I colonizzatori buoni non esistono… anche se prima le vittime erano loro

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Gaza. Il vero elefante nella stanza (dei bottoni) di Netanyahu – Alastair Crooke

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

Il punto della crisi di Gaza è che se tutti sono d’accordo nel mettere la testa sotto la sabbia e ignorare l'”Elefante nella stanza”, è abbastanza facile farlo. Il significato di una grave crisi viene compreso adeguatamente solo quando qualcuno si accorge dell'”elefante” e dice: “Attenzione, c’è un elefante che sta camminando qui.” È qui che ci troviamo oggi. Lentamente, l’Occidente sta iniziando a prenderne atto. Il resto del mondo, tuttavia, ne è folgorato e si sta trasformando.

Qual è “l’Elefante” (o gli Elefanti) nella stanza? La recente diplomazia regionale di Blinken è stata proprio “uno smacco”. Nessuno dei leader regionali incontrati da Blinken ha voluto parlare ulteriormente di Gaza, oltre a chiedere con fermezza “nessun trasferimento di popolazione palestinese in Egitto”, la “fine di questa follia” – il bombardamento a tappeto dei cittadini di Gaza – e la richiesta di un cessate il fuoco immediato.

E gli appelli di Biden per una “pausa” – soavemente, all’inizio, e più stridente ora – sono stati ignorati senza mezzi termini dal governo israeliano. Lo spettro dell’impotenza del Presidente Carter durante la crisi degli ostaggi iraniani incombe sempre più sobriamente sullo sfondo.

La verità è che la Casa Bianca non può costringere Israele a fare la sua volontà – la lobby israeliana ha più peso al Congresso di qualsiasi squadra della Casa Bianca. Pertanto, non si vede “nessuna uscita” dalla crisi israeliana. Biden ha “fatto il suo letto” con il gabinetto Netanyahu e deve convivere con le conseguenze.

Impotenza quindi, mentre il Partito Democratico si frattura al di là della semplicistica divisione tra centristi contro progressisti. La polarizzazione derivante dalla “posizione di non cessate il fuoco” sta avendo effetti fortemente destabilizzanti sulla politica, sia negli Stati Uniti che in Europa.

Impotenza, quindi, mentre la forma del Medio Oriente si cristallizza in un forte antagonismo verso l’assecondamento percepito dall’Occidente del massacro di massa di donne, bambini e civili palestinesi. Il dado potrebbe essere troppo “tratto” per frenare il reset tettonico già in corso. I doppi standard occidentali sono ormai troppo ineluttabilmente evidenti per la Maggioranza Globale.

Il grande “Elefante” è questo: Israele ha sganciato più di 25.000 tonnellate di esplosivo dal 7 ottobre (la bomba di Hiroshima del 1945 era equivalente a 15.000 tonnellate). Qual è esattamente l’obiettivo di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra? In apparenza, la precedente operazione militare nel campo di Jabalia aveva come obiettivo un leader di Hamas sospettato di nascondersi sotto il campo – ma sei bombe da 2.000 libbre per un “obiettivo” di Hamas in un campo profughi affollato? E perché anche gli attacchi alle cisterne d’acqua, ai pannelli di energia solare dell’ospedale e alle entrate dell’ospedale, alle strade, alle scuole e alle panetterie?

Il pane è quasi scomparso a Gaza. Le Nazioni Unite affermano che tutte le panetterie nel nord di Gaza sono state chiuse in seguito al bombardamento degli ultimi forni. L’acqua pulita è disperatamente scarsa e migliaia di corpi si stanno lentamente decomponendo sotto le macerie. Malattie ed epidemie stanno comparendo, mentre le forniture umanitarie vengono strettamente limitate come strumento di contrattazione per ulteriori rilasci di ostaggi…

Il redattore di Haaretz, Aluf Benn, spiega molto chiaramente la strategia israeliana:

“L’espulsione dei residenti palestinesi, la trasformazione delle loro case in cumuli di macerie edilizie e la limitazione dell’ingresso di rifornimenti e carburante a Gaza sono la ‘mossa decisiva’ impiegata da Israele nell’attuale conflitto, a differenza di tutte le precedenti tornate di combattimenti nella Striscia.”

Di cosa stiamo parlando? È chiaro che non si tratta di evitare morti civili collaterali quando l’IDF combatte con Hamas. Non ci sono state battaglie di strada a Jabalia, o all’interno e intorno agli ospedali – come ha commentato un soldato: “Tutto quello che abbiamo fatto è stato girare con i nostri veicoli blindati. Gli interventi sul campo arriveranno più tardi.” Il pretesto dell'”evacuazione umanitaria” è quindi fasullo.

Le forze principali di Hamas sono sedute in profondità nel sottosuolo, in attesa del momento giusto per attaccare l’IDF (cioè quando saranno a piedi tra le macerie). Per ora, l’IDF rimane nei suoi carri armati. Ma prima o poi dovranno affrontare Hamas a piedi. Quindi, la lotta con Hamas è appena iniziata.

I soldati israeliani si lamentano di “vedere a malapena” i combattenti di Hamas. Ebbene, ciò è dovuto al fatto che non sono presenti a livello stradale, se non in gruppi di uno o due uomini che escono dai tunnel sotterranei per attaccare un ordigno esplosivo a un carro armato o per lanciargli un razzo. Gli agenti di Hamas tornano poi rapidamente nel tunnel da cui sono usciti. Alcuni tunnel sono costruiti solo per questo scopo – come strutture “una volta e basta”. Non appena il soldato incursore ritorna, il tunnel viene fatto crollare in modo che le forze israeliane non possano entrare o seguirlo. Vengono continuamente costruiti nuovi tunnel “usa e getta”.

Non troverete combattenti di Hamas nemmeno negli ospedali civili di Gaza; il loro ospedale si trova nelle strutture principali in profondità nel sottosuolo (insieme a dormitori, magazzini per diversi mesi, armerie e attrezzature per scavare nuovi tunnel). E i quadri di Hamas non si trovano nei sotterranei dei principali ospedali di Gaza.

Il corrispondente di Haaretz per la difesa, Amos Harel, scrive che Israele sta comprendendo solo ora la portata e la sofisticazione delle strutture sotterranee di Hamas. Riconosce che i “vertici militari” – a differenza dei circoli di governo – “non stanno parlando di sradicare il seme di Amalek” (un riferimento biblico allo sterminio del popolo di Amalek) – cioè di un genocidio. Ma anche i leader militari dell’IDF non sono sicuri del loro “scopo finale”, osserva.

Quindi, l’Elefante nella stanza per gli abitanti del Medio Oriente – che assistono alla distruzione della struttura civile in superficie – è: qual è esattamente l’obiettivo di questa uccisione? Hamas è in profondità, sotto terra. E sebbene l’IDF rivendichi molti successi, dove sono i corpi? Non li vediamo. I bombardamenti devono quindi costringere all’evacuazione dei civili – una seconda Nakba.

E l’intento che si cela dietro l’espulsione? Secondo Benn, è quello di creare la sensazione che non torneranno mai più a casa:

“Anche se presto verrà dichiarato un cessate il fuoco su pressione americana, Israele non avrà fretta di ritirarsi e permettere alla popolazione di tornare nella Striscia settentrionale. E se dovessero tornare, in cosa tornerebbero? Dopo tutto, non avranno case, strade, istituti scolastici, negozi o qualsiasi altra infrastruttura di una città moderna.”

Si tratta di una punizione contro la popolazione civile di Gaza, dettata dal desiderio di vendetta? O è uno sfogo di rabbia e determinazione escatologica? Nessuno può dirlo.

Questo è l'”Elefante”. E dal suo chiarimento dipende la questione se anche gli Stati Uniti saranno macchiati da un crimine. Da questo chiarimento dipende la possibilità o meno di trovare un accomodamento diplomatico duraturo (se Israele sta davvero tornando alla radice biblica, escatologica, della giustificazione).

È questa la questione che in futuro perseguiterà Biden personalmente e l’Occidente collettivamente. Qualunque sia la tempistica che Biden aveva in mente, il tempo gli sta rapidamente sfuggendo, in mezzo alla crescente indignazione internazionale, poiché il conflitto tra Israele e Gaza è ora incentrato principalmente sulla crisi umanitaria di Gaza e non più sull’attacco del 7 ottobre.

Può sembrare inverosimile, eppure Gaza, con una superficie di soli 360 kmq, sta determinando la nostra geopolitica globale. Questo lembo di terra – Gaza – controlla anche, in una certa misura, ciò che verrà dopo…

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«I colonizzatori buoni non esistono», e la storia accusa Netanyahu – Ennio Remondino

«A Gaza situazione al limite del genocidio». A dirlo è lo studioso Ilan Pappé, uno dei più illustri intellettuali della Nuova storiografia israeliana, autore del libro premonitore «La prigione più grande del mondo», e ora l’intervista a La Stampa.
«In una tale situazione non puoi presentarti come un occupante liberale, un purificatore etnico progressista o un colonizzatore benigno, né assicurare a queste persone piena indipendenza e uno Stato o garantire loro eguale cittadinanza. Questa è occupazione e colonizzazione».

 

Coloni a prendere sempre di più

‘Colonialismo dei coloni’ è una definizione dello scomparso ma famoso studioso del colonialismo Patrick Wolfe. «Elemento base, le principali azioni dei coloni contro la popolazione autoctona costituiscono un ‘processo continuo’ -non smetteranno mai-, legate al desiderio costante di abitare il territorio colonizzato senza includere i nativi al suo interno. «Finché ciò non avverrà, il colonialismo dei coloni cercherà sempre nuovi modi per raggiungere tale obiettivo, a seconda dei mezzi e dei modi a loro disposizione», aveva affermato Wolfe.

La colpa imperdonabile di Netanyahu

Per gli analisti seri, il premier in carica da più di 15 anni anche se non consecutivi, è ‘un morto politico che cammina’ e il 75% degli israeliani lo considera responsabile della carneficina eseguita dal gruppo islamista. L’errore imperdonabile è di aver distratto per mesi il Paese con una contestata riforma della giustizia per i suoi processi per corruzione, spostando l’attenzione militare a sostegno dei coloni invasori in Cisgiordania.

Pappé: colonizzatori inglesi e sionismo

A proposito di coloni israeliani e colonizzazione, Pappé, da storico, è partito dall’assenza di regolamenti di emergenza emessi dagli inglesi mandatari, da far rispettare dagli israeliani tanto nel 1948 quanto nel 1967. Non a caso.

Peggio di Custer coi pellerossa

«Mentre i coloni vengono processati secondo la legge israeliana e in Tribunali israeliani, tutti i palestinesi sono sottoposti ai Tribunali militari; nelle aree B e C i militari sono i padroni assoluti e spesso si spingono fino alla zona A».

Occupazione in Cisgiordania

Sulla organizzata e progressiva espansione dell’occupazione in Cisgiordania, «L’influenza internazionale potrebbe essere, molto importante per mettere un freno a Israele, se le parole fossero accompagnate dai fatti», dice Ilan Pappé. «Ma oggi vediamo i coloni e l’esercito assieme, operare una pulizia etnica dalla Valle del Giordano e dal Sud del Monte Hebron a danno dei palestinesi, mentre la comunità internazionale è silente al riguardo: la sua unica iniziativa è stata minacciare Israele con delle sanzioni».

‘Due Stati’ resi impossibili

E sull’annoso fronte diplomatico, lo scrittore ritiene una sorta di ‘Truce inganno’, la formula superata dei due popoli per due Stati. «In Cisgiordania si sono stanziati 600.000 coloni ebrei e attorno a loro è stato costruito il consenso israeliano che essi non potranno mai venire spostati». Furto pianificato, «Israele controlla il 60% della Cisgiordania e non vi è spazio per un altro Stato».
«Dovremmo trovare un’altra soluzione che possa garantire la costituzione di uno Stato democratico», azzarda Ilan Pappé, sfiorando appena il tema democrazia che ormai riguarda sia la parte palestinese che quella ebraica.

Ancora Netanyahu

Netanyahu, sotto assedio anche per le trattative per la liberazione dei circa 240 ostaggi in mano ad Hamas, potrebbe uscire di scena al termine della prima fase dell’operazione di terra a Gaza. A decidere sulle sorti del premier potrebbe essere l’amministrazione Usa che fornisce bombe da sganciare su Gaza, ma che sta pagando un prezzo politico anche interno sempre più alto. «Per ciò che è accaduto ci sarà una resa dei conti nella società israeliana e la catena delle responsabilità arriva dritta alla scrivania del primo ministro», sussurra alla stampa amica l’amministrazione Usa.

Dramma sulla Striscia di Gaza

Bombe americane ad esplosione incrociata. Ma i morti veri, stiamo arrivando ai 12 mila, sono nella Striscia. «Una situazione al limite del genocidio. Non può avvenire diversamente, quando invii un esercito enorme in una delle aree più densamente popolate del pianeta. Hamas combatterà fino alla fine, molti soldati israeliani saranno uccisi, sarà molto difficile liberare gli ostaggi e il numero dei morti palestinesi aumenterà. A meno che non vi sia presto un cessate il fuoco, questo è ciò che accadrà».

In conclusione, secondo Ilan Pappé, non ci saranno cambiamenti in Vicino Oriente ‘nel prossimo futuro’. «I Paesi arabi che si oppongono all’Iran continueranno a perseguire una sorta di processo di normalizzazione con Israele, malgrado l’opinione delle loro società civili». Speriamo di sbagli, ma temiamo abbia ragione.

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Gioco di sponda terribile tra Netanyahu e Hamas – Elena Basile

Il recupero dell’etica è un fattore politico. Siamo abituati ai travestimenti etici di interessi concreti geopolitici, monopolio di un Occidente in declino. Siamo abituati alla propaganda. Il recupero della dimensione morale è invece essenziale alla politica, come progetto di cambiamento. Non basta dire che proteggiamo tutti i bambini. Oggi muoiono barbaramente quelli di Gaza. Va imposto a Israele il cessate il fuoco. L’Occidente ha i mezzi per farlo. Gli amici veri di Israele dovrebbero agire per salvare Tel Aviv da una spirale di violenza che non avrà fine. L’Olocausto ci ricorda l’esigenza di opporci alle carneficine degli indifesi: 4 mila bambini sono massacrati. Cosa attendiamo?

