Holt, Kōtarō, Manotti, Sciascia, van der Noot più…

… più la “coppia” McIlvanney-Rankin e Autori Vari.

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

William McIlvanney e Ian Rankin

«Oscuri resti. Le indagini di Laidlaw»

traduzione di Alfredo Colitto

Feltrinelli

250 pagine, 18 euro

Glasgow. Ottobre 1972. Jack Laidlaw è bravo nel suo lavoro di poliziotto (attratto dalla natura umana e dal piano pensionistico), sembra avere un sesto senso per ciò che accade nelle strade, un pezzo unico in mezzo a una produzione di massa, però bisogna maneggiarlo con cura: carattere cupo e taciturno, un rompiballe battitore libero, inadatto a qualsiasi convenevole. Beve, fuma, pensa troppo, legge libri non solo fiction (sul tavolo in ufficio Unamuno, Kierkegaard e Camus, così chi li vede si incuriosisce e lo lascia in pace), cita scrittori e poeti, gioca male a biliardo (ma da ragazzo era un buon calciatore). Ha lasciato l’università dopo un anno ma è restato convinto che per affrontare i crimini molto servano sociologi e filosofi. Si avvicina ai quarant’anni, è un uomo di bell’aspetto, spalle larghe e mascella quadrata, spesso sofferente di emicranie, sempre imbronciato: “ha un viso così lungo che rischia di inciamparci sopra” (come noto, non è il solo). Abita a Simshill (lontano dal centro), è solitariamente sposato con Ena, hanno tre figli (Moya 6 anni, Sandra 5, Jack 2) e, quando un caso lo prende, prevale il disagio di restare a casa, si ferma a dormire in un alberghetto. Difficile che un tipo così strano faccia carriera, è restato detective; gli mettono vicino il sergente Bob Lilley (circa coetaneo, brava persona) quando la famiglia denuncia la scomparsa di Bobby Carter, avvocato venale e astuto che sguazza dentro le acque inquinate della criminalità organizzata, e quando poi ne viene trovato il cadavere accoltellato, dietro un pub, fra i bidoni della spazzatura e gli scatoloni vuoti. Sta lì lì per scoppiare una guerra fra le potenti ammanicate bande della città, i capi sono in subbuglio, sull’orlo di una crisi di nervi. Il pessimo ispettore Ernie Milligan assume la responsabilità dell’indagine, le cose peggiorano, altri morti, pestaggi, guai. Laidlaw va per la sua strada, ovunque porti. Bob con lui.

Una bella sorpresa. Il grandissimo scrittore scozzese Ian Rankin (1960) ha scelto di completare quel romanzo della pluripremiata serie Laidlaw lasciato incompiuto dal grande maestro e scrittore scozzese William McIlvanney (1936-2015), che aveva iniziato un’avventura sul significativo “esordio” del suo protagonista, nel contesto degli stessi luoghi ma di tempi precedenti rispetto a quelli dei tre romanzi usciti nel 1977, 1983 e 1991 (in italiano 2000-2001, poi Feltrinelli 2013-2016). Jack non ama la fratellanza massonica e il capitalismo totalitario, ripete spesso che invece sarebbe felice di presentare i suoi casi davanti ai filosofi che predilige, proprio perché “qualunque cosa accada, ci sono sempre oscuri resti” (da cui il titolo, inglese e italiano). Infatti: “dietro vernici e intonaci nuovi, avrebbe trovato sempre povertà, matrimoni senz’amore, violenze domestiche, bile settaria, come brutti tatuaggi nascosti sotto una camicia pulita” (come noto, non solo a Glasgow, parte essenziale della vicenda). E il manuale del poliziotto (che gli consigliano di usare meglio) “è scritto in una lingua straniera e gli mancano diverse pagine”. La narrazione è in terza varia, molto sul protagonista, ma anche la moglie, Bob, il comandante della squadra Omicidi Robert Frederick, i capibanda con i propri uomini o con Jack (mitici dialoghi). Segnalo che Tom Docherty (raccontato nel 1996 in un romanzo fuoriserie di McIlvanney, nipote del minatore raccontato in un altro romanzo del 1975), compagno di scuola di Laidlaw, era un grande fan di W.H. Auden, a pag. 232. Whisky a gogò, anche con la birra, a sua volta anche con il rum. Musica dura. Un romanzo imperdibile dell’estate 2022.

