Guatemala: vittime del vulcano ma anche della polizia statunitense

di Maria Teresa Messidoro (*)

Guatemala, Paese dell’eterna primavera: nella zona centro meridionale, a una cinquantina di kilometri dalla capitale, spicca il Volcán de Fuego, alto 3760 metri. Le sue eruzioni sono famose. Si racconta che il conquistatore Pedro de Alvarado ha potuto vederne una in diretta nel 1524. Di forma conica, costituito dalla sovrapposizione di numerosi strati di lava solidificata, pomice e ceneri vulcaniche. E’ indomito, raccontano gli indigeni locali: quando alcuni sacerdoti spagnoli vollero battezzarlo con il nome di Catarina, si ribellò, rifiutando l’acqua battesimale, provocando una eruzione così violenta che la croce con cui pretendevano cambiargli il nome venne lanciata fino al Palazzo del Vescovo in Santiago de los Caballeros de Guatemala. Per questo ancora oggi porta il nome di Volcán de Fuego.

Alla fine di maggio di quest’anno una nuova, imponente eruzione ha provocato almeno cento morti e migliaia di evacuati, con danni ingenti alle case e ai territori.

Noi, spettatori della globalizzazione mediatica, siamo rimasti impressionati dalle vittime del vulcano guatemalteco. Ma soltanto chi legge alcuni siti di informazione alternativa a quelle ufficiali ha saputo che in quegli stessi giorni alcune popolazioni del Guatemala piangevano la morte di Claudia Gómez.

Claudia era la primogenita di una famiglia di San Juan Ostuncalco, nella regione di Quetzaltenango, appartenente all’etnia indigena Maya Mam. Due anni fa si era diplomata come ragioniera ma non potendo trovare lavoro nel proprio Paese aveva deciso alcuni mesi fa di emigrare negli Stati Uniti, da cui era stato espulso suo padre nel 2017. Un viaggio doloroso dunque, sicuramente per necessità economiche, per costruire un futuro migliore per sé e per la famiglia. Lo iniziò il 7 maggio, cosciente dei pericoli a cui andava incontro, come tutti i migranti centroamericani in rotta verso il sogno nordamericano. Due settimane dopo, al termine di un viaggio di 2.400 kilometri, oltre la frontiera con il Texas, la giovane diciannovenne Claudia fu trovata a terra, morta, con un colpo di proiettile in testa.

La prima versione ufficiale parlò di uno scontro fra una pattuglia nordamericana di frontiera e un gruppo di emigranti indocumentados in una zona fra la città messicana di Rio Bravo e la cittadina texana di Laredo: al lancio di oggetti contundenti da parte dei guatemaltechi, la polizia aveva risposto sparando, colpendo quindi “accidentalmente” Claudia, che faceva parte del gruppo, inizialmente indicato come di aggressori.

Successivamente, un secondo comunicato informò che un veterano della pattuglia di frontiera, con un’esperienza alle spalle di almeno 15 anni, monitorando attività illegali e sospette, aveva individuto un gruppo di clandestini, a cui ordinò di sdraiarsi per terra. Al rifiuto dei giovani, fu “costretto” a sparare, ferendo mortalmente un membro del gruppo, che ora non viene più indicato come “aggressore”. Il nome del veterano poliziotto non appare nei verbali ufficiali: è stato comunicato dai Rangers del Texas che ora gode di una licenza, mentre si farà luce su quanto successo. Una donna, Marta V. Martínez, che vive presso il luogo dove è avvenuto l’omicidio, ha diffuso un video in cui dichiara che i giovani guatemaltechi si stavano semplicemente nascondendo, che nessun ordine di fermarsi è stato gridato dai poliziotti. Quando udì lo sparo, Marta uscì correndo da casa e vide il poliziotto chino su una donna, evidentemente già morta, nonostante il tentativo di respirazione bocca a bocca.

Migliaia di guatemaltechi hanno accompagnato sotto la pioggia la famiglia di Claudia, per darle sepoltura nel suo piccolo paese natale. Ma contemporaneamente esigono giustizia, perché i delitti compiuti alla frontiera tra Messico e Stati Uniti non continuino impuniti, perché la politica razzista di Trump abbia fine: nel 2017, più di 300.000 centroamericani illegali sono stati arrestati alla frontiera, di cui almeno 60mila minori di 16 anni. Le statistiche ufficiali parlano di 400 morti, ma sicuramente il dato reale è maggiore.

Claudia non è la prima vittima della violenza, ma vorremmo che fosse l’ultima: questo sì che è un bel sogno. Perché le frontiere siano libere ovunque, in Europa come in America, senza muri, militari, soprusi, violenze.

(*) vicepresidente Associazione Lisangà culture in movimento

NELLA PRIMA FOTO CLAUDIA PATRICIA GOMEZ GONZALEZ IL GIORNO DEL DIPLOMA. NELLA SECONDA I SUOI GENITORI: LIDIA GONZALEZ E GILBERTO GOMEZ.

Teresa Messidoro

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