Guerriglieri maoisti in India. Tra gli adivasi del Jharkhand

Marina Forti (*) su «Marcia notturna» di Alpa Shah

Di giorno le colonne di veicoli blindati si muovono tra i villaggi, minacciose. Ma dopo il tramonto, terminato il loro diurno sfoggio di potere, tornano alla base: «Quanto alle notti, da sempre appartengono ai maoisti» spiega il giovane dal grande sorriso. La marcia nella foresta dunque comincia nell’oscurità: una ventina di giovani uomini, in divisa verde olivo e moschetto a tracolla, e una donna. Siamo nel cuore dell’India e i giovani armati sono un plotone naxalita, il movimento rivoluzionario di ispirazione maoista sorto negli anni ’60, più volte dato per finito e sempre risorto. La donna invece, unica disarmata, è un’antropologa che cerca risposte: perché una rivolta armata per una società comunista, cioè una battaglia che potrebbe sembrare anacronistica per il resto del mondo, sopravvive proprio in India – in quella che si descrive come la più grande democrazia al mondo, una economia emergente tra le potenze del globo? Soprattutto: perché tra le file di questo movimento guerrigliero ci sono tanti giovani adivasi, o “abitanti originari”, i nativi dell’Asia meridionale? E perché il movimento naxalita, una delle insurrezioni più ignorate del mondo, si è reincarnato proprio in queste foreste?

Alpa Shah ci porta così in un’India remota, in senso geografico e forse ancor più culturale e politico, anche se la storia che racconta ha risvolti modernissimi. La sua marcia con il plotone naxalita dura sette notti, duecentocinquanta chilometri a piedi attraverso foreste impervie tra il Jharkhand e il Bihar, nell’India nord-orientale. È questo viaggio che Shah racconta nel suo Marcia notturna, libro scritto come un lungo e appassionato reportage, in cui però confluiscono anche le osservazioni raccolte dall’autrice in oltre quattro anni di lavoro e studio, in due riprese, tra gli adivasi del Jharkhand.

La ricerca di Alpa Shah, nata a Nairobi da famiglia di origine indiana, è cominciata tra il 1999 e il 2002 quando l’autrice, dottoranda in antropologia sociale, ha deciso di condurre la sua ricerca etnografica in una zona rurale del Jharkhand con la pratica della “osservazione partecipante”: ovvero è andata a vivere in un villaggio adivasi. Allora i naxaliti, che cominciavano appena a penetrare nella zona, le sembrarono «una specie di racket», spiega, «bravissimi a estorcere denaro dai vari programmi di sviluppo o anche dai grandi imprenditori» in cambio di protezione. E però il movimento cresceva, e anche il suo appeal presso tanti giovani adivasi. Shah non si contentava delle spiegazioni semplici: la spinta della povertà, o l’idea che le comunità native fossero “prese tra due fuochi”, i maoisti da un lato e le forze di sicurezza dall’altro. Insomma: nel 2008 decide di tornare in Jharkhand, in uno dei momenti di maggiore forza dell’insurrezione armata, questa volta per capirne le motivazioni.

Così eccola di nuovo in un villaggio adivasi che, scoprirà poi, era diventato una “capitale rossa” del movimento rivoluzionario (per la precisione del Partito comunista indiano-maoista, principale erede delle organizzazioni rivoluzionarie nate in seguito a una famosa rivolta contadina nel 1967 nel villaggio di Naxalbari, in Bengala occidentale, l’episodio da cui il nome naxalita). “Ci volle poco per capire che in effetti [i guerriglieri] erano ovunque, in ogni casa, in ogni villaggio, in ogni foresta”, scrive Shah. E che i giovani adivasi “avevano trovato nei ranghi della guerriglia una specie di casa alternativa”, una comunità da cui entravano e uscivano come si visita la casa di un parente.