Rende perplessi osservare come tra una organizzazione terroristica che ricomprende la lotta di liberazione di un popolo in un quadro religioso, Hamas, e la destra religiosa oscurantista, il revisionismo militarista del sionismo, esista una sorta di complicità. L’azione violenta di Hamas sulla indifesa gioventù ebraica (è molto strano che un concerto ai confini di Gaza fosse senza difese) appare soltanto un’azione barbarica priva di strategia. Possibile che dopo i razzi sparati a vuoto, dopo le innumerevoli provocazioni senza sbocco e le ricorrenti atroci reazioni, anch’esse barbariche, del governo di Israele, che attua punizioni collettive, sanzionate dall’Onu, commettendo crimini di guerra, Hamas ancora non abbia imparato che questa strategia è perdente?

La tattica di Hamas, come avevano ben previsto Rabin e lo stesso Netanyahu, sostenendo l’organizzazione d’intesa con la Cia, porta carburante alla destra israeliana. Il governo di Israele, e purtroppo non solo quello di Nethanyau, ha utilizzato il terrorismo palestinese per giustificare il blocco illegale di Gaza, i continui soprusi nella limitazione delle forniture, le attese ingiustificate ai check point che colpiscono le ambulanze, gli insediamenti illegali e l’apartheid in Cisgiordania. Solo un cieco potrebbe non vedere questo gioco di sponda.

I bambini di Gaza feriti, senza medicine e acqua, soffrono pene infinite. Sembra ci sia una gerarchia insopportabile tra le vittime. Mi impressiona l’accanimento sulle definizioni che vi è stato ultimamente. Se secondo un formalismo giuridico, peraltro tutto da dimostrare, non si volesse definire genocidio la strage di Gaza e non si volesse definire potenza occupante Israele, la sostanza delle violazioni dei diritti, delle punizioni collettive, del regime di apartheid resta. Se Gaza è una prigione a cielo aperto c’è uno Stato che imprigiona.

Probabilmente è tutto spiegabile da un punto di vista psicologico. C’è nella natura umana un’inclinazione a far parte del gruppo vincente. Sui giornali continuano a spiegarci che Putin ha violato le frontiere dell’Ucraina come Hamas ha eseguito la carneficina della gioventù ebraica. La decontestualizzazione e la mancanza di prospettiva storica è drammatica. Di fatto la Russia ha reagito con una violazione del diritto internazionale a una politica aggressiva occidentale che stava armando l’esercito ucraino per renderlo interoperabile con quello della Nato. Ha utilizzato una minima parte della sua forza militare, non l’aeronautica, non ha operato massacri indiscriminati di civili e la Corte penale internazionale considera Putin un criminale di guerra. La violenza della cosiddetta unica democrazia dell’Occidente contro Gaza è incomparabile con l’azione russa.

Questa guerra durerà, purtroppo. La destabilizzazione e le guerre permanenti alimentano interessi economici e finanziari. La Germania è in recessione, la Cina ha qualche difficoltà. Se la sua economia non fosse imbrigliata dalla fine della globalizzazione, potrebbe superare l’economia Usa entro il 2050. Le potenze del surplus arrancano, mentre avanza la potenza del debito insostenibile se non col potere fittizio del dollaro. Le sanzioni non hanno fatto male alla Russia, ma all’Europa. Gli ucraini soffrono come non mai in passato, ma il gruppo dirigente chiede armi. Dove è la razionalità politica di strategie contro i popoli ucraino ed europeo? Dove è la razionalità politica nella strage di bambini a Gaza che moltiplicherà i terroristi? Il terrorismo sarebbe impossibile senza violenza e ingiustizia. Il terrorismo è anche fede, è anche un’idea. La Storia prova che nasce quando i canali politici sono chiusi.

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Qualche domanda – Francesco Masala

Se è legittimo che gli israeliani facciano saltare in aria il Parlamento di Hamas o che distruggano gli ospedali di Gaza, con malati e personale sanitario inclusi, allora è legittimo che chiunque possa far saltare in aria la Knesset o gli ospedali israeliani?

 

Qualcuno piange per i poveri coloni che non possono lasciare le loro case abusive nella patria dell’apartheid? Nessuno dei coloni deve restare nei territori occupati, che vanno dis-occupati, senza se e senza ma. Quando nacque lo stato algerino un milione di coloni francesi dovettero lasciare l’Algeria; con tutti gli amici che amano e armano Israele non sarà difficile ospitare quei coloni, no?

 

Se l’Onu sancisce, delibera, vota le regole dei rapporti fra stati secondo il diritto internazionale, come mai Israele se ne fotte e segue le regole della Bibbia (come spiega Mauro Biglino qui)? Con che faccia si criticano i paesi che applicano la sharia o quelli che vorrebbero seguire il diritto di Hammurabi o del Signore degli anelli?

 

Come mai i territori occupati da Israele, contrari tutti i palestinesi, sono giustificati e sostenuti dal blocco occidentale (che si autodefinisce la Comunità Internazionale)? Come mai i territori annessi dalla Russia, con l’approvazione degli abitanti di quelle regioni, bombardati per otto anni dall’esercito ucraino, sono condannati senza appello dal blocco occidentale (che si autodefiniscè la Comunità Internazionale) tanto da fare una guerra, e perderla miseramente, lasciano l’Ucraina in macerie, materiali e umane?

 

I disegnatori di confini fanno proprio schifo? O sono i loro datori di lavoro a essere criminali (di guerra)?

 

Ci ricordiamo che dopo la guerra di Israele a Gaza da uno a due milioni di palestinesi saranno senza casa?

Scrive Primo Levi:

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici…

 

 

 

Guerra Israele-Palestina: gli israeliani negano e sono impauriti mentre la loro società scivola verso il fascismoMeron Rapoport

Studenti, accademici e medici palestinesi e dissidenti ebrei israeliani sono fra coloro che sono stati invischiati in una crescente ondata di repressione

Ci sono momenti in cui mi chiedo seriamente in che paese vivo. Ma soprattutto mi chiedo che tipo di Paese potrebbe diventare il giorno dopo la fine di questa guerra tremenda.

Lunedì mi sono collegato con un incontro su Zoom con l’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, un’organizzazione che rappresenta i cittadini palestinesi e che include fra i suoi membri politici, accademici e attivisti.

È stato un atto di tradimento? Potrebbe esserlo stato.

Giovedì è stato arrestato Mohammed Baraka, capo del comitato ed ex leader del partito di sinistra Hadash, deputato della Knesset per 16 anni.

Sono stati arrestati anche altri due alti esponenti politici, Sami Abu Shehadeh, leader ed ex parlamentare del partito Balad, e Haneen Zoabi, un altro ex deputato.

Il loro crimine: indire una piccola dimostrazione a Nazareth contro la guerra a Gaza.

Adesso guardare il canale di Hamas su Telegram è certamente un reato per il quale puoi passare un anno in prigione.

Si sta verificando un’epurazione di studenti e insegnanti palestinesi nelle università e nei college israeliani.

Adalah, il centro legale ed ente per i diritti umani guidato da palestinesi, segue già più di 100 casi di studenti e insegnanti sbrigativamente espulsi per ciò che avevano scritto a proposito di Gaza sui social media o persino in gruppi privati su WhatsApp.

Secondo Adalah alcuni di questi post citavano semplicemente dei versetti del Corano o pubblicavano liste di giornalisti presenti a Gaza.

Hasan Jabarin, il direttore generale di Adalah, ha raccontato al comitato di un‘insegnante convocata per aver postato che “non esiste altro dio all’infuori di Allah”, una frase pronunciata in occasione di un lutto.

Ha spiegato che la zia era morta e la scuola ha richiesto di vederne il certificato di morte e solo allora l’hanno “perdonata”.

La caccia alle streghe è cominciata all’Università di Haifa.

Lo stesso giorno dell’attacco di Hamas una studentessa ha ricevuto una lettera dal rettore che le comunicava che era stata sospesa dal corso e che il giorno dopo doveva liberare la sua stanza nella casa dello studente.

Era stata accusata di aver “sostenuto l’attacco terroristico contro gli insediamenti vicino a Gaza e l’uccisione di innocenti”, un’accusa che lei ha categoricamente negato.

C’è stata una protesta e una petizione firmata da 24 docenti che chiedevano un procedimento regolare e che il caso venisse esaminato da una commissione disciplinare.

Adalah si sta occupando del caso. L’espulsione della studentessa, ha affermato in una lettera all’università, è stata “arbitraria e irragionevole” e costituisce una “seria violazione dei diritti della studentessa a un procedimento equo, all’alloggio e alla libertà di espressione”.

Il caso è tuttora pendente.

E non sta succedendo solo ad Haifa. Una mia amica, Warda Saadeh, docente al Kaye College, un centro di formazione per insegnanti a Beersheba, ha postato che Gaza è stata sotto assedio per 16 anni, senza in alcun modo giustificare o lodare l’attacco di Hamas. Ha condannato chiaramente l’uccisione di civili. È stata licenziata dopo 30 anni di lavoro presso il college.

La stessa cosa sta avvenendo nel servizio sanitario israeliano dove i palestinesi costituiscono il 40% del personale in ospedali, centri medici e farmacie.

Nihaya Daoud, una studiosa di salute pubblica presso l’università Ben Gurion del Negev e direttrice della sotto-commissione per la salute del comitato di follow-up, ha raccontato di una campagna per espellere medici e operatori sanitari, talvolta anche per ciò che avevano scritto prima che iniziasse la guerra.

Abed Samarah, un cardiologo dell’ospedale Hasharon, è stato licenziato senza possibilità di difendersi perché aveva postato, un anno prima dell’attacco, la bandiera dell’Islam con una colomba che porta un ramo d’ulivo.

Daoud ha affermato che i palestinesi nel servizio sanitario sono vittime di molestie da parte di colleghi ebrei e che nessuna azione viene intrapresa dai sindacati o dalle associazioni mediche.

Gode di impunità anche la petizione firmata da centinaia di medici ebrei israeliani che hanno invocato il bombardamento dell’ospedale Shifa a Gaza City, una richiesta che, secondo Daoud, è senza precedenti sia in Israele che nel resto del mondo, sostenendo che è in diretta violazione sia delle Convenzioni di Ginevra che del giuramento di Ippocrate.

‘Psicopolizia’

Ancora più preoccupante è il fatto che molto di ciò non viene dall’alto, da un governo pieno di elementi di estrema destra.

Queste epurazioni da ‘psicopolizia’ sono fatte dall’università o dalle stesse autorità dell’ospedale.

Sono i colleghi ebrei di docenti e dottori palestinesi che sono in azione.

Cosa sta succedendo?

Primo, penso che sia una decisione consapevole e collettiva a livello ufficiale e non, per fuggire dalla realtà.

Lo scorso venerdì nessun canale televisivo israeliano ha trasmesso il discorso di Hasan Nasrallah, il leader di Hezbollah, con la motivazione che avrebbe aiutato il nemico.

Al Jazeera, al contrario, ha trasmesso dal vivo le quotidiane conferenze stampa dell’esercito israeliano.

Troppi ebrei israeliani vogliono estraniarsi dalla realtà, cioè che i due milioni di palestinesi che vivono in Israele sono solidali con la gente di Gaza. Ovviamente lo sono. Molti di loro, specialmente a Giaffa o Ramle, hanno famigliari a Gaza, rifugiati fuggiti da queste città nel 1948.

Ma Israele agisce come se il forte legame fra queste parti diverse del popolo palestinese scomparisse se nessuno ne parla.

Lo stesso mondo immaginario circonda il problema degli ostaggi. Due settimane fa, prima che cominciasse l’offensiva di terra, entrambe le parti erano vicine a un accordo per il rilascio di donne, minori e stranieri in cambio di donne e minori palestinesi in carceri israeliane…

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

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RICORDATELO LA PROSSIMA VOLTA – Orly Noy*

Nel corso della sua storia Israele ha commesso molti crimini contro i palestinesi, ma uno dei più spregevoli è la trasformazione della Striscia di Gaza in un universo parallelo nella mente dell’opinione pubblica.

La politica del divide et impera è stata infatti uno dei pilastri della condotta di Israele nei confronti dei palestinesi: l’annessione di Gerusalemme Est, lo smembramento della Cisgiordania, l’instaurazione dei palestinesi nel ’48 [Green-line Israel ] come cittadini di seconda classe, ma per quanto riguarda Gaza, questa politica ha preso una svolta particolarmente crudele – non solo con la sua disconnessione geografica dal resto dell’area palestinese, ma anche con la sua elaborazione nella coscienza israeliana e globale come un altro universo, un universo per il quale le normali regole umane non si applicano. Un luogo fuori dalla portata umana, dove puoi affamare gli abitanti, rinchiuderli, bombardarli di tanto in tanto, sparare ai loro pescatori.

A ciò ha contribuito, ovviamente, l’astuto modo in cui è stato attuato il Disimpegno, che da un lato ha consentito a Israele di presentare Gaza come “indipendente” (e quindi anche distaccata dalla più ampia questione palestinese), e allo stesso tempo di controllare ogni respiro che fa la sua gente.

Questa profonda e fondamentale rimozione di Gaza dall’interazione umana si riflette oggi nel modo in cui l’opinione pubblica israeliana ha affrontato gli orribili crimini commessi da Hamas il 7 ottobre. Dato che il legame cognitivo tra Gaza e la questione palestinese è stato reciso manipolativamente per anni, la stragrande maggioranza del pubblico israeliano non riesce davvero a comprenderlo in nessun contesto.