Anne Holt

«Lo sparo. Le indagini di Selma Falck»

traduzione di Margherita Podestà Heir

Einaudi

540 pagine, 20 euro

Oslo. Dal 5 settembre al 22 settembre 2019. Selma Falck è con due care vecchie amiche in una caffetteria coi tavolini all’esterno. Sparano di giorno con il fucile da lontano, Selma viene colpita dal proiettile che ha appena perforato da dietro la testa di Linda Bruseth alla sua sinistra, Vanja Vegge resta illesa seduta al centro di fronte a loro. Subito non si capisce chi fosse il bersaglio, Linda era una deputata anonima, Vanja una psicologa amata, Selma è la più (casualmente) famosa delle tre; all’ospedale la ricoverano, la spalla è ferita e fa male; l’ispettore Frederik Smedstuen avvia un primo informale interrogatorio, riferendo utili corrette opinioni dell’esperto erudito affascinante consulente Birger Jarl Nilsen. Ben presto viene confermato che volevano uccidere Linda. Perché mai? Con l’aiuto di Einar Falsen, Selma spulcia comunque i casi rifiutati o in sospeso, anche perché qualcuno le è entrato nell’appartamento, lasciando ricordi della sua infanzia. L’urgenza di verificare cosa sta accadendo nasce dalla grande priorità di rivedere il nipote Skjalg di cinque mesi che la figlia Anine non si fida a fargli tenere, considerata la vita pericolosa della nonna. E, poi, l’amico giornalista (dell’Aftenavisen) Lars Winter coinvolge Selma nell’inchiesta lasciata in sospeso da un collega morto (in un incidente stradale con un tassista) su alcuni casi relativi all’affidamento di minori. Arriva un altro appariscente omicidio (inscenato da suicidio) di una bassissima giudice della Corte, altri guai misteri morti. Molto sembra ruotare intorno alle dolorose storie del Ministero della Famiglia e Selma pensa alle sue di esperienze familiari, incombe il 53esimo compleanno (il 16 settembre).

L’eccelsa scrittrice norvegese Anne Holt (Larvik, 1958), laureata in legge, giornalista dal 1984, avvocato dal 1994, ministro della giustizia nel biennio 1996-97, ha pubblicato complessivamente oltre una ventina di gialli. Dopo dieci avventure ha un poco accantonato la serie Wilhelmsen (iniziata nel 1993) ed è al terzo ottimo romanzo della nuova serie con un’aspra spettacolare protagonista. Selma ha un unico vero amico, il puzzolente ex poliziotto ed ex barbone Einar, una coppia straordinaria per risolvere misteri! La narrazione è in terza varia, più lunghi e articolati i capitoli su Selma, tanti e più brevi quelli sulle altre cinque figure significative della vita della protagonista o della storia, fra cui l’Uomo che va spesso al cimitero e pianifica la competente esplosione del caso. Nell’antefatto di maggio 2010 l’incontro fra una donna intelligente e un giovane con l’idea dell’inedito “concepimento” di una futura nascita, gravida di conseguenze. Il titolo norvegese è il titolo dell’ultimo capitolo, con la lettera del giovane figlio al papà, “L’effetto Mandela”, ovvero (come spiega Selma): “noi esseri umani possediamo una fantastica capacità di ingannare noi stessi… Il fatto è che non stiamo mentendo davvero. Ricordiamo male. Crediamo di aver vissuto qualcosa che invece non ha mai avuto luogo”. Prende spunto da una sudafricana capace di raccontare il funerale di Nelson Mandela, presunto morto in prigione nel 1990. Sullo sfondo dei dialoghi fra i protagonisti del romanzo il vero scandalo del Nav, uno dei più grandi enti pubblici norvegesi, responsabile di molteplici errori giudiziari compiuti a danno di cittadini che erano stati accusati di aver usufruito illegalmente dell’assistenza sociale. Nella nota finale l’autrice accenna alla ragione fondamentale dello splendido romanzo: “le battaglie di natura giuridica tratte dalla realtà sollevano una serie di questioni difficili e io ho scritto questo libro spinta da uno stupore di carattere politico, giuridico e umano”. Selma beve Pepsi Max (altrimenti riprende a giocare, è stata malata di poker), invece gli altri buoni vini rossi. Si parla di Eric Clapton per la paura delle altezze, non per le musiche.