Tra i naxaliti l’autrice trova dirigenti di estrazione urbana e casta alta, persone istruite che hanno abbandonato i privilegi di famiglie borghesi per combattere lo sfruttamento e l’oppressione, spinti da ideali a cui i più sono rimasti coerenti per la vita. Constata che la “fanteria” dell’esercito di liberazione del popolo invece viene proprio dalle comunità adivasi: “tribali”, come sono definiti in India, gruppi diversi per etnia e lingua che insieme fanno una minoranza di quasi cento milioni di persone, circa l’8,6 per cento degli indiani. Un gruppo sociale tra i più disprezzati dalle caste e classi dominanti, considerato “sottosviluppato” e primitivo, emarginato e sfruttato da secoli, sopravvissuto in foreste impervie come quella di cui stiamo parlando. Ed è proprio nel sistema di ingiustizia e sfruttamento che schiaccia l’India rurale, e in particolare le comunità adivasi, che l’autrice trova la prima serie di risposte. «Sempre più spesso [gli adivasi] sono espulsi da quelle foreste che erano diventate il loro rifugio e habitat», trasformati in poverissimi lavoratori migranti in giro per l’India. Cacciati via per intervento di uno Stato che si fa garante degli interessi di grandi aziende e compagnie minerarie, fatti sloggiare per poter sfruttare gli immensi giacimenti di carbone e di ferro che si trovano in quelle regioni. Il Jharkhand, con i vicini Chhattisgarh e Orissa, è al centro della regione chiamata mineral belt, che racchiude il 70 per cento dei giacimenti di carbone dell’India, il 60 per cento del ferro e altrettanto della bauxite, materie prime dell’espansione industriale indiana. Ma racchiude anche la più alta concentrazione di popolazione nativa, è la tribal belt dell’India, e questa è la radice del conflitto: un mix esplosivo di vecchie ingiustizie e modernissima industria estrattiva, l’impunità di vecchi poteri semifeudali su cui s’innesta la deregolamentazione selvaggia del neoliberismo, le diseguaglianze radicate e la predatoria avanzata del capitalismo.

Il racconto di Alpa Shah però va oltre. Le motivazioni collettive sono una cosa, poi ciascuno ha la sua spinta personale. L’autrice presenta le persone incontrate con affetto e intelligenza – il giovane quadro maoista scappato da casa per raggiungere il gruppo ribelle che, da bambino, incontrava spesso portando al pascolo le capre; la donna che nella vita di guerrigliera cerca di sfuggire a una famiglia patriarcale, il ragazzo che sceglie “la polizia della giungla”, quelli che raggiungono la foresta quando le forze di sicurezza bruciano il loro villaggio in un raid. Shah ce le racconta con grande empatia, e con capacità narrativa superba. E insieme analizza, documenta, riflette.

Il viaggio qui raccontato è avvenuto nel 2010, mentre le forze di sicurezza indiane erano impegnate in una delle più estese offensive contro il movimento armato (fu chiamata Green Hunt, la “caccia verde”): la sua marcia notturna infatti comincia sgattaiolando tra colonne di blindati. Il suo libro però sarà pubblicato solo nel 2018, nella prima edizione inglese. Perché? Dopo quel viaggio, spiega l’autrice, il primo impulso è scrivere il più in fretta possibile «per contrastare la rappresentazione dominante» dei ribelli come nient’altro che terroristi. Ma poi ci ripensa: avrebbe solo alimentato narrazioni superficiali, ragiona, «sarei rimasta nei binari della condanna o del romanticismo». Del resto, qualche scritto di “contro propaganda” cominciava a circolare. Di li a poco sarebbe uscito anche il reportage di una nota scrittrice, Arundhati Roy, che aveva compiuto a sua volta un viaggio con un gruppo di naxaliti in un’altra foresta indiana. Insomma, Shah decide di fare quello che ci si aspetta da una antropologa: studia ancora, mette della distanza con quanto ha visto, continua la sua analisi critica sui limiti un movimento che è pure riuscito a mobilitare una delle comunità più oppresse dell’India – prima di rimanere vittima delle sue contraddizioni, oltre che della repressione governativa.

P-S. Dopo il viaggio raccontato da Alpa Shah molto è cambiato tra le foreste nel cuore dell’India, avverte l’autrice in una postfazione per l’edizione italiana. I ribelli sono in ritirata strategica, le forze di sicurezza hanno imposto il proprio draconiano controllo. Nei villaggi adivasi sono penetrate le organizzazioni dell’estremismo hindu, nuova forma di controllo sociale. E lo Stato ha intensificato la repressione: nell’ultimo anno ha fatto arrestare decine di noti intellettuali, poeti, attivisti per i diritti umani, sindacalisti in grandi città come Delhi, Mumbai, Ranchi, Nagpur. Sono persone che si battono per i diritti civili, un’avvocata che fa cause di lavoro, un anziano gesuita che lavora con gli adivasi, uno storico di fama internazionale: tutti indistintamente accusati di fiancheggiare i “terroristi”, definiti con scherno «naxaliti urbani» (si è sviluppata anche una contro-campagna di solidarietà, stile social media, con un #MeTooUrbanNaxal). Le ingiustizie di fondo invece restano tutte uguali, e finiranno per alimentare un nuovo ciclo di resistenza.

Alpa Shah

Marcia notturna

traduzione di Daniela Bezzi

Meltemi, 2019,

pp. 392, euro 24

(*) ripreso da www.alfabeta2.it

 

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