Perché i collegamenti implicano regole umane di comportamento e Gaza è stata esclusa da quelle regole agli occhi degli israeliani. Pertanto le spiegazioni fornite provengono dalla sfera extraumana. “ Animali umani ”, per esempio. E al di fuori del contesto umano, lo sterminio di migliaia di persone innocenti può anche essere definito un “atto necessario” per uno scopo che nessuno sa veramente definire.

Quando alzi le spalle di fronte all’apocalisse alla quale stiamo precipitando adesso, ricorda che questa è una parte delle  persone con cui condividiamo la nostra cittadinanza. Perché la maggior parte della popolazione di Gaza è originariamente composta da rifugiati del ’48, in moltissimi casi da familiari. Un amico palestinese di Yafa/Yafo/Jaffa mi ha detto che in questi giorni evita di uscire il più possibile per strada, perché ogni dieci metri qualcuno in lacrime gli racconta di familiari che sono stati appena uccisi lì.

Queste persone, i cui connazionali e le cui famiglie stiamo massacrando così avidamente ora, sono la nostra unica possibilità di iniziare la ricostruzione e la ripresa di questo paese. Cerca di ricordartelo la prossima volta che metti a tacere con rabbia coloro che parlano di cessate il fuoco. Questi sono i contadini e le famiglie dei nostri vicini più intimi che ora stiamo massacrando.

Post FB originale in ebraico Tradotto da Sol Salbe 

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in lingua farsi. È presidente del comitato esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano le linee che si intersecano e definiscono la sua identità di Mizrahi, di donna di sinistra, di donna, di migrante temporanea che vive all’interno di un’immigrata perpetua, e il dialogo costante tra questi aspetti.

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Sintesi: Israele stato con licenza di uccidereAlberto Negri

Il vertice arabo-islamico di Riad ha condannato Israele senza conseguenze, neppure la miseria di un boicottaggio. Esattamente come fanno Usa e Europa da decenni: mai una sanzione per le violazioni enormi del diritto internazionale. La formula due popoli e due stati è una favola: i palestinesi, noi e i loro “fratelli” arabi, li vogliamo morti. State muti, è meglio.

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Affari e geopolitica dietro la guerra di Gaza – Alberto Negri

Le monarchie del Golfo sono in affari con Israele, gli Emirati hanno il 22% del giacimento di gas israeliano Tamar. Ma soprattutto come rivelato al G-20 c’è il “Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa”, concorrenziale alla Via della Seta cinese e al canale di Suez, per una rete ferroviaria completa che trasporterà le merci dall’Asia passando per gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Giordania, fino a raggiungere i porti in Israele e l’Europa. Israele è inoltre disponibile a pagare una parte del debito estero egiziano (160 miliardi di dollari) se Il Cairo accetta i profughi di Gaza. E ora chiedetevi perché Occidente e arabi non mettono sanzioni a Tel Aviv.

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Un rumore assordante – Mauro Presini

Martedì mattina 9 novembre, durante l’intervallo nel cortile della scuola primaria “Bruno Ciari” di Ferrara, abbiamo sentito un rumore così assordante che ci ha spaventato e ci ha fatto tappare le orecchie con le mani. Erano tre aerei che, con un rombo minaccioso, hanno sorvolato la zona di Cocomaro di Cona.

I bambini e le bambine mi hanno chiesto se quelli erano aerei da guerra. Ho risposto che non lo sapevo ma che mi sarei informato… anche se, dentro di me, qualche brutto presentimento ce l’avevo. In serata ho letto la notizia che quelli erano davvero tre aerei da guerra (due Tornado e un F-35) che, come riportato dalla stampa, “hanno omaggiato la città” in occasione dell’attestato di cittadinanza onoraria consegnato dal vicesindaco Nicola Lodi al Comando Operazioni Aerospaziali dell’Aeronautica Militare di Poggio Renatico.

Io penso che, in un periodo in cui la guerra sconvolge quotidianamente le nostre vite, si poteva fare tranquillamente a meno di questo “omaggio” di guerra. Io credo che, anche in periodo di pace, si possa fare tranquillamente a meno di questi “omaggi” di guerra. Io non oso pensare, se questo era un “omaggio”, a quanto sia costato alla comunità un simile sorvolo. Io immagino, se questo era un “omaggio”, quali altri “regali” dovremo aspettarci in futuro… Io ho paura di questi “omaggi”.

Il giorno dopo abbiamo parlato in classe di quei rumori assordanti. Prima di raccontare ciò che avevo letto, ho chiesto loro quali emozioni avevano provato mentre passavano quegli aerei che facevano quel rumore.

Questo è quello che hanno raccontato.

Quando ho sentito passare nel cielo quei tre aerei…

“Mi ha dato fastidio alle orecchie”.
“Ho avuto paura che cadessero nel cortile della scuola”.
“Ero curioso perché volevo vedere come erano fatti gli aerei”.
“Non ho sentito perché stavo saltando le foglie e stavo urlando forte”.
“Ho avuto paura perché pensavo che fossero aerei da guerra”.
“Ho avuto paura perché credevo fosse un aereo di Israele che venisse da noi”.
“Ho avuto paura che ci potessero scambiare per nemici”.
“Non ci ho fatto molto caso perché stavo correndo”.
“Ho avuto paura che lanciassero un missile per sbaglio”
“Mi sembrava strano perché quando passano gli altri aerei non fanno tutto quel rumore”.
“Ho avuto paura perché pensavo fossero aerei russi”.
“Ne ho sentiti anche degli altri quindi non mi sono preoccupato”.
“Ero curioso di sapere perché sorvolavano la nostra scuola”.
“Ero tranquillo”.
“Ho avuto paura che atterrassero vicino a noi”.
“Mi ha lasciato indifferente perché non mi ha disturbato”.
“Non mi sono spaventato perché al mare, ogni tanto, passano quegli aerei”.
“Ho avuto paura ma non so dire perché”.
“Pensavo fossero le frecce tricolori”.
“Ero triste perché il rumore degli aerei mi ha ricordato le persone che hanno perso la casa e gli affetti per la guerra”.
“Ho avuto paura che, per sbaglio, sganciassero delle bombe”.

Quando ho raccontato che quello era una specie di “regalo” alla città per un “compleanno”, i più sono rimasti in silenzio con gli occhi stupiti.

Dopo una decina di secondi di silenzio, un bimbo è intervenuto timidamente dicendo: “Se al mio compleanno qualcuno mi fa un regalo pauroso, io mi spaventerei così non festeggerei bene con i miei amici”. Il suo timido intervento ha avuto molti consensi in classe testimoniati dai tanti “Anche io!”

Comunque la pensiate, questi sono i pensieri di bambini e di bambine che saranno il nostro futuro, che ci piaccia o no. Non tutti i bambini e le bambine la penseranno come quelli in classe con me ma se, ai politici, interessa davvero il futuro vale la pena ascoltare seriamente i loro pensieri per preparare da subito un presente di pace, fatto anche di “omaggi di pace”, in modo da garantirsi un futuro di convivenza pacifica.

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PER UN NUOVO ISRAELE – Raniero La Valle

Per comprendere tutte le dinamiche che concorrono a determinare la tragedia in corso a Gaza, bisogna ricordare che lo Stato di Israele non è uno Stato come tutti gli altri, sicché i suoi atti e le loro motivazioni non sono paragonabili a quelli di qualsiasi altro Stato; di conseguenza i discorsi e i giudizi politici che li concernono sono spesso carenti, non informativi e privi di rapporto con la realtà effettuale.

La differenza consiste nel fatto che lo Stato di Israele è per origine e per scelta uno Stato etnico. Quanto all’origine, com’è noto essa sta nello scempio della Shoà e nello sgomento che ne è ricaduto sull’intero popolo ebreo e sulla stessa comunità internazionale che attraverso l’ONU ne ha stabilito la fondazione. Quanto alla scelta essa sta in una serie di atti successivi, il primo dei quali, come ha narrato uno dei protagonisti, Jacob Taubes, fu nel 1947 la decisione di non procedere alla stesura di una Costituzione, perché la legge fondamentale era da considerarsi la Legge biblica, e al di là delle norme laiche che lo Stato si sarebbe dato, gli istituti fondamentali come il matrimonio, il ripudio, la proprietà, dovevano essere forgiati dalla legge halachica, che è una derivazione normativa della Torah ebraica.

Si può citare poi un tentativo del governo Netaniahu nel 2010 di inserire nella legge sulla cittadinanza una norma che obbligava ogni nuovo cittadino israeliano a prestare giuramento a Israele “Stato ebraico e democratico”; facendo così dell’ebraicità un carattere dello Stato tutelato da un giuramento; e si può ricordare come tutto ciò sia confluito il 19 luglio 2018. (primo ministro Netanyahu) in una legge di rango costituzionale, approvata di misura dalla Knesset con 62 voti favorevoli e 55 contrari, in cui lo Stato di Israele era definito come lo “Stato nazione del Popolo Ebraico”, e si sanciva che “La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato”, che “Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione” e che “Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico”.

Questa immedesimazione di religione e Stato non è stata senza conseguenze militari e politiche: nel 2008, per una precedente operazione militare speciale contro Gaza, cosiddetta “Piombo fuso”, si dovette chiedere l’autorizzazione dei rabbini per cominciarla nel giorno di sabato, il 27 dicembre; e nel maggio 2010 per l’attacco degli incursori israeliani alla flottiglia pacifista (10 morti), che per portarvi aiuti umanitari voleva rompere il blocco di Gaza da cui Israele si era ritirato, la legittimazione per l’abbordaggio in acque internazionali fu che quella era comunque terra d’Israele.

Nel momento di una crisi suprema come quella attuale questa identificazione tra ebraismo e Stato produce tre tragedie per tutti e tre angosce per noi. La prima è quella del reciproco terrorismo di Gaza, che assimila la violenza della jihad islamica di Hamas a quella dello Tsahal israeliano e minaccia la definitiva espulsione dei palestinesi. La seconda è quella dello Stato di Israele che così spezza la società israeliana, fino alle piazze in rivolta e al “j’accuse” degli ostaggi e delle loro famiglie, perde la solidarietà di gran parte del mondo, irrita perfino gli Stati Uniti e si espone a una sfida mortale con i suoi nemici da cui potrebbe uscire dilaniato. La terza è quella dell’ebraismo, che si trova schiacciato sull’ermeneutica fondamentalista di una retribuzione incondizionata e violenta voluta dal Dio dell’Alleanza, che altera la Bibbia e rilancia l’antisemitismo perverso rimasto latente dopo il nazismo, come in Francia e perfino in Italia e in molti altri Paesi.

Si capisce allora perché, mentre è sacrosanto il diritto del popolo ebreo di difendersi e di essere difeso contro i demoni della distruzione, una gran parte delle guide religiose e dei sapienti d’Israele era contraria a una forzatura politica del messianismo e alla istituzione di uno Stato; si temeva una catastrofe e venivano invocati i “tre giuramenti” che secondo il Midrash e il Talmud Dio avrebbe fatto fare al popolo ebreo tra cui quello di “non salire sul muro” dell’esilio e di “non forzare la fine” (se ne trova la documentazione completa nell’opera di Aviezer Ravitzky, premio Israele per la ricerca filosofica, “La fine svelata e lo Stato degli Ebrei”). Obiezione spazzata via dalla Shoà.

Dunque non c’è un’alternativa per la convivenza e una speranza di pace in Medio Oriente? Sì, ci sono, e passano attraverso una trasformazione dello Stato in una vera democrazia del Medio Oriente e una conversione religiosa: nella stessa tradizione ebraica c’è una lettura del giudaismo realizzato che sarebbe una meraviglia per il mondo intero.
Un simile cambiamento si è già avuto del resto in molti altri Stati e religioni. A cominciare dal nostro “regime di cristianità”.

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Gideon Levy su Haaretz: ““I bambini sono bambini. Nella realtà fascista che attualmente imperversa in Israele, anche questa affermazione è considerata un tradimento”

Riportiamo ampi brani di un articolo di Gideon Levy pubblicato su Haaretz il 12 novembre: “I bambini sono bambini, bisogna ribadirlo, e non si può che essere inorriditi in egual misura da quello che è successo loro, sia qui che là. Nella realtà fascista che attualmente imperversa in Israele, anche questa affermazione è considerata un tradimento, qualcosa di sovversivo ed un’espressione di odio contro Israele. Come osi fare tale confronto?”

Di morti innocenti

“Sabato a mezzogiorno, il vice ministro della Sanità di Hamas, Yousuf Abu al-Arish, parlando dall’ospedale, ha annunciato che 39 bambini prematuri rischiano di morire a breve per soffocamento, dopo che i generatori si sono spenti, interrompendo il flusso di ossigeno alle loro incubatrici”.

“Al-Arish ha urlato: ‘È arrivato il momento sul quale vi avevamo avvertito’. Fuori c’era già ammassato un mucchio di 100 corpi non identificati, coperti da sudari bianchi. Non potevano essere portati via perché avessero una sepoltura, perché l’ospedale era sotto assedio, circondato da tutti i lati da carri armati. I feriti e i malati, così come i morti, non potevano più essere districati da quell’inferno”.

“Poco dopo, il professor Mads Gilbert, un medico norvegese che ha prestato servizio volontario all’ospedale in tutte le guerre precedenti, ora bloccato al Cairo, ha dichiarato che i cecchini israeliani si erano sparpagliati intorno all’ospedale e gli stavano sparando. Un’infermiera del reparto neonati prematuri è stata uccisa”.

“Le foto dell’ospedale Al-Shifa prima che fosse isolato mostravano dozzine di feriti sanguinanti che giacevano sul pavimento e un padre che urlava e correva verso il suo bambino morto, anch’egli disteso sul pavimento. L’inferno è lì. La dottoressa Tanya Haj-Hassan, un medico di Medici Senza Frontiere, ha detto di non avere più parole”.