Patrizia Debicke van der Noot

«L’eredità medicea. Vittima… o carnefice?»

Tea

304 pagine, 14 euro

Firenze. 1537. Il 5 notte lo sciocco e idealista Lorenzino de’ Medici, detto Lorenzaccio, uccide il cugino Alessandro de’ Medici, duca di Firenze, a tradimento con la complicità di due sicari (lo Scoroncolo e il Freccia), sotto gli occhi di Caterina Soderini, una Befana di sangue. Lotte e congiure sono all’all’ordine del giorno e subito si scatena l’aspra lotta per la successione, strategie e trame riguardano papa, imperatore, re di Francia, cento interessi e mille comprimari. Intanto assume il potere il 17enne Cosimo de’ Medici, l’unico figlio di Giovanni delle Bende Nere, con l’appoggio di Alessandro Vitelli, comandante dell’esercito imperiale, che si trova a Città di Castello e interviene subito, la vicenda sarà cruenta. La narrazione è in terza sui vari protagonisti e si conclude oltre un anno dopo con le nozze di Cosimo. Ottimo romanzo storico “L’eredità medicea” della colta esperta Patrizia Debicke van der Noot (Firenze 1942), che molto e bene ha raccontato l’età medicea.

 

Leonardo Sciascia

«Breve storia del romanzo poliziesco»

introduzione di Eleonora Carta

Graphe

44 pagine per 6,50 euro

Pianeta umano, da millenni. Occidente, da quasi due secoli. «La principale ragione per cui un pubblico vastissimo, in ogni parte del mondo, legge (sarebbe dir meglio consuma) romanzi polizieschi (“gialli” in Italia, “neri” in Francia: dal colore della copertina che gli editori Mondadori e Gallimard hanno scelto nel momento in cui il poliziesco diventava un genere a sé) …» potrebbe essere trovata in una frase di Alain rintracciabile in Sistema delle arti (Alain era lo pseudonimo del filosofo e giornalista francese Émile-Auguste Chartier, 1858-1951) oppure in riflessioni di Marx e Freud, sintetizzabili in breve. «Nei romanzi del genere sono impiegati senza precauzione – senza la precauzione, cioè, che è dell’arte – dei mezzi che con notevole approssimazione si possono definire di terrore: e l’effetto è fuga di pensieri, meditazione senza distacco. La lettura di un poliziesco è, nel senso più proprio della parola, passatempo: il tempo non più portatore di pensiero o di pensieri, non più scandito da condizioni e condizionamenti, è come sommerso in una fluida e opaca corrente emotiva …». Questo è l’incipit del ragionamento di Leonarda Sciascia sul settimanale Epoca del 20 settembre 1975, proseguito nel numero successivo e ripubblicato come saggio di una raccolta di scritti del 1998 (se ne possono rintracciare un paio di versioni quasi identiche). Con tale premessa Sciascia individua già all’interno della Bibbia il primo racconto poliziesco, ingredienti identici a quelli a lui contemporanei, per un genere le cui origini più vicine e precise possono essere anche tecnicamente distinte in Edgar Poe. La traccia di ragionamento è stata ribadita da decine di autori, recensori e studiosi in centinaia di pezzi, più o meno giornalistici, solo aggiornando i termini.

