Haiti, la dignità degli ultimi

di David Lifodi

Se cercate Haiti su Google le parole associate maggiormente ricorrenti sono “terremoto” ed “emergenza”. Ancora: se provate a ricordare qualche servizio televisivo in cui vedete Port-au-Prince vi saranno rimasti in mente soltanto gli scontri tra la popolazione intenta a strapparsi di mano le scorte alimentari distribuite dall’Onu e dalle organizzazioni non governative presenti nel paese. Infine: trenta secondi di cronaca politica per parlare di alti livelli di corruzione e ingovernabilità dell’isola. Tradotto: non sono capaci di organizzarsi e quindi c’è bisogno che qualcuno se ne prenda carico al posto loro. Questa è la realtà propagata dall’informazione mainstream.

Invece gli haitiani non sono come appena descritti sopra: ce lo spiegano con un saggio documentato e ricco di spunti Marco Bello e Alessandro Demarchi nel loro Haiti, l’innocenza violata (Infinito Edizioni – Gennaio 2011), in cui raccontano l’orgoglio della società civile di questo paese e la forza dei movimenti sociali, nonostante il terremoto del 12 Gennaio 2010, le epidemie di colera ed una ricostruzione ancora ben lontana dal procedere a pieno ritmo. Ad una prima parte dedicata alla storia politica dell’isola, resasi indipendente il 1 Gennaio 1804, seguono altre sezioni sulle personalità attive nelle organizzazioni popolari che consentono al lettore di comprendere le dinamiche sociali diffuse ad Haiti nonostante colpi di stato militari, regimi dittatoriali e disastrosi eventi naturali. Primo paese nero ad essere indipendente, oggi Haiti rischia di perdere la sua sovranità, sottolineano i vari interlocutori. A più riprese viene messa in discussione la Commissione di Ricostruzione (Cirh) che “assegna tanti se non più diritti agli stranieri che agli haitiani”, spiega il monsignore dei contadini Pierre-Antoine Paulo, così denominato per il suo impegno con i movimenti in lotta per la terra nella sua diocesi. “Parte dei fondi sono impiegati per pagare grossi salari a tecnici e tecnocrati che vengono dall’estero a gestire le attività sul terreno”, racconta ai suoi interlocutori, ed il suo pensiero è condiviso da molti. L’edizione di Gennaio di Le Monde Diplomatique significativamente titolava “Haiti: tra Dio e le Ong” ed esprimeva più o meno lo stesso concetto: gli haitiani dovrebbero essere i principali protagonisti di una ricostruzione che invece è totalmente appannaggio degli Stati Uniti e delle organizzazioni non governative, spesso non coordinate tra loro tanto da sovrapporsi in certe zone del paese o delle città lasciandone totalmente sguarnite altre. I dubbi sul piano di ricostruzione di Haiti crescono quando gli autori del libro scrivono che è stato presentato a New York il 31 marzo 2010 con l’esclusione della società civile. I giornalisti indipendenti di Groupe Medialternatif lamentano le numerose incongruenze del piano stesso poiché non è in grado di individuare le necessità “del contesto rurale, delle donne, dei quartieri popolari, dei campi, degli sfollati” e a questo si sommano la volontà della comunità internazionale di avere un controllo sull’evoluzione del paese e la totale dipendenza di Haiti dagli Usa, risalente al 1915. Emerge chiaramente una forma di cattiva cooperazione, di cui alcuni esempi sono descritti da Nicolas Pierre-Louis, leader del movimento contadino della sua regione in seno alla Plateforme Haïtienne de Plaidoyer pour un Développement Alternatif, una piattaforma di base che raccoglie numerose realtà di base haitiane. Nicolas parla del progetto Winner, un programma d’appoggio all’agricoltura nato da una collaborazione tra Usaid e Monsanto, per cui è facilmente immaginabile cosa può venire fuori dall’ambigua agenzia di cooperazione Usa ed una multinazionale maestra in fatto di ogm e monocolture. Il tasto dolente batte anche sulle ong embedded, “che hanno inviato aiuti attraverso i militari e questo ha umiliato i contadini.. costretti ad estenuanti attese sotto il sole per una bottiglietta d’acqua o una razione di cibo, guardati a vista da soldati che imbracciavano mitra”, nota con disappunto Nicolas. Un altro fenomeno che sta prendendo piede è quello dell’invasione di Haiti ad opera delle sette fondamentaliste. Lo spiega bene Padre William Smarth, a cui gli autori del libro hanno dedicato un capitolo. La Chiesa di base ha giocato un ruolo significativo negli anni ’80 alimentata dalla Teologia della Liberazione, ma la presenza crescente delle sette riesce ad attirare fedeli tramite la comunicazione ossessiva di messaggi messianici, ammette Smarth. Eppure Haiti, nonostante buona parte delle persone non disponga ancora di un rifugio di fortuna (ad oltre un anno dal terremoto), in qualche modo resiste, perlomeno a livello sociale e culturale. Marco Bello e Alessandro Demarchi hanno dedicato il loro libro non solo a tutte le vittime del 12 Gennaio, ma soprattutto a Magalie Marcelin, femminista haitiana e attivista per i diritti umani morta anche lei a Port-au-Prince a causa del sisma. Qui si entra nella parte più toccante del lavoro dei due autori, che hanno riproposto la registrazione di un loro incontro con Magalie avvenuto alcuni anni prima. Si tratta di un saggio interno alla pubblicazione, il cui capitolo iniziale è significativamente intitolato “Percorso di una rivoluzionaria”. Magalie racconta il cammino politico che fin da giovanissima l’ha portata a lottare contro la dittatura di Duvalier figlio per aver toccato con mano le forti disuguaglianze sociali presenti nel paese nonostante la sua appartenenza ad una famiglia benestante. Riflette sul (difficile) rapporto tra partiti di sinistra e movimenti popolari, racconta con passione gli anni dell’esilio, l’incontro con il pensiero femminista e le difficoltà delle organizzazioni popolari a tornare sulla scena in maniera credibile dopo la giravolta di Jean-Bertrand Aristide, il convitato di pietra evocato in più di una circostanza nelle interviste dei protagonisti che animano le pagine del libro. Presidente popolare vicino alla Teologia della Liberazione durante il suo primo mandato nel 1990, il sacerdote salesiano fu destituito dopo nemmeno un anno da un colpo di stato militare e riportato dai marines Usa sull’isola per volere di Clinton. Dopo anni di lotte interne e scissioni in seno al suo partito, Aristide tornerà di nuovo alla presidenza del paese nel 2001 per poi essere costretto all’esilio a causa delle forti pressioni internazionali, ma a quel punto già da tempo aveva cambiato linea: bande armate ai suoi ordini, omicidi mirati e legami politici con i figuri più impresentabili del regime duvalierista lo avevano screditato.

Come ha scritto Maurizio Chierici (storico inviato del Corriere della Sera in America Latina prima di passare al Fatto Quotidiano) nella sua introduzione, “questo libro ci porta in mezzo agli haitiani, ad ascoltare la loro voce, le loro visioni sulla ricostruzione del paese e della società”. Qui secondo me sta anche il pregio di Bello e Demarchi, capaci di lavorare ad una pubblicazione, credo unica in Italia per quanto riguarda Haiti, diretta a spiegare in modo semplice e alla portata di tutti le vicende assai complesse di un paese e dei suoi movimenti sociali che cercano di intravedere nel terremoto un’occasione per rivitalizzarsi e rafforzarsi nonostante le difficoltà quotidiane che si trovano a dover affrontare.

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