“Venerdì sera si contavano 4.506 bambini morti. Quarantamila unità abitative sono state completamente distrutte. Metà di Gaza è ridotta in macerie. L’ospedale pediatrico di Rantisi è sotto assedio, nessuno può entrare né uscire. Anche l’ospedale pediatrico Al-Nasr ha smesso di funzionare e tutti i bambini malati e feriti sono stati evacuati, Dio sa dove”.

“Venerdì notte la scuola Al-Buraq è stata bombardata e almeno 50 persone che credevano di avervi trovato rifugio sono state uccise. L’IDF ha riferito che tra le vittime c’era il comandante di una compagnia di Hamas che aveva impedito agli abitanti di Gaza di spostarsi verso sud. Bingo”.

“Non è possibile mantenere l’equanimità di fronte a queste scene. Anche dopo le visite ai kibbutz e alle città del sud il giorno dopo il massacro, anche dopo essere stati esposti a tutti gli orrori che si sono consumati in quei luoghi. Anche dopo tutte le storie dei sopravvissuti e dei morti, e anche dopo aver visto il film diffuso dal portavoce dell’IDF. Non si può evitare di rimanere inorriditi da ciò che sta accadendo a Gaza, anche sapendo cosa si nasconde sotto quegli ospedali”[l’IDF dice che vi si troverebbe il quartier generale di Hamas… sempre che sia vero ndr].

“Non meno orribile è la consapevolezza che ci si deve schierare: o sei scioccato dalle atrocità commesse da Hamas o da quelle commesse dall’IDF. Devi decidere. Scegli da che parte stare. Quali bambini morti ti scioccano di più? Quali genitori in lutto ti disturbano di più?”

“Non vedi la differenza tra Hamas, che è venuto qui per massacrare, e un esercito venuto per salvare gli ostaggi e spazzare via Hamas? Posso vederla, ma i bambini massacrati, e i loro genitori massacrati, sono poco interessanti per le intenzioni dei loro assassini”.

“Non meritavano di morire, né da una parte né dall’altra. La loro uccisione è sciocca nello stesso modo e non c’è motivo al mondo per cui ci si debba scusare per aver preso questa posizione”.

Di ospedali e crimini contro l’umanità

Da allora, la situazione degli ospedali non è affatto migliorata, anzi è peggiorata notevolmente. Tanto che il tremebondo Biden ha dovuto chiedere che gli ospedali siano protetti. Troppo poco, troppo tardi: nell’ospedale di al Shifa, riporta il New York Times, “senza elettricità né carburante, i pazienti stanno morendo e i cadaveri si stanno decomponendo”. Negli altri ospedali la situazione non è molto migliore.  Human Rights Watch parla di “crimini contro l’umanità“; anche loro potevano svegliarsi prima.

Nel frattempo, una rete di medici israeliani ha chiesto il bombardamento degli ospedali. Ma rappresentano una minoranza estremista dei medici e sanitari israeliani, come hanno stigmatizzato le associazioni del settore del Paese. La dottoressa Tami Karni, presidente del comitato etico dell’Associazione medica israeliana, ha ricordato che “I medici hanno giurato di guarire, non di uccidere”.

Lo riporta Haaretz, che aggiunge come una Ong israeliana, Medici per i Diritti Umani, abbia pubblicato un comunicato firmato da 350 tra medici e operatori sanitari in cui, oltre a condannare l’appello dei medici bombardieri, si dichiara: “Come minimo, il diritto internazionale richiede, oltre all’avvertimento, l’attuazione di misure precauzionali per ridurre le vittime civili rispetto alla minaccia percepita rappresentata dall’ospedale. Quale colpa ha un bambino prematuro in un’incubatrice, o una persona a cui sono state amputate le gambe durante il bombardamento della sua casa avvenuto nel corso della guerra, per meritare di essere annientato?”

Ancora più interessante la conclusione del comunicato. Infatti, riporta Haaretz, i medici in questione “hanno inoltre respinto la legittimità delle dichiarazioni che sollecitano l’evacuazione dei pazienti di Al-Shifa e di altri ospedali: ‘Non c’è nessun ospedale a Gaza che possa accoglierli e non ci sono ambulanze per trasportare pazienti con patologie complesse, nessuna incubatrice per neonati prematuri o medici per accompagnarli’, ha affermato la ONG. ‘Senza tutto questo, la richiesta di evacuazione non è una considerazione umanitaria. Dobbiamo togliere il velo a questo inganno; è quello che è: una condanna a morte per i malati’‘”. Purtroppo, sia ad al Shifa che in altri ospedali è avvenuto esattamente questo, con tanti pazienti costretti ad abbandonare le strutture.

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Epic fail della propaganda israeliana. Soldato mostra la “lista dei terroristi” ma in realtà.

Il livello di propaganda da parte dello stato di Israele ha raggiunto ieri il suo apice.

Dall’account X gestito dal Ministero degli affari esteri del regime di Tel Aviv, è stato postato un video di 6 minuti di un soldato dell’occupazione che avrebbe dovuto mostrare la “prova” regina che dentro gli ospedali di Gaza si nascondessero i “terroristi di Hamas”. La “prova” regina che il genocidio in corso con bombardamenti a tappeti e raid contro gli ospedali è giustificato…

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Armi italiane a Israele, contro legge e trattati – Giorgio Beretta

Israele è una delle maggiori potenze militari del mondo: con una spesa di oltre 23 miliardi di dollari all’anno (circa il 5 percento del proprio Pil) nel 2022 ricopriva la 15esima posizione mondiale. Il principale fornitore di sistemi militari sono gli Usa, ma i paesi Ue sono al secondo posto.
I rapporti ufficiali europei certificano che dal 2001 al 2020 i paesi dell’Unione hanno autorizzato esportazioni di sistemi militari per oltre 7,7 miliardi di euro, oltre 636 milioni nel 2020. Tra gli armamenti esportati figurano soprattutto navi da guerra (1,6 miliardi), aerei da combattimento (1,2 miliardi), carri armati e veicoli terrestri (1 miliardo) e apparecchiature elettroniche (oltre 520 milioni di euro). Sempre dal 2001 al 2020 i maggiori fornitori europei di armamenti a Israele sono stati la Germania (3 miliardi di euro), la Francia (2,6 miliardi), il Regno Unito (653 milioni) e l’Italia (578 milioni).
FINO AL 2012 l’Italia, pur avendo rapporti commerciali con Israele, ha mantenuto un atteggiamento estremamente cauto e restrittivo nelle forniture di sistemi militari a Tel Aviv: le Relazioni ufficiali al Parlamento riportano tra il 1990 e il 2011 un ammontare complessivo di solo poco più di 11 milioni di euro. Tutto cambia con il governo Berlusconi che nel giugno del 2003 sigla a Parigi il “Memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa”: memorandum entrato in vigore l’8 giugno 2005 che prevede, tra l’altro, l’interscambio di materiali d’armamento tra i due Paesi. Il “salto di qualità” avviene però nell’aprile del 2012 quando l’allora presidente del Consiglio, Mario Monti, in visita in Israele annunciò il completamento del contratto per la fornitura all’Aeronautica militare israeliana di 30 velivoli d’addestramento M-346 della Alenia-Aermacchi e relativi simulatori di volo. Sono gli aerei e i simulatori su cui si sono esercitati i piloti dei caccia F-16 e F-35 che in questi giorni stanno bombardando Gaza.
Negli anni successivi le forniture di sistemi militari dall’Italia a Israele non hanno segnato valori rilevanti fino al febbraio 2019, quando i è stato firmato l’accordo per l’acquisto di sette elicotteri AW119Kx d’addestramento avanzato della Agusta-Westland (gruppo Leonardo) del valore di 350 milioni di dollari. Nel 2020 ne sono stati aggiunti altri cinque per un totale di dodici elicotteri e due simulatori destinati alla Air Force Flight School.
NON SOLO. Come riporta il Bilancio d’esercizio della Rwm Italia, l’anno scorso l’azienda ha firmato un «accordo strategico» con la società israeliana UVision Air Ldt «per la commercializzazione, produzione e sviluppo in esclusiva per l’Europa delle Loitering Munition». Si tratta di munizioni circuitanti, meglio conosciute come “droni kamikaze”.
LE NORMATIVE parlano chiaro ed è bene citarle in modo preciso. Per quanto riguarda l’Italia, la normativa nazionale – la legge n. 185 del 1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” – vieta esplicitamente l’esportazione di materiale di armamento «verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione» (Art. 1.6 b) e «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa» (Art, 1.6 d).
A livello europeo, la “Posizione Comune 2008/944/Pesc del Consiglio” dell’8 dicembre 2008 che ha definito “Norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari” stabilisce che gli stati membri «rifiutano le licenze di esportazione qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possono essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale» (Art. 2.2 c). E, in aggiunta, la Decisione (Pesc) 2019/1560 del Consiglio del 16 settembre 2019 prevede che «Qualora emergano nuove informazioni pertinenti, ciascuno Stato membro è incoraggiato a riesaminare le licenze d’esportazione dopo la loro concessione».
Ancor più esplicito è il “Trattato internazionale sul commercio di armi” (Arms Trade Treaty), ratificato dall’Italia nel 2014 dopo il voto unanime di Camera e Senato: stabilisce non solo il divieto ad esportare materiali militari a paesi sottoposti a misure di embargo internazionale (Art. 6) ma prevede anche di valutare se le armi convenzionali o gli oggetti militari «possono contribuire a minacciare la pace e la sicurezza; possono essere utilizzati per commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale umanitario e commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale dei diritti umani». «Se, dopo aver condotto tale valutazione lo Stato Parte esportatore ritiene che vi sia un forte rischio di ricadere in una delle conseguenze negative previste, lo Stato Parte esportatore non autorizzerà l’esportazione», conclude il Trattato (Art. 7).
A FINE OTTOBRE Amnesty International Italia insieme alla Rete Italiana Pace e Disarmo hanno promosso una serie di manifestazioni che hanno visto un’ampia partecipazione in numerose città italiane. Con uno specifico appello hanno chiesto alle istituzioni azioni concrete per la pace in Palestina e Israele e al governo italiano di «astenersi dal fornire armi a tutti gli attori del conflitto e chiedere agli altri stati di fare altrettanto». A fronte della carneficina in corso – più di 10mila morti tra cui oltre 4mila bambini nella Striscia di Gaza – è urgente che il Parlamento italiano si faccia portavoce di queste istanze e chieda al governo di sospendere tutte le forniture di armamenti a Israele.

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Il diritto all’autodifesa – Craig Murray 

Israele ha il diritto all’autodifesa, ma solo esattamente nello stesso modo in cui lo hanno gli altri Paesi. Infatti, l’unicità di Israele è che è l’unico Paese ad essere stato ritenuto dalla Corte Internazionale di Giustizia colpevole di aver abusato e superato il concetto di diritto all’autodifesa, nel trattamento dei palestinesi.

Nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia, in un parere consultivo all’Assemblea Generale dell’ONU, ha dichiarato illegale la costruzione da parte di Israele del Muro di Separazione, che è una parte fondamentale del Sistema di Apartheid israeliano. La Corte ha considerato l’argomentazione dell’autodifesa di Israele e ha stabilito che ciò non giustificava le numerose violazioni del diritto internazionale rappresentate dal Muro:

“Mentre Israele ha il diritto, anzi il dovere di rispondere ai numerosi e mortali atti di violenza diretti contro la sua popolazione civile, al fine di proteggere la vita dei suoi cittadini, le misure adottate sono tenute a rimanere conformi al diritto internazionale applicabile. Israele non può invocare il diritto all’autodifesa o lo stato di necessità per escludere l’illegittimità della costruzione del Muro. La Corte ritiene pertanto che la costruzione del Muro, e il regime ad essa associato, violino il diritto internazionale”.

Ne consegue che Israele non può usare l’”autodifesa” come pretesto per stracciare il diritto internazionale nell’attuale situazione in Palestina. L’uso della punizione collettiva contro una popolazione civile, anche attraverso la fame, la sete e la privazione di medicinali, i bombardamenti a tappeto, l’uso del fosforo bianco, gli attacchi alle strutture sanitarie e al personale medico, l’esecuzione di prigionieri, le azioni chiaramente genocide, nessuno di questi Crimini di Guerra è classificabile come “autodifesa”.

La cooperazione militare dei governi di Stati Uniti, Regno Unito e Australia, in un attacco che sanno essere impegnato nel commettere eclatanti Crimini di Guerra, espone anche i responsabili ad accuse di Crimini di Guerra per la loro complicità attiva e addirittura cospirazione.

Inoltre, esiste di fatto un dovere giuridico per gli Stati di agire contro Israele in considerazione del suo rifiuto di smantellare il Muro e il Sistema di Apartheid nei Territori Occupati, compresi i diffusi insediamenti criminali e il furto di terra che quel sistema incarna. Questa è la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sugli obblighi degli altri Stati:

“Dato il carattere e l’importanza dei diritti e degli obblighi in questione, la Corte è del parere che tutti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale risultante dalla costruzione del Muro nei Territori Palestinesi Occupati, compreso all’interno e nei dintorni Gerusalemme Est. Hanno inoltre l’obbligo di non prestare aiuto o assistenza per mantenere la situazione creata da tale costruzione.

Spetta inoltre a tutti gli Stati, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, vigilare affinché sia eliminato qualsiasi ostacolo, derivante dalla costruzione del Muro, all’esercizio da parte del popolo palestinese del suo diritto all’autodeterminazione. Inoltre, tutti gli Stati parte della Convenzione di Ginevra relativa alla protezione della popolazione civile in tempo di guerra del 12 agosto 1949 hanno l’obbligo, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, di garantire il rispetto da parte di Israele del diritto umanitario internazionale sancito da tale Convenzione”.

