I 100 anni del genocidio armeno. Diamanda Galás, la morte canta!

A cent’anni dal genocidio degli armeni in Turchia: un percorso di informazione e riflessione, settimo post (*)

di Santa Spanò

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16 ragazze crocifisse – Malatia Armenia 1915 (Auction of Souls)

«Una canzone? È teatro, film, romanzo, idea, slogan, atto di fede, danza, festa, lutto, canto d’amore, arma, prodotto deperibile, compagnia, momento della vita.», sono parole di Georges Moustaki a cui aggiungerei anche denuncia, meditazione, testimonianza.

 “Defixiones Will and Testament” è l’album pubblicato da Diamanda Galás nel 2003, dopo una pausa di registrazione durata 5 anni. Un album che è insieme meditazione e testimonianza dei genocidi  armeni, greci, assiri e anatolici effettuati dalla Turchia negli anni 1914-1923, e allo stesso tempo una denuncia della posizione negazionista americana e sopratutto turca dei genocidi. La Turchia ha infatti sempre rifiutato di riconoscere come genocidio il massacro sistematico di oltre 1.200.000 armeni negli anni 1915-1916, questo il numero di morti stando alle fonti più accreditate, e che gli armeni commemorano il 24 aprile. Niente smentite e niente conferme neanche da parte degli Stati Uniti che devono “salvaguardare” i rapporti politici con la Turchia.

Adana, rovine, foto collezione George Grantham Bain, Library of Congress

Adana, rovine, foto collezione George Grantham Bain, Library of Congress

Un massacro iniziato già nell’aprile del 1909, con la carneficina nella provincia ottomana di Adana, dove vennero trucidati dai 15.000 ai 30.000 armeni. La strage fu perpetrata dal movimento politico Giovani Turchi, d’ispirazione mazziniana, che avrebbe dovuto portare alla riconciliazione etnico-religiosa l’impero ottomano. Movimento che venne appoggiato dalla stessa popolazione armena, dopo la campagna di “pulizia” etnica voluta dal sultano Abdul Hamid II,  sostenitore del nazionalismo musulmano, che nel 1896 portò alla morte di oltre 200.000 armeni, nell’indifferenza di tutti gli stati.

Il 24 aprile per il popolo armeno sarà il giorno dello Metz Yeghern, il “Grande Crimine”, un giorno di memoria per commemorare i 100 anni da quel 24 aprile 1915 che fu non certo l’inizio dello sterminio di un popolo.

Occorreva una voce potente per rompere una sommessa indignazione fatta di silenzi. Una voce che esprimesse il dolore e la disperazione della morte, niente facili commozioni, né melodie adulatrici, d’altronde siamo di fronte a Diamanda Galás, ma emozioni umane di rabbia, lamento, sofferenza che si fondono per lacerare le coscienze. L’eccezionale estensione della Galás non viene spinta al massimo, non occorre, quello di cui canta è già di per sé spaventoso.

 “Defixiones Will and Testament”, è una sorta di cerimoniale, la Galás intreccia testi e poesie, del poeta militante armeno Siamanto, del rebetiko greco, del poeta assiro libanese Adonis, le canzoni di Sotiria Bellou e del greco anatolico Amanedhes, il blues di  Blind Lemon Jefferson e tante altre testimonianze.

Diamanda-Galas-album-Defixiones,-Will-and-Testament

L’album si apre con “La danza” cantata quasi esclusivamente a cappella. Il pezzo riprende la poesia “La danza” scritta dal poeta e scrittore armeno Siamanto dopo il massacro degli armeni di Adana. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1909, con l’aiuto degli zingari e dei Basci-buzuk, i soldati ottomani massacrarono i cristiani di Adana, razziando i loro averi, le chiese e le scuole. Siamanto, come l’altro grande poeta armeno Daniel Varujan, venne arrestato e ucciso dai Turchi durante il genocidio armeno del 1915.

Nel brano “La danza” Diamanda Galás racconta, il suo è un lamento disperato in lingua araba, con le parole di Siamanto, le atroci efferatezze a cui furono sottoposte le ragazze armene prima di essere massacrate.  Venivano infatti costrette a danzare nude sotto i colpi dei loro aguzzini, prima di essere arse vive.

