dei frati,  trascorsi quasi ottocento anni, oggi due donne, in quota rosa: una testimonia attraverso l’amore, l’altra attraverso il dolore. Sembra non ci siano state grandi evoluzioni.

Non entro nel merito, non giudico, mi proclamo estraneo al dibattito. Cose che non mi appartengono. Cose da non regolare per legge, ovviamente.

Di sicuro non cercherei di impedire a nessuna delle due la professione della loro fede. Non le manderei nel Gulag. Non le sottoporrei a un Trattamento Sanitario Obbligatorio. La loro fede riguarda solo e soltanto loro. Sia nel chiedere perdono per gli assassini del padre amorevole, sia nel portare il cilicio e invocare su di sé tutto il dolore possibile. Anzi, se Dio esiste, esaudisca entrambe.

Ma la mia morte, il mio corpo, la mia “anima”, riguarda solo e soltanto me. Non ho altro che mi appartenga davvero, al di fuori di me stesso. E la cosa non è negoziabile.

Io non appartengo alla Chiesa, sono un Cittadino. Che non paga le tasse al Vaticano, bensì alla Agenzia delle Entrate.  Se mai paga, suo malgrado, anche la quota-parte dei tributi che la Chiesa NON paga alla Repubblica Italiana. (ICI su Istituti Religiosi, insegnanti di Religione nelle scuole pubbliche, Scuole private cattoliche, ripartizione dell’otto per mille non assegnato, etc..).

Non se ne dimentichi la dottoressa Binetti, e si rilegga la Costituzione, alla quale deve osservanza. Almeno finché resta parlamentare. Si spera per poco.

 

Mark Adin

 

 

 

Redazione
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Un commento

  • Però, a uno che indossa il cilicio, dorme su nuda tavola e si autoflagella,una visitina psicoanalitica gliela consiglierei.

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