Leggete quel paragrafo con molta attenzione. Israele non ha intrapreso nessuna delle azioni specificate dalla Corte Internazionale di Giustizia e anzi ha costruito più insediamenti e imposto maggiori restrizioni. È assolutamente chiaro che il Regno Unito, gli Stati Uniti e l’Unione Europea non solo non adempiono al loro dovere nel diritto internazionale stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia, ma agiscono direttamente in modo opposto al loro obbligo nel diritto internazionale ai sensi della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia.

Il movimento BDS agisce esattamente in linea con gli obblighi stabiliti dalla Corte Internazionale di Giustizia, mentre gli Stati che tentano di bandire il movimento BDS agiscono proprio contro gli obblighi imposti loro dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Infine, la sentenza deve implicare che i palestinesi abbiano effettivamente il diritto all’autodifesa. Perché non si può avere il “diritto all’autodeterminazione”, che la Corte riconosce, senza il diritto all’autodifesa. Perché è impossibile esercitare l’autodeterminazione se qualcun altro può rimuovere la tua integrità fisica a suo piacimento.

Tale diritto all’autodifesa deve necessariamente essere esercitato da chiunque abbia di fatto il controllo del territorio palestinese in quel momento.

9 dicembre 2006: Contadini palestinesi aspettano di essere fatti rientrare attraverso il Muro dell’Apartheid nel loro villaggio in Cisgiordania dopo essere tornati nelle loro terre. (FREEPAL, Flickr, CC BY-NC-SA 2.0)

Sono in debito con un certo numero di funzionari e delegati nazionali delle Nazioni Unite a Ginevra per avermi sottolineato l’importanza della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 nel contesto attuale.

Spero che vi aiuti a capire perché le bugie del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, del Primo Ministro britannico Rishi Sunak, del leader laburista britannico Keir Starmer, del Presidente francese Emmanuel Macron ecc. sono davvero bugie.

Oggetto di una “indagine antiterrorismo”, non ritengo attualmente sicuro per me tornare nel Regno Unito. Se l’indagine si riferisca al mio sostegno a WikiLeaks o al mio sostegno alla Palestina, o a entrambi, non lo so, poiché la polizia non ha detto perché sono indagato.

Onestamente credo che non sto combattendo per me stesso, ma contro l’autocrazia invadente nelle società occidentali. È per la libertà da uno Stato di Polizia sempre più presente e da una classe politica che cerca di imporre il monopolio dell’informazione al pubblico. La mia lotta può continuare solo con il sostegno finanziario degli straordinari lettori di questo blog, e di questo gliene sono grato.

Craig Murray è un autore, giornalista e attivista per i diritti umani. È stato ambasciatore britannico in Uzbekistan dall’agosto 2002 all’ottobre 2004 e rettore dell’Università di Dundee dal 2007 al 2010. La sua attività dipende interamente dal supporto dei lettori.

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org

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Gaza, lettera aperta di 900 giornalisti: “I media non devono nascondere le ripetute atrocità di Israele. I termini corretti sono genocidio e pulizia etnica”

di Rivista Paginauno

Più di 900 giornalisti, fotografi, operatori video e lavoratori del mondo dei media appartenenti a decine di testate – tra cui Washington Post e Guardian – hanno firmato una lettera aperta che contiene: la condanna dell’uccisione di reporter da parte di Israele nel conflitto in corso nella Striscia di Gaza; l’accusa ai media occidentali di essere “responsabili della retorica disumanizzante che è servita a giustificare la pulizia etnica dei palestinesi”; l’esortazione alle testate occidentali all’integrità e all’onesta intellettuale nella copertura della guerra.

Paginauno ha sottoscritto la lettera aperta, che riportiamo qui tradotta in italiano a cura della nostra redazione. Qui il link dove trovarla e firmare.

* * * *

La lettera aperta

Condanniamo l’uccisione di giornalisti a Gaza da parte di Israele e chiediamo l’integrità nella copertura mediatica occidentale delle atrocità di Israele contro i palestinesi.

La devastante campagna di bombardamenti di Israele e il blocco dei media a Gaza minacciano la raccolta di notizie in un modo senza precedenti. Non abbiamo molto tempo.

Più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi durante le quattro settimane di assedio israeliano. Nel crescente bilancio delle vittime ci sono almeno 35 giornalisti, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, in quello che il gruppo definisce il conflitto più mortale per i giornalisti da quando ha iniziato a monitorare le morti nel 1992. Molti altri sono stati feriti, detenuti, scomparsi o hanno visto i loro familiari uccisi.

Come reporter, redattori, fotografi, produttori e altri lavoratori delle redazioni di tutto il mondo, siamo sconvolti dal massacro dei nostri colleghi e delle loro famiglie da parte dell’esercito e del governo israeliano.

Scriviamo per sollecitare la fine della violenza contro i giornalisti a Gaza e per chiedere ai responsabili delle redazioni occidentali di essere lucidi nel coprire le ripetute atrocità di Israele contro i palestinesi.

I giornalisti nella Striscia di Gaza assediata stanno affrontando estese interruzioni di corrente, carenza di cibo e acqua e un collasso del sistema sanitario. Sono stati uccisi mentre lavoravano visibilmente come giornalisti, così come di notte nelle loro case. Un’indagine di Reporter Senza Frontiere mostra anche che i giornalisti sono stati deliberatamente presi di mira durante due attacchi israeliani del 13 ottobre nel sud del Libano, che hanno ucciso l’operatore video di Reuters Issam Abdallah e ferito altri sei giornalisti.

Anche le famiglie dei giornalisti sono state uccise. Wael Dahdouh, capo dell’ufficio di Al Jazeera a Gaza e un nome familiare nel mondo arabo, ha appreso in onda il 25 ottobre che sua moglie, i suoi figli e altri parenti erano stati uccisi in un attacco aereo israeliano. Un attacco del 5 novembre contro l’abitazione del giornalista Mohammad Abu Hassir della Wafa News Agency ha ucciso lui e 42 membri della famiglia.

Israele ha bloccato l’ingresso della stampa straniera, limitato pesantemente le telecomunicazioni e bombardato gli uffici stampa. Nell’ultimo mese sono state colpite circa 50 sedi dei media a Gaza. Le forze israeliane hanno esplicitamente avvertito le redazioni che “non possono garantire” la sicurezza dei loro dipendenti dagli attacchi aerei. Considerate la prassi decennale di prendere di mira letalmente i giornalisti, le azioni di Israele mostrano una soppressione della libertà di parola su vasta scala.

Il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha esortato i giornalisti occidentali a condannare pubblicamente gli attacchi contro i giornalisti. “[Chiediamo] ai nostri colleghi giornalisti di tutto il mondo di agire per fermare l’orribile bombardamento del nostro popolo a Gaza”, ha affermato il gruppo il 31 ottobre in una dichiarazione pubblica.

Stiamo ascoltando quella chiamata.

Siamo al fianco dei nostri colleghi di Gaza e annunciamo i loro coraggiosi sforzi di riferire nel mezzo della carneficina e della distruzione. Senza di loro, molti degli orrori sul territorio rimarrebbero invisibili.

Ci uniamo alle associazioni della stampa tra cui Reporter Senza Frontiere, l’Associazione dei giornalisti arabi e mediorientali e la Federazione internazionale dei giornalisti nel chiedere un impegno esplicito da parte di Israele per porre fine alla violenza contro giornalisti e altri civili. Le redazioni occidentali traggono enormi benefici dal lavoro dei giornalisti di Gaza e devono adottare misure immediate per chiedere la loro protezione.

Riteniamo anche le redazioni occidentali responsabili della retorica disumanizzante che è servita a giustificare la pulizia etnica dei palestinesi. Doppi standard, imprecisioni ed errori abbondano nelle pubblicazioni americane e sono stati ben documentati. Più di 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta nel 2021 in cui esprimono la preoccupazione che i media statunitensi ignorino l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele. Eppure la richiesta di una copertura equa è rimasta senza risposta.

Le redazioni hanno invece minato le prospettive palestinesi, arabe e musulmane, liquidandole come inaffidabili e hanno invocato un linguaggio provocatorio che rafforza i cliché islamofobici e razzisti. Hanno pubblicato la disinformazione diffusa dai funzionari israeliani e non sono riusciti a controllare l’uccisione indiscriminata di civili a Gaza, commessa con il sostegno del governo degli Stati Uniti.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, in cui più di 1.200 israeliani, tra cui quattro giornalisti, sono stati uccisi e altri 240 circa sono stati catturati, questi problemi si sono aggravati. La copertura giornalistica ha posizionato l’attacco come il punto di partenza del conflitto senza offrire il necessario contesto storico: che Gaza è di fatto una prigione di rifugiati provenienti dalla Palestina storica, che l’occupazione israeliana è illegale secondo il diritto internazionale e che i palestinesi vengono bombardati e massacrati regolarmente dal governo israeliano.

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno avvertito di essere “convinti che il popolo palestinese sia a grave rischio di genocidio”, ma i media occidentali rimangono riluttanti a citare esperti di genocidio e a descrivere accuratamente la minaccia esistenziale in corso a Gaza.

Questo è il nostro compito: chiedere conto al potere. Altrimenti rischiamo di diventare complici del genocidio.

Rinnoviamo l’appello ai giornalisti affinché dicano tutta la verità senza timori o favoritismi. Affinché utilizzino termini precisi ben definiti dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui “apartheid”, “pulizia etnica” e “genocidio”. Affinché riconoscano che distorcere le parole per nascondere le prove di crimini di guerra o dell’oppressione dei palestinesi da parte di Israele è una negligenza giornalistica e un’abdicazione alla chiarezza morale.

L’urgenza di questo momento non può essere sopravvalutata. È imperativo cambiare rotta.

* * * *

Gli autori della lettera sono un gruppo di reporter residenti negli Stati Uniti che lavorano nelle redazioni locali e nazionali. Alcuni membri del gruppo sono stati anche coinvolti in una lettera aperta del 2021 che delineava le preoccupazioni per la copertura mediatica statunitense della Palestina.

Tutte le firme sono state verificate. Circa 600 giornalisti attuali ed ex hanno firmato la lettera a partire dalla sua pubblicazione il 9 novembre 2023. Da allora si sono aggiunte altre 300 firme, portando il totale a circa 900. Tutti i numeri sono stati aggiornati al 10 novembre 2023.

Due giornalisti hanno chiesto che le loro firme fossero rimosse il 10 novembre su richiesta del loro datore di lavoro, l’Associated Press. Quelle firme sono state rimosse.

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Chris Hedges – La guerra secondo Hamas

La resistenza palestinese comprende il suo nemico. Ha imparato attraverso l’esperienza come combatterlo. Questa non è una buona notizia per Israele.

CAIRO, Egitto: Basel al-Araj, un leader della resistenza palestinese, poco prima dell’invasione di Gaza da parte di Israele nel 2014, stabilì le regole fondamentali per la guerra contro Israele.

Le regole di al-Araj, non membro di Hamas, forniscono la lettura palestinese dell’incursione delle forze israeliane a Gaza. Sebbene la superiore potenza di fuoco di Israele – la sua aviazione, i suoi missili, i suoi carri armati, i suoi mezzi corazzati, i suoi droni, le sue forze navali, le sue unità meccanizzate e la sua artiglieria – permetta di infliggere un numero enorme di vittime palestinesi, la maggior parte delle quali civili, se Israele può radere al suolo interi quartieri e trasformare ospedali, scuole, centrali elettriche, impianti di trattamento delle acque, panetterie, moschee e chiese in cumuli di cemento, ciò non si traduce in una sconfitta dei gruppi di resistenza palestinesi.

Al-Araj sostenne che la lotta con Israele non può essere misurata con il conteggio dei corpi. Gli israeliani saranno in grado di uccidere un numero molto maggiore di palestinesi. I movimenti di resistenza, scrisse, subiscono sempre perdite sproporzionate. Nella guerra d’indipendenza dell’Algeria, tra il 1954 e il 1962, circa 1,5 milioni di algerini – pari a circa il 10% della popolazione – sono stati uccisi dai francesi.  Nell’aeroporto di Algeri, la capitale del Paese, c’è un enorme cartello che recita: “Benvenuti in Algeria. Terra di un milione di martiri”.

“Siamo molto più capaci di sostenere i costi, quindi non c’è bisogno di fare paragoni o di allarmarsi per l’entità dei numeri”, scrisse.

Al-Araj, che ha condotto scioperi della fame mentre era nelle prigioni dell’Autorità Palestinese, è stato a lungo un obiettivo di Israele.  L’unità antiterrorismo israeliana, Yamam, lo ha inseguito per mesi prima di fare irruzione nella sua casa il 6 marzo 2017 a el-Bireh. Dopo uno scontro a fuoco durato due ore, le forze israeliane, che spararono razzi contro l’edificio, fecero irruzione all’interno e lo giustiziarono a distanza ravvicinata. Aveva 31 anni.

La lotta con Israele, ricordava al-Araj ai palestinesi, deve “seguire la logica della guerriglia o della guerra ibrida, di cui arabi e musulmani sono diventati maestri grazie alle nostre esperienze in Afghanistan, Iraq, Libano e Gaza”. Non difendere mai “punti e confini fissi”. Attirare il nemico in un’imboscata, ottenuta con una resistenza leggera e ritirate tattiche. Colpire i fianchi e le retrovie. Il calcolo della guerra asimmetrica è molto diverso da quello della guerra convenzionale. E ciò che Israele definisce come successo, tra cui la conquista del territorio, i numerosi morti e la distruzione di infrastrutture e edifici, conta poco per i combattenti della resistenza. L’obiettivo dei combattenti palestinesi è quello di rimanere inafferrabili, di sferrare colpi fulminei e di ritirarsi tra le macerie o nella vasta rete di tunnel sotto Gaza.