La danza

In un campo di ceneri, dove la vita armena
ancora stava morendo,
una donna tedesca, cercando di non piangere
mi raccontò l’orrore di cui fu testimone:

“Questa cosa che ti sto raccontando
l’ho vista coi miei occhi,
da dietro la mia finestra infernale
ho stretto i denti
e ho visto il paese di Bardez
ridotto a un mucchio di cenere.
I cadaveri formavano pile alte come alberi,
e dalle fonti, dai fiumi e dalla strada
il sangue gorgogliava cupo
e ancora grida vendetta nei miei orecchi.

Non avere paura; devo dirti quel che ho visto,
così la gente capirà
i crimini che gli uomini fanno agli uomini.
Per due giorni, sulla strada per il cimitero…

Lo capiscano i cuori del mondo,
era una domenica mattina,
la prima inutile domenica che sorgeva sui cadaveri.
Dall’alba al tramonto ero rimasta in camera
con una donna pugnalata,
le mie lacrime bagnavano la sua morte –
quando sentii da lontano
una folla cupa che stava in un vigneto
mentre frustava venti ragazze
cantando canzoni oscene.

Lasciai la ragazza moribonda sul pagliericcio
e andai al balcone della mia finestra;
la folla sembrava addensarsi come folto d’alberi
mentre una bestia d’uomo gridava, “Dovete danzare,
danzare al rullo del tamburo.”
Con furore le fruste schioccavano
sulla carne di quelle donne.
Mano nella mano, le ragazze cominciarono a danzare in tondo.
In quel momento invidiai la mia vicina ferita
perché, con un rantolo tranquillo,
malediceva l’universo e affidava l’anima alle stelle…

“Danzate”, urlavano,
“danzate fino a morire, bellezze infedeli
con i vostri seni che sbattono, danzate!
Sorrideteci, ora siete abbandonate,
voi, schiave nude,
e allora danzate come un branco di troie,
ci eccitano i vostri corpi morti.”
Venti graziose ragazze crollarono a terra.
“Alzatevi”, gridava la folla
brandendo le spade.

Allora qualcuno portò un bidone di kerosene,
giustizia umana, io ti sputo in faccia.
Le ragazze furono unte.
“Danzate”, urlarono come tuono,
“eccovi un’essenza che non trovereste in Arabia.”

Con una torcia diedero
fuoco alle ragazze nude.
E i corpi carbonizzati rotolarono
cadendo nella morte.

Chiusi sbattendo le persiane,
mi sedetti accanto alla ragazza morta
e le chiesi: “Come posso cavarmi gli occhi?”

(Siamanto, pseudonimo di Atom Yarjanian, 1878-1915. Traduzione di Riccardo Venturi dalla versione inglese qui)

 Genocidio-armeno-1915

Il reverendo Herbert Adams Gibbons di Hartford, un missionario americano in visita ad Adana, ha descritto la scena che si aprì davanti ai suoi occhi: «I cadaveri giacevano sparsi per le strade. Venerdì, quando sono uscito, ho dovuto cercare un sentiero in mezzo ai morti per evitare di calpestarli. Sabato mattina in mezz’ora ho contato una dozzina di carri carichi di corpi armeni che venivano trasportati al fiume per essere gettati in acqua.»

Secondo il racconto della missionaria Elizabeth S. Webb: «È stata una situazione terribile, le donne e le ragazze erano praticamente da sole nel palazzo, una folla assetata di sangue omicida fuori, armata con coltello e proiettili per gli Armeni e la torcia per le loro case.»

Nel 1915 la storia si ripete con inaudita violenza, i morti e la bestialità non hanno fine. Il documentario “Auction of Souls” girato a Hollywood nel 1919, racconta di questo “olocausto”, basandosi sulle testimonianze dei sopravvissuti e sul libro “Ravished Armenia”, scritto nel 1918 da Arshaluys (Aurora) Mardiganian, rapita e sopravvissuta al genocidio.

Nella città di Malatia, racconta nelle sue memorie Aurora Mardiganian, vidi 16 ragazze cristiane crocifisse : «Ogni ragazza era stata inchiodata viva sulla sua croce… solo i capelli, soffiati dal vento, coprivano i loro corpi.»

Ravished-Armenia-I-100-anni-del-genocidio-armeno

Lo storico cinematografico Anthony Slide ha rivelato, 70 anni dopo, che la scena della crocifissione nel documentario “Auction of Souls” è stata volutamente resa meno atroce. Stando alle descrizioni della Mardiganian, le ragazze erano state prima violentate e poi impalate.

