Hanno ammazzato Miguel ma Miguel è vivo

di Ricardo Alarcón Quesada (*)

«Giuro che vivrò senza paura, seguendo solo i dettami della mia coscienza, senza timore del ridicolo o di cosa diranno. Se non fossi coraggioso di costituzione lo diventerò con la ragione». Lo promise, scrivendolo in un quaderno che non pensava certo di pubblicare. La nota è del primo gennaio 1962. Miguel Enriquez aveva allora 17 anni.

Già viveva

secondo coscienza e per questo si unì ad altri giovani come lui, studenti dell’università di Concepción che volevano fare del Cile una terra di giustizia, libertà e solidarietà. Si avvicinarono ai lavoratori, agli abitanti dei quartieri, ad altri giovani le cui famiglie povere non potevano mantenerli agli studi. Nel 1965 fondarono il Mir (Movimiento de Izquierda Revulcionaria) che presto sarebbe diventato uno strumento indispensabile della causa del popolo cileno.

MiguelEnriquez

 

 

 

 

Nel 1967 Miguel divenne segretario generale del Mir e lo rimase fino all’ultimo giorno di vita e di lotta.

Il Mir nacque nel cuore di un decennio caratterizzato da una prodigiosa ribellione giovanile che ovunque nel mondo si impegnò a trasformarlo in meglio, senza dogmi o stereotipi, con vitalità, freschezza e l’ottimismo di coloro che sapevano di essere padroni del futuro. Erano i tempi nei quali molti cantavano un nuovo inno rivoluzionario: «All you need is love» (quello di cui hai bisogno è solo amore) dicevano in coro moltitudini che si immaginavano capaci di assaltare il cielo e di conquistarlo.

Il mondo era complesso e contraddittorio. La Guerra Fredda con la minaccia di distruzione universale e la costruzione di blocchi sottomessi a padroni rigidi e settari; le dispute fra due potenze (Urss e Cina) che reclamavano la paternità del socialismo e contaminavano con il loro antagonismo le forze progressiste; la rivolta di popoli in Africa e in Asia, per lungo tempo senza parola, che illuminavano la via verso l’ Uomo Nuovo.

L’impero statunitense, allora allo zenit della sua egemonia, aveva un indiscusso dominio sull’America Latina, anche se doveva far fronte all’insolita sfida di una piccola isola dei Caraibi. La rivoluzione cubana ebbe una forte influenza su un continente che Washingoton considerava un sicuro “cortile di casa”. Nella sinistra tradizionale Cuba sollevò dubbi e sospetti; nella destra e nel suo padrone straniero odio vendicativo; nella nuova generazione, emuli romantici e altruisti. Definire una strategia propria e costruire strumenti capaci di realizzarla era una missione difficile e rischiosa che aveva bisogno di una specie di costruttori differenti, capaci di pensare con la propria testa e sempre guidati da autentici sentimenti di amore. Tale era Miguel, tale era il Mir.

Il Mir cileno fu un esempio di ricerca di una via sicura in un contesto intricato. Nacque lottando contro una creatura demagogica fabbricata da Washington per privare il popolo cileno di una vittoria che sembrava vicina anche prima del ’59 cubano. Il Mir crebbe, convinto che costruire il socialismo non era copiare altre esperienze ma una creazione eroica, lottando assieme agli sfruttati. Assieme a loro il Mir si trovò poi a difendere il popolo che aveva portato alla Moneda (cioè al palazzo presidenziale) Salvador Allende impegnandosi a far avanzare il progetto rinnovatore. Il presidente martire ebbe sempre in Miguel l’alleato più sincero e disinteressato. Miguel Enriquez e il Mir seppero vedere i rischi che affrontava il legittimo governo e i pericoli dell’opportunismo. Anticipando la tragedia che stava arrivando, Miguel Enriquez e il Mir mobilitarono il popolo «a marciare in avanti con tutta la forza della Storia».

Dopo il colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973, Miguel Enriquez e il MIR furono l’anima e il motore della resistenza a un regime che non conosceva limiti alle atrocità. Nella più dura clandestinità, affrontando terrore e scoraggiamento, Miguel Enriquez raggruppò forze disperse e per più di un anno diresse personalmente la lotta armata. La sua impresa, sintesi dell’eroismo collettivo, fu prova suprema di fedeltà agli ideali e ai sogni che avevano caratterizzato la sua vita fin dalla gioventù.

I fascisti lo consideravano il loro peggior nemico. Contro lui e il Mir crearono un reparto speciale. «Il Mir non si nasconde» fu la semplice e chiara risposta.

La dittatura scatenò contro Miguel Enriquez una vera e propria caccia all’uomo. E alla fine – utilizzando la tortura, i “desaparecidos” e l’assassinio di militanti – il 5 giugno riuscirono a trovare la modesta casa (nel quartiere di San Miguel) dove aveva trovato un precario rifugio. Non era certo una fortezza ma il luogo fu assediato da un numeroso contingente di agenti, armati fino ai denti, compreso un tank urbano e un elicottero che attaccarono senza tregua la casa dove da solo resisteva. Ebbero il coraggio di entrare solo quando Miguel non poteva difendersi, giacendo al suolo con dieci pallottole in corpo.

Sequestrarono il suo corpo e lo consegnarono alla famiglia solo il 7 ottobre. Ad accompagnare Miguel al cimitero 8 familiari, un ramo di fiori e centinaia di sbirri, in uniforme o in civile, con le loro mitragliette.

Si udì allora la voce di una donna coraggiosa: «Miguel Enriquez Espinosa, figlio mio, non sei morto. Continui a vivere e continuerai a farlo per la speranza e la felicità di tutti i poveri e gli oppressi del mondo».

Quarant’anni dopo, nessuno dubiti, Miguel continua a essere presente e starà con noi per sempre.

(*) Nota apparsa in Cubadebate del 3 ottobre, tradotta da Francesco Cecchini.

 

Redazione
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  • La nota di Ricardo Alarcón Quesada, apparsa in Cubadebate del 3 ottobre scorso al di là di una certa retorica e di una visione nostalgica di un passato che non fu solo quello da lui descritto, ha il grande pregio di ricordare un comunista ed antifascista caduto giovane combattendo contro una delle dittature militari più feroci del secolo scorso, quella di Pinochet in Cile.

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