Haiti: dilaga il paramilitarismo

La criminalità agisce indisturbata in un paese dove Stati uniti, potenze europee e dubbie missioni di stabilizzazione traggono profitti dalla crescita del commercio delle armi e dalla guerra dichiarata contro la partecipazione popolare alla vita politica della società civile. Il violento terremoto di alcuni giorni fa e la successiva tempesta tropicale hanno contribuito a distruggere un paese che vive in una costante catastrofe umanitaria permanente.

di David Lifodi

                                        Foto: https://www.entornointeligente.com/

Il recente omicidio del presidente de facto di Haiti, Jovenel Moïse, avvenuto lo scorso 7 luglio, non ha fatto altro che accrescere il caos in un paese dove l’insicurezza dovuta al proliferare delle bande armate non accenna a diminuire: sono almeno 77 i gruppi paramilitari presenti nel paese nel paese secondo i dati della Comisión Nacional de Desarme, Desmantelamiento y Reinserción.

Crimine organizzato e forze armate governative prosperano sul commercio delle armi e sul dilagare della violenza, di cui, come ha scritto Lautaro Rivara, uno dei maggiori esperti della situazione haitiana, ne esercitano l’esclusivo monopolio e non c’è dubbio che torneranno ad agire in vista delle elezioni presidenziali fissate, solo pochi giorni prima del nuovo sisma che ha ulteriormente devastato il paese, per il prossimo 7 novembre.

Tra i paesi che vendono armi ad Haiti vi sono soprattutto gli Stati uniti, come evidenziato dal Sipri di Stoccolma (Stockholm International Peace Research Institute). Del resto, non è un caso se il 12 novembre 2019, ricorda lo stesso Lautaro Rivara, l’ex marine Yves Sebastien scese all’aeroporto di Port-au-Prince da un volo della compagnia di bandiera Usa American Airlines con tre valigie piene di armi e munizioni.

Tutto ciò, purtroppo, non sorprende. Tra gli organizzatori del G-9 del luglio 2020, tra gli altri, vi era Jimmy Cherizier, noto con il soprannome di Barbecue, ma soprattutto un sanguinario ex agente dell’unità dedita a mantenere l’ordine ad Haiti, un corpo specializzato della polizia nazionale. Prima di essere allontanato dal suo incarico coordinava anche il rifornimento di generi di prima necessità per le zone più povere del paese ed era riuscito incredibilmente a farsi passare come benefattore nonostante fosse in realtà un criminale, grazie anche alla sua vicinanza con l’allora presidente Moise.

In un contesto del genere si comprende facilmente il motivo per cui Haiti rappresenti un terreno fertile per le bande paramilitari, lasciate libere di agire indisturbate soprattutto nei quartieri più poveri della capitale come Cité Soleil, dove la stessa Minustah (Mission des Nations Unies pour la Stabilisation en Haïti), la missione Onu per lungo periodo a guida brasiliana, spesso è stata responsabile di numerosi episodi di violenza.

Sono gli stessi paramilitari a decidere se gli abitanti delle periferie che circondano Port-au-Prince possano uscire o meno dalle loro case e se è lecito protestare contro il governo di turno. Inoltre, sono in crescita anche i sequestri di persona. Nel solo 2020, secondo l’associazione Défenseurs Plus, ne sono stati registrati almeno 1270 ad opera della criminalità che utilizza questo sistema per autofinanziarsi tramite lauti riscatti.

Insicurezza strategica, distruzione del tessuto sociale, caos organizzato e delegittimazione delle classi popolari ad Haiti hanno come responsabili Osa (Organizzazione degli stati americani), Onu e Binuh (The United Nations Integrated Office in Haiti), ha spiegato in un’intervista rilasciata a Rebelión l’uruguayana Mónica Riet, impegnata in numerose iniziative di solidarietà con la popolazione haitiana.

Il suo giudizio su quanto sta accadendo ad Haiti è molto duro: “Ad Haiti è in corso una vera e propria guerra condotta contro la popolazione e la profonda crisi umanitaria è opera di Binuh, diretta da una suprematista bianca Usa, Osa, Nazioni unite, Francia e Unione europea, Brasile”.

Anche Riet ha confermato la presenza ad Haiti di armi provenienti dagli Stati uniti, sottolineando che spesso quelle in dotazione ai paramilitari sono assai superiori, per numero e qualità, a quelle della polizia, ma questo serve agli Usa soprattutto per mantenere una forma di regime neocoloniale, almeno fin quando Moise non è stato ucciso.

Un’opinione simile è stata espressa anche da Camille Chalmers, economista ed esponente della Plataforma para el Desarrollo Alternativo de Haití (PAPDA) secondo la quale, a partire dal 2010, l’estrema destra haitiana ha sequestrato il potere in maniera del tutto illegale con l’appoggio dell’Onu.

Permane, in maniera chiara, il terrorismo di stato, come avviene in paesi quali Cile o Colombia, in particolare per quanto riguarda i massacri di civili compiuti dalle bande paramilitari, assimilabili alle pandillas centroamericane: le persone preferiscono rimanere chiuse in casa per evitare di imbattersi nei gruppi paramilitari.

Sebbene sia stato ucciso, Moise mirava alla militarizzazione del territorio secondo uno schema non troppo dissimile da quello delle destre latinoamericane, allo scopo di bloccare la partecipazione politica, come dimostrano le ripetute occupazioni militari del paese a partire dalla Minustah, prolungatasi per 13 anni e sciaguratamente guidata per diverso tempo dal Brasile allora progressista.

La resistenza haitiana ha cercato di far fronte alla situazione dando vita al Fronte patriottico popolare, dove sono presenti partiti di sinistra e movimenti sociali antisistema, ma si tratta di un percorso ad ostacoli in un paese in cui polizia e pandillas sono responsabili quasi ogni giorno di sequestri e omicidi. Nella sola capitale Port-au-Prince si è verificato, nelle ultime settimane uno sfollamento interno di quasi diecimila persone. Tra gli ultimi ad essere assassinati, lo scorso mese di giugno, il giornalista Diego Charles e l’attivista femminista Antoinette Duclaire.

Incredibilmente, l’ambasciata Usa ad Haiti, con una certa faccia tosta, ha stigmatizzato la violazione sistematica dei diritti umani, prima di incassare l’ennesima e quanto mai ambigua dichiarazione di fiducia dal parte del primo ministro de facto, Claude Joseph, che, solo pochi giorni dopo l’omicidio di Moise, aveva rilanciato: “Gli Usa ci offrono una volta di più il loro appoggio, parliamo di elezioni, parliamo di sicurezza, parliamo di accordo politico”.

Haiti resta così nelle fauci del lupo, anzi, dei tanti lupi che, dal vecchio continente alle Americhe fino a dubbie missioni di stabilizzazione, non aspettano altro che vederla ancora sottomessa. Il violento terremoto di alcuni giorni fa e la successiva tempesta tropicale hanno contribuito a distruggere un paese che vive in una costante catastrofe umanitaria permanente.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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