“Pali appuntiti, simili a croci, erano stati conficcati nella vagina, è questo il modo in cui le hanno uccise”

“Defixiones Will and Testament” ti trascina in questo abisso, la voce di Diamanda ora recitativa, ora dissonante, esplode in grida disumane che sanno di violenza, rantoli che sanno di sangue, preghiere che sanno d’indifferenza e giustizia mancata per tutti questi massacri.

Il titolo stesso dell’album appare come un monito, “Defixiones” si riferisce alle lamine di piombo collocate dai parenti sulle tombe dei loro defunti, le lamine mettevano in guardia con avvisi o maledizioni coloro che si apprestavano a compiere azioni dissacranti o crimini. Defixiones significa “inchiodare”, i nemici venivano inchiodati ad un terribile destino qui.

Perché a volte solo ai morti è consentito perseguitare, per i loro crimini, i vivi.

Al repertorio originale dell’album è stato aggiunto un toccante brano scritto dalla Galás stessa, intitolato The World Has Gone Up In Flames, eseguito per la prima volta alla Royce Hall dell’UCLA nel novembre 2001.

Diamanda Galás avverte che, persino nella morte, coloro che vi erano stati costretti non sono stati né sconfitti, né dimenticati. “La mia morte è scritta su una roccia che non può essere spezzata”.

https://www.youtube.com/watch?v=Pvz0oL6raIU

 

Grazie a:

  • Wikipedia
  • Canzoni Contro la Guerra qui

“Le immagini presenti in questo post sono solo a scopo illustrativo. Copyright dei rispettivi aventi diritto che ringrazio.”

(*) Dal 17 aprile ogni giorno (alle 16) troverete un post sulla storia armena, sul genocidio del 1914, sulla diaspora, sui nodi storici che pesano sull’oggi. E’ il contributo della nostra piccola redazione per far sì che il ricordo non duri un giorno o una settimana… come spesso accade nelle commemorazioni ufficiali. Abbiamo disegnato, attraverso una dozzina di post, un affresco che pensiamo possa essere utile. Se qualcuna/o vuole aiutarci ad allargarlo, a proseguirlo… benissimo, si faccia sentire. (*db per la redazione*)

Santa Spanò
Diceva Mark Twain: "Ci sono due momenti importanti nella vita: quando nasci e quando capisci perché". E io nacqui. Sul perché ci sto lavorando, tra la bottega, il mio blog http://lasantafuriosa.blogspot.it/ e... il resto ve lo racconto strada facendo.
Dimenticavo, io sono Santa!

Un commento

  • Daniele Barbieri

    SEGNALIAMO ANCHE QUESTI MATERIALI DELLA RIVISTA «UNA CITTA’»

    In occasione del centenario del genocidio degli armeni (24 aprile) proponiamo, dal nostro archivio, un’intervista a Yves Ternon, fra i massimi studiosi dell’argomento, e una allo storico Pierre Vidal-Nacquet (1930-2006).
    Una Città 68 / 1998
    CHI RICORDA PIU’?
    Intervista a Yves Ternon di Marco Bellini ed Emanuela Fronza
    Nella notte del 24 aprile 1915 prese avvio il genocidio degli armeni, un’operazione voluta da pochi “intellettuali” turchi, con la copertura del governo. Hitler citò gli armeni per ricordare l’impunità del genocidio, non per prefigurare quello ebraico, alla programmazione del quale, forse, ancora non pensava. Per armeni ed ebrei il contesto bellico fu fatale. Un genocidio esige, oltre all’intenzione criminale, un piano concertato. I nuovi gruppi criminali che possono sostituire lo stato nella realizzazione di un genocidio.
    http://www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=279
    Una Città 51 / 1996
    IL PRECEDENTE DEGLI ARMENI
    Intervista a Pierre Vidal-Naquet di Marco Bellini
    Pensare all’unicità assoluta della Shoah non ha senso. Lo sterminio degli armeni, seppur non industriale, ha costituito il grande precedente. L’intento genocida si propone l’eliminazione di qualcuno per il solo fatto che è nato. Il caso di Srebrenica dove le donne sono state risparmiate. La confusione fra Dachau e Treblinka.
    http://www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=79

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