Il siciliano europeo Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) fu presto appassionato anche di letteratura di lingua angloamericana, avido lettore degli scrittori popolari e, tra essi, sia dei grandi del cosiddetto giallo classico di fine Ottocento e primi Novecento che degli autori della nuova scuola hard-boiled, a partire dal capostipite Dashiell Hammett, da cui poi il genere sarebbe divenuto anche noir per la carica di denuncia e di prefigurazione (propria anche di molti romanzi di Sciascia). L’autore è una lettura imprescindibile soprattutto per chi ama scrivere: si gode, si pensa e s’introietta pure uno stile chiaro e limpido. Nel 2021 sono stati numerosi i volumi, le mostre e gli eventi che gli sono stati dedicati in tutt’Italia per il centenario della nascita. Fra di essi possiamo considerare la riedizione di questo breve significativo testo giornalistico di storia della letteratura. Lo schema di ragionamento era un buon cliché già cinquant’anni fa, pur argomentato in modo colto e sincero: il poliziesco come genere minore di puro intrattenimento. Valeva e vale spesso come premessa alla disanima personale di cosa sia alta letteratura di pensiero, nel caso (non solo) di Sciascia come esperienza di scardinamento del genere e testimonianza di un “altro” modo di scrivere polizieschi. In realtà, la dialettica risale indietro (più o meno ai tempi della Bibbia) e merita di essere rivalutata a partire da Sciascia, come opportunamente fa Eleonora Carta nell’introduzione, nella quale l’autrice sottolinea come comunque Sciascia “celebra” il genere e, in qualche modo, “riabilita” la propria conseguente passione, forse anche per codificare regole che i propri gialli cercarono di sovvertire, scomporre, rovesciare. Nella sua “storia” Sciascia tratta Poe, Conan Doyle, Van Dine, Freeman, Agatha Christie, Hammett, Chandler, cita brevemente altri esemplari colleghi e ricorda, a contrasto, solo Greene, Bernanos, Gadda (e Borges) fra “i grandi scrittori” a lui recenti, “che, per divertimento o congenialità, hanno scritto dei gialli”. In fondo utile la cronologia della vita di Sciascia e l’indice dei nomi di persona e dei titoli citati.

Dominique Manotti

«Marsiglia ‘73»

traduzione di Francesco Bruno

Sellerio

402 pagine, 15 euro

Marsiglia. Agosto 1973. Prologo: la situazione dei migranti in Francia dopo l’autunno 1972 e la circolare governativa Marcellin-Fontanet con gli inventati “illegali” candidati all’espulsione dall’estate del 1973. Il mercoledì di ferragosto è il primo giorno di pausa dall’inizio del mese per Théodore Daquin, possente 27enne, occhi e capelli castani, spalle larghe e volto quadrato; fra i primi al corso della Scuola dei commissari; per un anno al servizio di sicurezza dell’ambasciata di Francia a Beirut; da marzo assegnato al Vescovado di Marsiglia, sede del Servizio regionale di polizia giudiziaria, il più giovane commissario. Lo chiama Vincent Royer, un avvocato in carriera (membro di uno studio specializzato nella difesa dei malavitosi marsigliesi), ex compagno della facoltà di legge di Parigi, là scoprirono parallelamente la gioia di accettare la propria omosessualità, ora trascorrono insieme belle ore per una serata di gusti e passione, il loro è un rapporto amoroso clandestino, sporadico tiepido confortevole. Al suo arrivo Théo era stato coinvolto nell’indagine intorno all’assassinio di Maxime Pieri, un grande imprenditore di trasporti marini con un passato nella criminalità organizzata, gestita in modo corretto, a parere di tutti. Ha una piccola squadra della Brigata Criminale, di soli due (ottimi) uomini, gli ispettori Grimbert e Delmas. Ora sono arrivati per secondi sulla scena del delitto a sangue freddo di Malek Khider, un benvoluto 16enne francese di genitori algerini, ammazzato per la strada da un killer con i complici a bordo di due auto, chiaramente un bersaglio di un raid antiarabo, forse compiuto da poliziotti, forse coperto dagli agenti della Sicurezza urbana. Conflitti interni ed esterni per l’animalesco atletico parigino Théo, con un triste passato alle spalle e un futuro presto lontano dal Mediterraneo, si muoverà con acume per andarsene da Marsiglia e fare giustizia, almeno un poco.