Le Brigate Al-Qassam, il braccio armato di Hamas, hanno dichiarato di aver parzialmente distrutto più di 160 obiettivi militari israeliani a Gaza, tra cui più di 27 carri armati e veicoli negli ultimi due giorni. L’11 novembre, le Brigate Al-Qassam hanno dichiarato di aver attirato i soldati israeliani in un’auto in fiamme in Cisgiordania e di aver fatto esplodere i loro veicoli con un ordigno. Il 10 novembre le Brigate Al-Qassam, Saraya Al-Quds e le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa hanno raccontato di aver permesso agli israeliani di avanzare senza un’opposizione significativa durante il giorno. In serata hanno teso un’imboscata alle forze israeliane a ovest di Tal al-Hawa, nelle aree intorno all’ospedale Al-Shifa, a ovest del campo profughi di Al-Shati e a ovest di Beit Lahia, nella parte settentrionale della Striscia di Gaza.

Israele ha scatenato un pesante bombardamento, secondo i combattenti palestinesi, nel tentativo di salvare i suoi soldati. Israele avrebbe subito un alto numero di vittime. Il 9 novembre, le Brigate Al-Qassam hanno dichiarato di aver teso un’imboscata ai soldati israeliani a Juhr al-Dik, bersagliandoli con un razzo antiuomo. I soldati israeliani sono stati uccisi a “bruciapelo”. Il 6 novembre, le Brigate Al-Qassam hanno riferito di aver distrutto cinque carri armati israeliani con razzi Yassin 105 nel nord-ovest di Gaza City. Il 2 novembre le Brigate Al-Qassam hanno rivendicato di aver distrutto sei carri armati e due veicoli militari in un’ora a nord-ovest di Gaza City.  “Il numero di vittime è significativamente più alto di quanto annunciato dalla leadership del nemico”, ha dichiarato Abu Obeida, portavoce delle Brigate Al Qassam.

Israele ha vietato alla stampa straniera di riferire da Gaza. Ha ucciso oltre 40 giornalisti e operatori dei media palestinesi. Ha anche istituito blocchi prolungati di Internet e del servizio di telefonia cellulare. Senza dubbio, questa pesante censura è fatta per limitare le orribili immagini delle vittime civili. Ma sospetto che abbia anche lo scopo di bloccare le immagini di un’offensiva di terra che è più dura, più lunga e più costosa di quanto Israele avesse previsto.

Israele investe enormi risorse nella sua campagna di propaganda, facendo sì che reti come la CNN ripetano i suoi argomenti. Jake Tapper dovrebbe essere un portavoce onorario delle Forze di Difesa Israeliane (IDF).

Al-Araj ha messo in guardia dal tentativo di Israele di demoralizzare i combattenti pubblicando foto e video di israeliani che occupano punti di riferimento e spazi pubblici.

Un video condiviso sui social media mostra l’innalzamento della bandiera israeliana su una spiaggia di Gaza. Un gruppo di soldati circonda la bandiera e canta l’inno nazionale israeliano.

Nell’ottobre dello scorso anno, i coloni ebrei hanno occupato la moschea Ibrahimi nella città cisgiordana di Hebron, dove nel 1994 un colono ebreo, Barach Goldstein, uccise a colpi di mitra 29 palestinesi mentre pregavano. I coloni hanno organizzato un festival musicale e una festa da ballo nella moschea. Hanno appeso una bandiera israeliana al tetto. Sono circolati video che denigrano e ridicolizzano i palestinesi.

Al-Araj ha ricordato che la propaganda israeliana è volta a seminare il panico, a demonizzare i palestinesi e a diffondere il disfattismo.

“Stiamo riproponendo la Nakba di Gaza”, ha dichiarato il membro del gabinetto di sicurezza israeliano e ministro dell’Agricoltura Avi Dichter, riferendosi alla pulizia etnica dei palestinesi dalla loro terra nel 1948, facilitata da massacri, stupri di donne e ragazze palestinesi e dalla distruzione di interi villaggi da parte delle milizie sioniste.  “Da un punto di vista operativo, non c’è modo di condurre una guerra – come l’IDF cerca di fare a Gaza – con masse tra i carri armati e i soldati”. “Gaza Nakba 2023. È così che finirà”, ha concluso.

Israele equipara i palestinesi ai nazisti. Naftali Bennett, ex primo ministro israeliano, in un’intervista a Sky News del 12 ottobre ha dichiarato: “Stiamo combattendo i nazisti”. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha descritto Hamas in una conferenza stampa con il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, come “i nuovi nazisti”.

L’IDF ha pubblicato un tweet che recitava: “Mai più è ORA. Le forze dell’IDF hanno scoperto una copia del famigerato libro di Hitler ‘Mein Kampf’ – tradotto in arabo – nella camera da letto di un bambino usata come base terroristica di Hamas a Gaza. Il libro è stato scoperto tra gli effetti personali di uno dei terroristi, con annotazioni e sottolineature. Hamas abbraccia l’ideologia di Hitler, il responsabile dell’annientamento del popolo ebraico”.

Il messaggio è chiaro. I palestinesi incarnano il male assoluto.

Israele diffonde immagini che mostrano palestinesi e prigionieri palestinesi denigrati e maltrattati dagli israeliani. Allo stesso tempo, Israele si presenta come compassionevole.

Di recente è stato diffuso un video intitolato “Soldati dell’IDF danno acqua ai civili di Gaza dopo il rifiuto di Hamas”. Il video, chiaramente inscenato, mi ha ricordato il filmato del comandante serbo-bosniaco Gen. Ratko Mladic che nel 1995 distribuiva caramelle ai bambini di Srebrenica prima di supervisionare l’esecuzione di 8.000 uomini e ragazzi.

“Il nemico condurrà operazioni tattiche e qualitative per assassinare alcuni simboli [della resistenza], e tutto questo fa parte della guerra psicologica”, ha scritto al-Araj. “Quelli che sono morti e quelli che moriranno non influenzeranno mai il sistema e la coesione della resistenza perché la struttura e le formazioni della resistenza non sono centralizzate ma orizzontali e diffuse. Il loro obiettivo è influenzare la base di supporto della resistenza e le famiglie dei combattenti della resistenza, poiché sono le uniche che possono influenzare gli uomini della resistenza”.

In ogni guerra, l’informazione è un’arma. Ma affidarsi esclusivamente alla narrazione israeliana significa essere ingannati, non solo sui crimini di guerra che Israele compie, ma sulla natura stessa della guerra. I palestinesi capiscono il loro nemico. Hanno fatto molta esperienza. Sapevano che sarebbe successo. Sospetto che i combattimenti a Gaza continueranno per molto tempo. Israele ha pagato un prezzo alto il 7 ottobre quando i combattenti palestinesi hanno violato i suoi confini. Pagherà un prezzo ancora più alto a Gaza

Traduzione de l’AntiDiplomatico

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Moni Ovadia : L’orrore dell’antisemitismo e la strumentalizzazione della Shoà

L’antisemitismo è stata – ed è – la pseudo ideologia più criminale, più feroce e più esiziale che sia comparsa nella storia dell’umanità. Il suo vertice si è espresso con il più atroce sterminio sistematico di esseri umani progettato e programmato con tecnica industriale che abbia avuto luogo sotto il cielo del pianeta terra. Questa apocalisse era iscritta nel presupposto micidiale dell’antisemitismo già dai tempi del paganesimo idolatrico. Esso sosteneva che l’ebreo è malvagio, pernicioso, distruttore e deve essere annientato per il solo fatto di esistere, per il fatto stesso di essere nato. Gli si attribuiscono azioni e progetti raccapriccianti non per qualche depravata ragione che è caratteristica degli altri criminosi razzismi, ma per la sola ragione di vivere. Il solo apparentamento possibile con l’antisemitismo, è la misoginia, l’odio per le donne, calunniate, sfregiate, segregate, massacrate, torturate che si manifesta contro di esse solo per il fatto di essere donne.

Ogni essere umano che abbia coscienza del senso di appartenenza all’umanità, non può non avere ripulsa dell’antisemitismo perché, qualora esso trionfasse, ne conseguirebbe progressivamente la distruzione della nostra specie intera perché esso concepisce che si possano cancellare dalla terra esseri umani in quanto tali. Noi, su questa terra, all’origine siamo tutti sapiens sapiens africanus con qualche elemento di Neanderthal. L’ebreo non si definisce per etnia o per appartenenza ad una terra come altre genti o, come qualcuno si ostina a dire, per “razza”. Per la legge ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, il padre non conta, può essere di qualsiasi etnia e può, paradossalmente, essere persino nazista. Nell’ebraismo non si concepisce lo stupro etnico, un figlio di madre ebrea, è comunque ebreo. Inoltre, all’ebraismo ci si può convertire: alcuni convertiti, o figli di convertiti, si sono rivelati fra i più grandi Maestri del pensiero ebraico di tutti i tempi.

L’antisemitismo si presenta talora in forme criptiche o semi criptiche. Il mondo dei movimenti operai e rivoluzionari, per esempio, conobbe il diffondersi di pulsioni antisemite. Il grande leader socialdemocratico tedesco August Bebel definì il fenomeno dell’antisemitismo, il “socialismo degli imbecilli”. L’espressione fu ripresa da Lenin il cui nonno, da parte di madre, era un ebreo svedese di nome Blank. Nel 1914 il grande rivoluzionario bolscevico pronunciò un vibrante discorso contro l’antisemitismo di cui si può ascoltare il documento sonoro.

Una delle forme più frequenti di antisemitismo semi-criptico è, a mio parere, quello degli antisemiti che si attaccano ad ogni argomento che riguardi ebrei, questioni ebraiche, ebrei potenti per inoculare il virus. All’interno di questa fattispecie di antisemiti vi sono coloro che rovesciano il loro odio sullo Stato di Israele in quanto popolato da ebrei.

Per contro, negli ultimi decenni è stato creato, proprio in Israele e fra i sionisti, sia della Terra Santa sia della diaspora, un nuovo tipo di antisemitismo che si definisce per parametri altri rispetto a quelli dell’antisemitismo autentico che ho tentato di descrivere qui sopra. Rientrano in questa categorizzazione dell’antisemitismo, anche se ebrei loro stessi, tutti coloro che disapprovano, criticano, denunciano o si oppongono alla politica dei governi israeliani, che contrastano le leggi liberticide che i governi israeliani promulgano, il sistema di apartheid che impongono al popolo palestinese, la colonizzazione violenta delle terre, la distruzione delle loro case, il furto della loro acqua, il sistema di lager in cui hanno trasformato Gaza e le centinaia di migliaia di arresti amministrativi senza processo. Questi “antisemiti” credono nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani senza distinzioni.

Chi criminalizza con l’accusa di antisemitismo questi attivisti, che sia ebreo, non ebreo o figlio di sopravvissuti, è un vile che sputa sulle ceneri della nostra gente sterminata nei lager, sul dolore di coloro che furono fucilati e sepolti nelle fosse comuni e di tutti gli ebrei torturati e annientati. L’uso strumentale della Shoà per fare propaganda menzognera, è osceno, ignobile, vergognoso. Se difendere la vita, la dignità e i diritti dei palestinesi come persone e come popolo è antisemitismo… allora io, ebreo da molte generazioni, sono orgogliosamente “antisemita”!

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La guerra, la barbarie, le parole – Giovanna Lo Presti

In questi giorni drammatici, in cui la violenza nella sua forma estrema insanguina terre in cui da anni si convive con una violenza quotidiana meno clamorosa – per noi che viviamo lontano – ma non per questo più tollerabile, ho ripensato spesso alle due guerre del Golfo, alle veline del Pentagono spacciate come verità storica, alle notizie false sulle terribili armi di distruzione di massa in possesso di Saddam, all’idiozia delle armi intelligenti. Mi è parso chiaro che l’ultimo trentennio, che mi piace definire “il trentennio inglorioso”, ha determinato uno scivolamento collettivo, nei fatti e nel modo di pensare, verso la messa tra parentesi di quei “due o tre principi fondamentali” che, come dice Nanni Moretti nel suo ultimo film, bisognerebbe possedere. Il primo principio dimenticato, su cui poggiano tutti gli altri, è quello di uguaglianza.

Torno al 1991. Allora facevo, come mestiere, l’insegnante. Non sono mai stata turbata dall’incubo di tanti docenti: essere indietro con il programma. Per questo motivo nella classe quinta ho inserito spesso argomenti che non erano obbligatori, se non per me. I ragazzi di un istituto tecnico non sempre hanno occasione di incontrare fuori dall’aula grandi testimonianze del pensiero umano o di riflettere su temi, quali quello della guerra, confrontandosi con capolavori assoluti dell’arte. Così, pensando che potesse essere utile per loro, proponevo almeno due film che fanno parte del mio “canone pacifista”: Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick e La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Orizzonti di gloria: non conosco una denuncia più netta e convincente dell’orrenda carneficina che fu la prima guerra mondiale. Né mi verrebbe in mente esempio migliore del processo-farsa che porta alla condanna a morte di tre soldati innocenti, presunti disertori, per far comprendere quanta ipocrisia e ingiustizia si possa celare nella legge in quanto puro esercizio di potere. Pari rigore stilistico, pari forza visiva, pari complessità di contenuto ha La battaglia di Algeri. Come sappiamo, il film, ambientato in Algeria nel 1957 (e il 1957 casualmente è anche l’anno in cui esce il film di Kubrick) parla della lotta del popolo algerino, che si concluderà nel 1962 con la dichiarazione di indipendenza dalla Francia.

