Guarire la Terra, guarire noi stessi

di Wangari Maathai

Durante i trent’anni e più che ho passato come ambientalista e attivista per i diritti democratici, la gente mi ha spesso chiesto se la spiritualità, differenti tradizioni religiose e la Bibbia in particolare mi avessero ispirato e avessero influenzato il mio impegno o il lavoro con il Green Belt Movement (GBM). Consideravo la conservazione dell’ambiente e il dare potere alla gente comune come un tipo di vocazione religiosa? C’erano lezioni spirituali da apprendere e applicare agli sforzi ambientalisti o alla vita in generale?

Quando iniziai questo lavoro nel 1977 non ero motivata dalla mia fede o dalla religione in generale. Stavo invece letteralmente e praticamente pensando a come risolvere problemi concreti. Volevo aiutare le popolazioni rurali, in special modo le donne, a soddisfare le necessità di base che mi descrivevano durante i miei seminari e laboratori. Mi dicevano che avevano bisogno di acqua pulita, potabile; di cibo nutriente in quantità adeguata; di reddito; di energia per cucinare e riscaldare.

Perciò quando mi facevano le domande sulla spiritualità, all’inizio, io rispondevo che non pensavo allo scavare buchi ed al mobilitare le comunità affinché difendessero o curassero gli alberi, le foreste, le fonti d’acqua e il suolo, l’habitat delle specie selvatiche, come a lavoro spirituale. Inoltre, non ho mai differenziato le attività “spirituali” e quelle “laiche”. Dopo qualche anno, sono arrivata a riconoscere che i nostri sforzi non erano limitati al piantare alberi, ma che stavamo anche piantando semi di un tipo diverso, quelli necessari per dare alle comunità la fiducia in se stesse e la conoscenza necessarie a riscoprire la loro vera voce ed a rivendicare i loro diritti (umani, ambientali, civili e politici). Il nostro scopo divenne espandere quello che chiamiamo “spazio democratico”, uno spazio in cui cittadini comuni possono prendere decisioni per se stessi a beneficio proprio, della propria comunità, del proprio paese e dell’ambiente che li sostiene.

In tale contesto, cominciai ad apprezzare il fatto che ci fosse qualcosa che ispirava e spalleggiava il GBM e coloro che partecipavano alle sue attività. Molte persone provenienti da gruppi e regioni differenti ci contattarono perché volevano condividere il nostro approccio con altri. Capii che il lavoro del GBM era guidato da alcuni valori intangibili. Essi erano: amore per l’ambiente, gratitudine e rispetto per le risorse della Terra, capacità di darsi potere e di migliorare se stessi, spirito di servizio e volontariato. Insieme, questi valori incapsulavano l’aspetto intangibile, sottile, non materialistico del GBM come organizzazione. Ci permettevano di continuare a lavorare anche quando i tempi si facevano difficili.

Naturalmente, so bene che tali valori non sono appannaggio del Green Belt Movement. Essi sono universali. Non possono essere toccati o visti. Non possiamo dar loro un valore monetario: in effetti, sono impagabili. Questi valori non sono contenuti in specifiche tradizioni religiose, ne’ uno deve far professione di fede per essere guidato da essi. Sembrano piuttosto essere parte della nostra natura umana, ed io sono convinta che siamo persone migliori perché li abbiamo, e che l’umanità è migliore avendoli piuttosto che non avendoli. Dove questi valori sono ignorati, li rimpiazzano dei vizi come l’egoismo, la corruzione, l’avidità e lo sfruttamento.

Nel processo in cui aiutiamo la Terra a guarire, aiutiamo noi stessi.

Per quel che posso dire attraverso le mie esperienze e le mie osservazioni, credo che la distruzione fisica della Terra si estenda anche a noi. Se viviamo in un ambiente ferito, dove l’acqua è inquinata, il cibo è contaminato da metalli pesanti e residui plastici, e il suolo è praticamente immondizia, ciò ci affligge, influisce sulla nostra salute e crea ferite a livello fisico, psicologico ed individuale. Degradando l’ambiente degradiamo sempre noi stessi.

UNA BREVE NOTA

Wangari Maathai, premio Nobel per la pace nel 2004, è scomparsa il 25 settembre 2011. In questo saggio, che è tratto dal suo libro “Replenishing the Earth: Spiritual Values for Healing Ourselves and the World“, descrive cosa motivò il suo eccezionale lavoro: la traduzione è di Maria G. Di Rienzo che lo ha ripreso da “Yes! Magazine” del 26.9.2011. Ho ricordato Wangari Maathai su codesto blog (e sul quotidiano “L’unione sarda“). Sono rimasto più dispiaciuto che sorpreso nel vedere che i due quotidiani meno brutti d’Italia (o almeno io così valuto “Il fatto” e “il manifesto“) il giorno dopo si sono limitati a una foto e poche righe. Non so come si lavori a “Il fatto” ma di certo “il manifesto” è in crisi (che vuol dire anche cassa integrazione, poche persone in redazione eccetera) però, se posso permettermi un consiglio, c’è sempre un modo – nei giornali che vogliono essere corretti con lettori e lettrici – per rimediare a un così grave buco informativo: dedicare a Wangari Maathai un ritratto, qualche giorno dopo, nelle pagine culturali. Già le storie e le culture dell’Africa – anzi delle molte Afriche – vengono sistematicamente cancellate dai grandi (per dimensioni) media italiani, ci manca solo che chi dovrebbe fare un giornalismo diverso si unisca al triste andazzo che nasce da ignoranza e razzismo. Guarire noi stessi, appunto.

PS: avevo scritto giorni fa (i post si possono programmare, uno dei tanti tecno-miracoli) le righe qui sopra ma, di un ritor4no da un breve viaggio, vedo che su “Il fatto” per ricordare Wangari Maathai è stato tradotto un ricordo di Kerry Kennedy mentre, proprio oggi, su “il manifesto” c’è una mezza pagina di Marina Forti su Wangari Maathai. Quello della Forti è un articolo molto ben fatto: allarga lo sguardo, come è giusto, ricordando fra l’altro “Chipko” (cioè Abbraccio) il movimento delle donne indiane che abbracciava gli alberi sulle pendici dell’Himalaya per impedire fossero tagliati. Aggiungo queste notizie ma non correggo il mio testo qui sopra perchè il ragionamento continua a valere: per il futuro.  (db)

Redazione
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