Dominique Manotti (Parigi, 1942), colta solida lucida ironica, già docente di storia e sindacalista, da oltre venti anni si è dedicata alla bella e militante scrittura, una quindicina di splendidi romanzi (questo è il sesto con lo stesso protagonista, qui però agli esordi), molto apprezzati anche in Italia sugli intrecci fra criminalità e finanza nella storia europea e planetaria, con spunti francesi (sull’immigrazione alcuni paesi europei hanno corsi e ricorsi storici e giuridici). L’ultimo (in terza varia al presente) è uscito a fine 2020 in Francia ed è attualissimo nel nostro paese: vi si affronta un noto caso europeo di politiche migratorie nazionalistiche, con la dovuta attenzione alla specifica evoluzione delle relazioni con l’Algeria, visto che dopo De Gaulle tornarono anche i pieds noirs. La crisi dell’estate e dell’autunno 1973 fece davvero quasi 15 morti nella comunità algerina di Marsiglia (solo due assassini identificati), una cinquantina in Francia, tanti non luoghi a procedere e archiviazioni; continuò per almeno altri 2-3 anni. Daquin, dopo essersi scontrato col contesto corso-marsigliese della French Connection e con l’avversione brutale verso i “finocchi”, qui fa i conti col razzismo, endemico e contingente, istituzionale e sociale, incistato nei pubblici apparati e anche nella polizia. È un sincero combattente (buon giocatore di rugby), quietamente non esibizionista, e ha già ben imparato a muoversi, cucina bene e beve meglio, si salva anche grazie a una notte d’amore con la gallerista americana incontrata qualche mese prima. Il bel romanzo è, infatti, il seguito di “Oro nero” (2015), tornano molti personaggi e lo sfondo coinvolgente di Marsiglia, dove i parigini faticavano a capire che La Canebière era una frontiera: a nord immigrati tollerati, a sud banditi. Nadia è stufa, virtualmente a metà strada, e ha un vaso di Murano in ufficio. Vini bianchi e tanti altri alcolici meticci.

 

AA. VV. (Alajmo, Longo, Malvaldi, Manzini, Recami, Robecchi, Savatteri, Stassi)

«Una notte in giallo»

Sellerio

370 pagine, 16 euro

Pineta. Il 10 agosto, notte di San Lorenzo, stelle cadenti. Alle undici di sera forse si sta finalmente per addormentare Matilde Viviani, figlia del mitico Massimo barrista del BarLume e della vicequestora Alice Martelli, ormai tre mesi, altezza cinquantanove centimetri e peso cinque chili e nove (il tutto in continuo aumento). Il caro anziano amico Aldo Griffa fa uno squillo al padre (che ha la nota raccapricciante suoneria) perché ha paura che se si rivolgeva alla madre lei si sarebbe incazzata, tuttavia è con la poliziotta che deve parlare. Alla cena di degustazione dei grandi champagne millesimati del millennio è scoppiato un caso delicato, c’è bisogno di forze dell’ordine che arrivino senza clamore. Ormai la piccolina si è svegliata, Massimo la prende in braccio, Alice raggiunge Aldo al lussuoso hotel di Cala Risacca, un’insenatura riparata a una decina di chilometri dal paese, spiaggia in concessione e albergo in possesso da generazioni della famiglia Mazzei. Aldo vi aveva fatto il sommelier gigolò ed era rimasto legato ai coniugi proprietari, che lo avevano invitato anche quella sera. A un certo punto era andata via la luce ed è scomparso il collier di una marchesa, valore (assicurato) di circa due milioni di euro. Dovranno arrivare Massimo e Matilde per sbrogliare la matassa. Primo racconto (“Un regalo che solo io posso farti” di Marco Malvaldi) di un volume collettaneo di otto (“Una notte in giallo”), anche il secondo (“La notte di San Lorenzo” di Andrej Longo) è ambientato nella stessa notte altrove (a Ischia sul vulcanico Epomeo), gli altri durante differenti ore cruciali di mesi e anni in mezz’Italia, quei momenti in cui tutto accade (non solo per intrattenerci).