La scena iniziale si svolge in un sordido interno: un algerino del FLN ha appena confessato, sotto tortura, dove si trova il rifugio di Alì La Pointe, uno dei capi della rivolta. L’uomo, con i segni della tortura sul corpo, è sconvolto: il suo torturatore gli dice: «Non potevi deciderti prima? Era meglio per te». I soldati gli porgono una tazza di caffè, poi una tuta mimetica, in modo che possa confondersi con loro mentre li guida al rifugio di Alì. Gli assicurano che non gli succederà più nulla di male; il disgraziato, vestito ormai come i suoi torturatori, gli occhi pieni di lacrime, con un grido selvaggio si slancia verso la finestra. I militari lo trattengono. Altra scena: l’FLN organizza attentati che colpiranno i civili. Tre giovani donne hanno l’incarico di collocare gli ordigni nella parte europea della città: una di esse, vestita all’occidentale, spinge, guardinga, la sua borsa con la bomba sotto il bancone e dà un’occhiata all’orologio sulla parete, che fra poco segnerà l’ora dell’esplosione. Altra scena ancora: il capo dei paracadutisti inviati a sedare la rivolta, Mathieu, spiega ai suoi sottoposti che la base del loro lavoro è l’informazione, il metodo è l’interrogatorio e l’interrogatorio diventa metodo se condotto in modo tale da ottenere sempre una risposta. Risposta che si ottiene con la tortura. Scorrono immagini di violenza omicida, cadono algerini, europei, militari, civili – la tensione è fortissima, accentuata da una regia e da una fotografia magistrali.

Bene, questo film eccezionale, schierato con la lotta di liberazione algerina ma non incurante delle ragioni delle altre vittime, appassionato e privo di retorica, ottima introduzione a una lezione sulla decolonizzazione, da un certo punto in avanti ho deciso di non farlo più vedere. Deve essere stato dopo l’11 settembre 2001, o dopo la seconda guerra del Golfo. Capivo che il percorso per condurre ragazzi diciottenni a comprendere il senso di quel racconto, di quelle immagini era ormai troppo accidentato e che avrei rischiato di forzare la mano. Capivo che le parole di Alì La Pointe, pronunciate mentre i parà francesi si apprestano a far saltare in aria l’edificio in cui egli si nasconde, sarebbero state fraintese da molti studenti e avrebbero generato una discussione arruffata. E io non volevo riprodurre le superficiali zuffe da talk show televisivo in una classe di scuola superiore. Come avrebbero reagito gli studenti di fronte ad Alì, che prima di saltare in aria con i suoi compagni di lotta dice: «Sì, fate saltare, fate saltare, avanti. Con voi non tratto: solo una cosa vorrei fare con voi, ammazzarvi tutti, come mosche, come mosche, come facevate voi allora, quando iniziò la nostra battaglia»? Mi sembrava, e mi sembra tuttora, che anche menti giovani fossero già intossicate da parole che spingevano a identificare nel diverso da noi il nemico principale per la nostra tranquillità. Mi pareva, e oggi lo verifico per l’ennesima volta di fronte al dramma dei palestinesi, che la corrente che spinge all’identificazione con il più forte (e fa, implicitamente, del più forte il più giusto) fosse molto più impetuosa e trascinante dell’altra, che porta invece a identificarsi con il più debole, con il soccombente. Avevo la netta impressione che fosse sparita (per sempre?) la pietas, quel senso di dovere verso altri che si ancora nella sacralità della vita e che spinge a dare soccorso e a soffrire con chi soffre.

Come spiegare, mi chiedevo, ad adolescenti colonizzati dagli idola tribus del nostro tempo quella frase così cruda, «ammazzarvi tutti, come mosche, come mosche, come facevate voi allora»quel desiderio di vendetta nato dall’altro desiderio, quello di ripristinare la giustizia? Capire una rabbia violenta che non ci appartiene implica la volontà di comprendere il terreno storico in cui si radica quella vendetta collettiva. D’un colpo sentivo schierarsi contro di me tutti i discorsi lividi, meschini, falsi di troppi nostri indegni politici che vedono nell’extracomunitario (mi si scusi la parola) non una persona ma l’incarnazione della minaccia alla nostra sicurezza. Mi pareva che per contrastare i pregiudizi già ben sedimentati in quelle giovani menti, la visione della Battaglia di Algeri fosse una medicina troppo forte, destinata forse a sortire un effetto- paradosso.

Così, il grande film di Gillo Pontecorvo l’ho accantonato. Per non farlo, avrei dovuto agire d’autorità per imporre il mio punto di vista, avrei parlato ai pochi che, per loro sensibilità, erano pronti a capire – invece un insegnante deve parlare a tutti e non indottrinare nessuno. E quindi ho cercato, appunto, di parlare a tutti di come la guerra sia l’effetto più tragico della disuguaglianza, del fatto che il nostro mondo opulento viva e prosperi grazie alla disuguaglianza planetaria, di quanto la disuguaglianza stia crescendo in questi anni, sia in senso formale sia in senso sostanziale, minando alla base quell’idea di cui il nostro Occidente va fiero, pur calpestandola a ogni pie’ sospinto – e cioè l’idea di democrazia.

Oggi, di fronte all’ipocrisia dei nostri politici, di fronte ai numeri dei morti che parlano chiaro – in questo momento circa 1400 morti israeliani, circa 9400 morti palestinesi – mi sento di nuovo privata della libertà di parola, sento di subire una censura. Non colpisce direttamente me (che non ho voce in capitolo) – ma colpisce, ad esempio, il segretario generale dell’ONU nel momento in cui fa notare che «il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione», che gli attacchi di Hamas non arrivano dal nulla, che «la punizione collettiva del popolo palestinese» è ingiustificabile. Subito il rappresentante israeliano ne chiede le dimissioni! Il Governo israeliano si arroga il diritto di sterminare civili in nome del fatto che altri civili sono morti – e va ben oltre il Levitico, che ordina «frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione ch’egli ha fatta all’altro». Guai a criticare Israele, che ha diritto di esistere e di difendersi, mentre gli Altri questi diritti non se li sono, evidentemente, conquistati. Assistiamo oggi sconvolti al bombardamento delle autoambulanze a Gaza, che gli israeliani giustificano affermando che Hamas le usa per spostarsi – e di nuovo, non abbiamo più parole.

Oltre alle vittime inermi, questa carneficina sta producendo un indurimento delle coscienze intollerabile. E, per dirla con René Girard, la voce della realtà resta inascoltata; “restiamo umani” sembra ormai uno slogan d’altri tempi, di quelli che si trovano nei biglietti di certi cioccolatini. Dobbiamo concludere che l’atroce persecuzione degli ebrei durante il secondo conflitto mondiale non abbia insegnato nulla e che i perseguitati di allora siano pronti a farsi persecutori senza scrupoli? Dobbiamo concordare con il manzoniano «loco a gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta / che far torto, o patirlo. Una feroce forza / il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto»?

In questo momento le parole di Giulio Andreotti, che nel 2006 affermò che ognuno di noi, se fosse nato e vissuto in un campo profughi, senza speranza per sé e per i propri figli, sarebbe un terrorista, sembrano le parole di un antropologo illuminato e non di un politico abile che non ha mai messo da parte la ragion di Stato. La domanda fondamentale: «Che merito abbiamo noi per essere nati qui e non là?» ci deve toccare nel profondo. Allora non potremo che schierarci dalla parte degli inermi, riconoscere le ragioni degli ultimi e condannare, in primo luogo, la violenza dei più forti. Ognuno di noi ha diritto a lottare contro soprusi, grandi o piccoli che siano. In queste righe si incrociano un piccolo sopruso, quello che ho subito io come insegnante nel momento in cui il pensiero mainstream, impetuoso nel suo procedere, mi ha obbligato, in base al principio di ragionevolezza, a mettere da parte un film tanto bello quanto equivocabile e il sopruso, enorme, che patiscono tutti i “dannati della Terra” per mano di altri esseri umani che si credono migliori di loro ma che, in verità, sono soltanto i più forti.

Ora c’è una sola richiesta che deve salire dalle nostre piazze: “cessate il fuoco”. Poi si vedrà, ed auguro ai palestinesi e agli israeliani che non condividono la politica assassina del loro Governo di poter vivere lontano dalla barbarie, che purtroppo avanza anche nel “pacifico” Occidente, i cui Governi dovrebbero arrossire al pensiero dell’osceno mercato delle armi che continuano a favorire in ogni modo. Spero che diventi realtà l’ultima, incantevole scena de La battaglia di Algeri, nella quale una giovane donna balla e festeggia la fine imminente del dominio francese: è bella, sorridente, vera e propria immagine della vita contro la morte e della Libertà, che non può accettare né dominatori né integralismi religiosi.

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Muhammad Zakut, il direttore dell’agenzia statale che gestisce tutte le strutture ospedaliere in Gaza:

– L’esercito israeliano di occupazione è entrato nel pronto soccorso del complesso e sta perquisendo il seminterrato dell’ospedale.

– Gli occupanti hanno aperto il fuoco contro coloro che hanno lasciato il corridoio che, secondo loro, era sicuro per lasciare il complesso.

– Le forze di occupazione hanno preso d’assalto gli edifici chirurgici e di emergenza del complesso di Al-Shifa.

– L’esercito di occupazione credeva che l’ingresso dei suoi soldati nel complesso sarebbe stato una vittoria per lui, ma non ha trovato alcuna prova dell’esistenza di Hamas.

 

 

“Sto andando a manifestare per il ghetto nella Striscia di Gaza! La mia famiglia ha combattuto Hitler,non come voi, codardi sionisti!” – un uomo a New York affronta duramente i manifestanti pro Israele.

“Sei pieno di stronzate!” – urla una donna manifestante pro Israele.

L’uomo si scalda ancora di più e dice tutto quello che lui pensa sui sionisti e sui loro crimini:

“Io non sono pieno di stronzate, siete voi che siete razzisti! I bambini vengono uccisi ogni giorno e voi opportunisticamente state proponendo i vostri volantini alle persone che vi rifiutano in ogni caso. Voi sapete che questa è la verità. Voi siete fascisti e mostri genocidi. Voi non credete che tutte le vite sono uguali. Voi odiate la democrazia. Voi odiate questo dell’America, che tutti i cittadini sono uguali. Andate all’inferno!”

https://t.me/s/nicolaililin

 

 

Centinaia di intellettuali ebrei americani: «La critica a Israele non è antisemitismo»

Nella lettera qui pubblicata un gruppo di intellettuali ebrei, tra i quali L, Judith Butler e Tony Kushner, denuncia la scorrettezza della risorgente affermazione secondo cui criticare Israele è antisemita. La lettera, che ha raccolto in pochi giorni centinaia di adesioni, è stata pubblicata sul sito n+1 dopo che diverse testate statunitensi, su consiglio dei loro legali, ne hanno rifiutato la pubblicazione. Nella lettera, oltre a confutare l’interessata confusione tra antisemitismo e presa di distanza dal Governo di Israele, si chiede l’immediato cessate il fuoco a Gaza. (la redazione)

Siamo scrittori, artisti e attivisti ebrei che desiderano contestare la narrazione diffusa secondo cui qualsiasi critica a Israele è intrinsecamente antisemita. Israele e i suoi difensori hanno a lungo usato questo espediente retorico per mettere Israele al riparo dalle sue responsabilità, per dare copertura morale agli investimenti miliardari degli Stati Uniti a sostegno dell’esercito israeliano, per oscurare la realtà mortale dell’occupazione e per negare la sovranità palestinese. Ora questo insidioso bavaglio alla libertà di parola viene utilizzato per giustificare i bombardamenti dell’esercito israeliano su Gaza e per delegittimare le critiche della comunità internazionale.

Noi condanniamo tutti i recenti attacchi contro i civili israeliani e palestinesi e piangiamo la perdita di vite umane. E siamo addolorati e inorriditi nel vedere la lotta all’antisemitismo usata come pretesto per crimini di guerra dal dichiarato intento genocida.

L’antisemitismo è una parte dolorosa del passato e del presente della nostra comunità. Le nostre famiglie sono sfuggite a guerre, molestie, pogrom e campi di concentramento. Abbiamo studiato la lunga storia di persecuzione e violenza contro gli ebrei e prendiamo sul serio l’antisemitismo attuale che mette a rischio la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo. Lo scorso ottobre è stato il quinto anniversario del peggior attacco antisemita mai commesso negli Stati Uniti: l’assassinio, nella sinagoga di Tree of Life – Or L’Simcha a Pittsburgh, di 11 fedeli da parte di un uomo armato che sosteneva teorie complottiste sulle colpe degli ebrei per l’arrivo dei migranti centroamericani, disumanizzando così entrambi i gruppi. Rifiutiamo l’antisemitismo in tutte le sue forme, anche quando si maschera da critica al sionismo o alle politiche di Israele. Ma rileviamo che, come ha scritto il giornalista Peter Beinart nel 2019, «l’antisionismo non è intrinsecamente antisemita, e sostenere che lo sia sfrutta la sofferenza ebraica per cancellare l’esperienza palestinese».

Troviamo questo espediente retorico antitetico ai valori ebraici, che ci insegnano a riparare il mondo, a mettere in discussione l’autorità e a difendere gli oppressi dagli oppressori. È proprio a causa della dolorosa storia dell’antisemitismo e delle lezioni dei testi ebraici che sosteniamo la dignità e la sovranità del popolo palestinese. Rifiutiamo la falsa alternativa tra la sicurezza degli ebrei e la libertà dei palestinesi, tra l’identità ebraica e la fine dell’oppressione dei palestinesi. Crediamo, infatti, che i diritti degli ebrei e dei palestinesi vadano di pari passo. La sicurezza di ciascuno dei due popoli dipende dall’altro. Non siamo certamente i primi a dirlo, e ammiriamo coloro che hanno dato forma a questa linea di pensiero pur in presenza di tanta violenza.

La confusione tra l’antisemitismo e la critica di Israele o del sionismo ha delle ragioni precise. Per anni, decine di paesi hanno sostenuto la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance. La maggior parte degli 11 esempi di antisemitismo in essa contenuti riguarda giudizi sullo Stato di Israele e alcuni di essi limitano di fatto l’ambito delle critiche accettabili. Inoltre, la Lega Anti-Defamation classifica l’antisionismo come antisemitismo, nonostante i dubbi di molti dei suoi stessi esperti. Queste definizioni hanno favorito l’intensificarsi delle relazioni del Governo israeliano con forze politiche di estrema destra e antisemite, dall’Ungheria alla Polonia agli Stati Uniti e oltre, mettendo in pericolo gli ebrei della diaspora. Per contrastare queste definizioni generiche, un gruppo di studiosi dell’antisemitismo ha pubblicato, nel 2020, la Dichiarazione di Gerusalemme, che offre linee guida più specifiche per identificare l’antisemitismo e distinguerlo dalla critica e dal dibattito su Israele e sul sionismo.