Ennesima (quindicesima?) antologia di racconti gialli per la casa editrice palermitana, scritti per l’occasione, in continuità con le accorte riuscite sperimentazioni che hanno costituito una svolta nel genere del genere. Per l’edizione 2022 qualità media discreta, testi godibili, intrattenimento garantito. Le ho recensite tutte (dal 2011) e questa è la seconda pubblicata in assenza di Andrea Camilleri, ideata e scritta dopo la sua morte. Sono otto gli autori coinvolti della scuderia Sellerio, tutti maschi: Roberto Alajmo (un pochino più breve degli altri), Andrej Longo, Marco Malvaldi, Antonio Manzini, Francesco Recami, Alessandro Robecchi, Gaetano Savatteri (un pochino più lungo), Fabio Stassi. Il tema (un po’ forzato, ma ben gestito) sono le ore notturne di un giorno di clamore vitale, perlopiù contemporaneo. La lunghezza è omogenea, la raccolta ribadisce una contaminazione che non inficia gli stili noti e amati di ogni autore, come d’abitudine quasi tutti narranti in terza persona (eccetto Longo e Savatteri, anche loro come di consueto), talora al passato e talora al presente, nel modo caratteristico di ogni relativa serie di romanzi. Impossibile citare tutti i vini citati o le colonne sonore, ormai conoscete gli autori e si può lasciar vagare l’immaginazione con competenza. Morti con Robecchi a Milano in autunno, Stassi (una) a Roma a fine estate, Manzini (uno) in Val d’Aosta a fine febbraio, comunque perlopiù altre tipologie di “casi” e ad agosto: un furto per Malvaldi come detto, un rapimento per Longo, forse un falso allarme per Savatteri a Màkari e San Vito Lo Capo, uno scherzo (antipatico) per Alajmo a Palermo, un sequestro (violento) per Recami nella casa di ringhiera di Milano.

Isaka Kōtarō

«La vendetta del professor Suzuki»

Einaudi

traduzione di Bruno Forzan (edizione originale: 2004)

342 pagine per 18,50 euro

Tokyo. Venti anni fa, circa. L’ex mite quasi trentenne professor Suzuki (da cui il titolo), sta facendo apprendistato d’illegalità con la gelida Hiyoko, forse coetanea: sequestrano due ragazzi, prima o poi dovranno firmare un pessimo contratto. Gli è stata uccisa la moglie due anni prima, travolta e uccisa da un’auto pirata; ha deciso di infiltrarsi nella struttura criminale responsabile dell’omicidio e regolare i conti. Incrocia killer di varia umanità: il Cicala che ammazza chiunque, soprattutto innocenti; il Balena che legge Dostoevskij e persuade le vittime a suicidarsi. La quarantina di capitoli di “La vendetta del professor Suzuki”, noir feroce e umoristico del celebre pluripremiato scrittore giapponese Isaka Kōtarō (Matsudo, 1971), secondo suo romanzo pubblicato in Italia, alternano in terza i tre protagonisti (ma ci sono anche lo Spingitore che butta giù ai semafori e nelle stazioni e altri personaggi esplorati nei caratteri) e mescolano giallo crime pulp con ottima efficacia.

 

Redazione
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