Le accuse di antisemitismo di fronte alla minima obiezione alla politica israeliana hanno a lungo permesso a Israele di mantenere in vita un regime che organizzazioni per i diritti umanistudiosigiuristi e associazioni palestinesi e israeliane hanno definito di apartheid. Queste accuse hanno un effetto spaventoso sulla nostra politica. Ciò ha comportato la soppressione politica dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, dove il Governo israeliano confonde l’esistenza stessa del popolo palestinese con l’odio per gli ebrei di tutto il mondo. Nella propaganda interna rivolta ai propri cittadini e in quella esterna rivolta all’Occidente, il Governo israeliano afferma che le rivendicazioni dei palestinesi non riguardano la terra, la mobilità, i diritti o la libertà, ma piuttosto l’antisemitismo. Nelle ultime settimane, i leader israeliani hanno continuato a strumentalizzare la storia del trauma ebraico per disumanizzare i palestinesi. Nel frattempo, degli israeliani vengono arrestati o sospesi dal lavoro per post sui social media in difesa di Gaza e giornalisti israeliani temono conseguenze per aver criticato il loro governo.

Definire tutte le critiche a Israele come antisemite, inoltre, schiaccia, nell’immaginario collettivo, il popolo ebraico su Israele. Nelle ultime due settimane negli Stati Uniti, abbiamo visto sia democratici che repubblicani difendere l’identità ebraica sulla base del sostegno a Israele. Una lettera molto vaga firmata da decine di personalità e pubblicata il 23 ottobre ha riproposto il Presidente Biden come sostenitore del popolo ebraico sulla base del suo appoggio a Israele. La 92NY, nel rinviare un evento con l’autore Viet Thanh Nguyen, che aveva firmato una lettera in cui chiedeva la fine degli attacchi di Israele a Gaza, ha sottolineato la propria identità di “istituzione ebraica”. Come altri hanno osservato, i tentativi di contestualizzare gli attacchi del 7 ottobre sono visti come negazione della sofferenza ebraica piuttosto che come necessari strumenti per comprendere e porre fine alla violenza.

L’idea che tutte le critiche a Israele siano antisemite diffonde la visione che palestinesi, arabi e musulmani siano intrinsecamente sospetti, agenti dell’antisemitismo finché non affermano esplicitamente il contrario. Dal 7 ottobre, i giornalisti palestinesi hanno dovuto affrontare una repressione senza precedenti. Un cittadino palestinese di Israele è stato licenziato dal lavoro in un ospedale israeliano per un post su Facebook del 2022 che citava il primo pilastro dell’Islam. I leader europei hanno vietato proteste a favore della Palestina e criminalizzato l’esposizione della bandiera palestinese. A Londra, un ospedale ha tolto dei disegni realizzati da bambini di Gaza dopo che un gruppo pro-Israele ha affermato che essi facevano sentire i pazienti ebrei «vulnerabili, molestati e vittimizzati». Persino dei disegni di bambini palestinesi vengono associati a un’allucinazione di violenza.

I leader statunitensi alimentano ulteriormente la confusione schiacciando la tutela della sicurezza degli ebrei sul finanziamento militare incondizionato e costante di Israele, senza alcuna intenzione di fare la pace. Il 13 ottobre, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha diffuso una nota interna per esortare i funzionari a non utilizzare espressioni come “de-escalation/cessate il fuoco”, “fine della violenza/spargimento di sangue” o “ripristino della calma”. Il 25 ottobre, Biden ha messo in dubbio il numero di morti palestinesi e lo ha definito il “prezzo” della guerra di Israele. Questa logica crudele continuerà a favorire l’antisemitismo e l’islamofobia. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale si sta preparando a fronteggiare un aumento dei crimini d’odio contro ebrei e musulmani, che è già iniziato.

Per ciascuno di noi, l’identità ebraica non è un’arma da brandire nella lotta per il potere dello Stato, ma una fonte di saggezza che dice: “Giustizia, giustizia, perseguirai” (Tzedek, tzedek, tirdof). Ci opponiamo allo sfruttamento del nostro dolore e al silenzio dei nostri alleati.

Chiediamo un cessate il fuoco a Gaza, una soluzione per il ritorno sicuro degli ostaggi trattenuti a Gaza e dei prigionieri palestinesi in Israele e la fine dell’occupazione israeliana. Chiediamo inoltre ai governi e alla società civile degli Stati Uniti e dell’Occidente di opporsi alla repressione del sostegno alla Palestina. E ci rifiutiamo di permettere che tale sostegno, urgente e necessario, vengano represso in nostro nome. Quando diciamo “mai più”, lo diciamo sul serio.

2 novembre 2023

Leah Abrams, scrittore
Tavi Gevinson, scrittore e attore
Rebecca Zweig, scrittrice e regista
Nan Goldin, artista e attivista
Naomi Klein
Tony Kushner, scrittore
Deborah Eisenberg, scrittrice
Sarah Schulman, scrittrice
Vivian Gornick
Annie Baker, drammaturgo e regista
Hari NeIf, attore e scrittore
Judith Butler, scrittrice
seguono centinaia di altre firme.

La traduzione dall’inglese è stata curata dalla redazione (https://volerelaluna.it)

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Germania, il post di Reem Sahwl: «dal fiume al mare» ora è reato – Sebastiano Canetta

La Bild segnala il «post antisemita» di Reem Sahwl – la ragazza di origine palestinese, oggi 22 enne, a cui otto anni fa la cancelliera Angela Merkel rispose: «Non possiamo accogliere tutti», facendola piangere a dirotto – con la mappa geografica senza Israele e l’hashtag Palestina libera «dal fiume al mare».
Risultato immediato: la ministra dell’Interno, Nancy Faeser (Spd), trasforma lo slogan in reato penale punibile fino a tre anni di galera, senza dover modificare il codice penale e senza passare al vaglio del Bundestag grazie all’escamotage per cui «la frase è caratteristica di Hamas e Samidoun», le due associazioni appena bandite in Germania.
Per il momento il nuovo reato viene già ufficialmente applicato a Berlino e in Baviera, tiene a precisare la polizia federale. Fa il paio con la serie di divieti moltiplicatisi dal 7 ottobre: dalla messa al bando della kefiah nelle scuole fino alle proposte di legge attualmente sul tavolo dell’opposizione, tra cui spicca l’idea di legare la concessione della cittadinanza tedesca al riconoscimento di Israele. A riguardo il ministro della Giustizia dell’Assia, Roman Poseck (Cdu) ha annunciato la sua iniziativa per equiparare a un reato penale anche la negazione dello Stato Ebraico «in qualunque forma».

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Licenziato e incarcerato per 4 giorni. Aveva scritto dei post contro la guerra – Michele Giorgio

Meir Baruchin ha pagato di persona più di una volta per aver espresso le sue idee e per aver detto ai suoi studenti di non lasciarsi condizionare dalle visioni prevalenti e di guardare ad ogni questione in modo critico. Originario di Gerusalemme, 63 anni, insegnante di storia e eduzione civica, nel 2020 fu licenziato da una scuola di Rishon Lezion perché in aula aveva espresso le sue opinioni sul conflitto con i palestinesi. Spiegò ai dirigenti scolastici che aveva soltanto provato a generare un dibattito tra gli alunni in modo da portarli a pensare in modo indipendente. Non servì a nulla, fu mandato a casa. Pesarono le pressioni della destra che lo accusava di voler inculcare nelle giovani menti «disfattismo e idee pericolose». Tre anni dopo, Baruchin non solo ha perduto di nuovo il lavoro, questa volta in una scuola di Petah Tikva, ma è stato anche arrestato, detenuto per quattro giorni e soggetto a una campagna volta a farlo apparire come un «traditore» e un sostenitore di Hamas. I giudici ieri hanno ordinato il suo rilascio, dietro il pagamento di una cauzione, e gli hanno proibito di postare qualsiasi cosa sui social per le prossime due settimane.
A PORTARLO in cella è stata anche la denuncia presentata alla polizia dalla municipalità di Petah Tikva per le foto e i commenti che l’insegnante ha pubblicato su Facebook contro i bombardamenti su Gaza e di denuncia delle sofferenze che le operazioni militari causano alla popolazione civile palestinese. Sul suo profilo ci sono le foto di bambini morti nei raid aerei. Contro di lui sono stati usati anche commenti scritti prima dell’attacco di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre.
Uno dei post di Baruchin che ha attirato più di altri l’attenzione della destra e della polizia è dell’8 ottobre. «Anche oggi continua il massacro in Cisgiordania» ha scritto a proposito dell’uccisione di due palestinesi. «Sono nati sotto occupazione e hanno vissuto sotto di essa tutta la loro vita», ha aggiunto «Non hanno mai conosciuto un giorno di vera libertà. Non lo conosceranno mai… sono stati giustiziati questa sera dai nostri eccezionali ragazzi». Commenti che hanno suscitato forte clamore a destra ma che per i giudici non giustificano un procedimento penale per «alto tradimento». Ieri mattina Baruchin è stato scarcerato. È difficile però che torni al lavoro. Il giornale Maariv scrive che, fin dall’inizio della guerra, il ministero dell’Istruzione ha indicato alle scuole di mostrare tolleranza zero nei confronti di «espressioni di istigazione e sostegno al terrorismo» da parte dei docenti.
QUALCUNO comunque fa notare se i post contro la guerra fossero stati pubblicati da un arabo israeliano o da un palestinese di Gerusalemme le conseguenze sarebbero state ben peggiori considerando la politica decisa dalle autorità e delle forze di sicurezza. Nei giorni scorsi un ex deputato Mohammed Barakeh ed esponenti del partito arabo Balad sono stati arrestati per aver organizzato un raduno a sostegno del cessate il fuoco a Gaza. L’associazione per i diritti civili Adalah ha documentato decine di casi di studenti e impiegati arabo israeliani puniti severamente dalle università e di datori di lavoro per aver postato commenti contro la guerra giudicati a sostegno del terrorismo e di Hamas.

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“Chi vuoi spianare?” Quello che pensano i familiari degli ostaggi israeliani del governo Netanyahu – Clara Statello

Per Gil Dikman il governo israeliano è troppo impegnato a distruggere Gaza, per riportare a casa i suoi parenti, ostaggi di Hamas. Lunedì, durante un’audizione in commissione parlamentare del “Forum sulle famiglie rapite e scomparsi”, ha tenuto un appassionante e duro intervento rivolto all’ex ministro Galit Distel Atbaryan, per un post pubblicato su X il primo novembre, in cui l’esponente del Likud definiva i palestinesi “dei mostri” e chiedeva di cancellare, annientare e spianare Gaza.

“I miei cugini sono lì. Ci sono bambini, ebrei e arabi. Chi vuoi spianare? Gli esseri umani che hai abbandonato [gli ostaggi NdR], gli esseri umani che vivono sotto un regime assassino [i palestinesi sotto Hamas NdR] sono quelli che vuoi spianare? Basta con gli slogan. Prendetevi cura della vita perché c’è vita a Gaza”.

I familiari degli ostaggi sembrano essere consapevoli del fatto che i furiosi slogan di odio e vendetta del governo di Benjamin Netanyahu siano solo propaganda di guerra. I loro cari sono stati abbandonati da Israele e forse stanno morendo non per mano di Hamas, ma sotto le bombe dell’esercito che dovrebbe salvarli.

Mentre in Italia le foto degli ostaggi vengono utilizzate  per creare consenso attorno alla guerra contro Gaza, in Israele i familiari rifiutano di essere i testimonial di un massacro, chiedono un accordo di scambio e addirittura scendono in piazza per manifestare contro il governo.

Israele si rifiuta categoricamente di trattare con Hamas, ritiene che la vittoria sia l’unico modo per salvare gli ostaggi. I rappresentanti del Forum non la pensano così. Non possono attendere ancora molto il ritorno di familiari e amici. In quasi quaranta giorni di guerra non hanno avuto alcuna informazione sui loro cari, non sanno se sono vivi o morti, non hanno la minima idea delle condizioni di detenzione.

Shmuel Brodtz ha detto alla commissione che preferirebbe che Israele accettasse un cessate il fuoco, se fosse possibile garantire che gli ostaggi venissero visitati dalla Croce Rossa, che non è ancora riuscita a raggiungerli. Sua nuora e i suoi nipotini sono rinchiusi da qualche parte a Gaza.

“Ho un nipote di quattro anni. Non sa cosa sia Hamas. È tenuto lì al buio, non so se mangia, beve o è vivo. Al governo israeliano non importa che io non riceva alcuna informazione. Se c’è bisogno di concedere un cessate il fuoco, deve farlo”, afferma.

Le sue parole sono scevre da sentimenti di vendetta: “Se  tuo figlio fosse a Gaza, cosa faresti?” chiede Brodtz a Distel Atbaryan.

“I rapiti sono cittadini di questo Paese, e se uno di loro non ritorna sano e salvo, questo Paese non ha il diritto di esistere”, ha detto un altro rappresentante.

In generale, i familiari degli ostaggi temono che la liberazione dei loro cari sia un obiettivo secondario rispetto a quello militare di vincere la guerra. Dopo lo shock iniziale, in Israele è cresciuta la rabbia dell’opinione pubblica, con le famiglie dei prigionieri aspramente critiche nei confronti del governo. Lo scorso sabato, come quello precedente, hanno manifestato a Tel Aviv. Alcuni chiedevano concessioni, altri i negoziati con Hamas o un accordo per la liberazione di tutti i prigionieri.

Yakovi Inon, 78 anni, e sua moglie Bilha, 76, sono stati assassinati a Netiv HaAsara il 7 ottobre. Loro figlio Maoz da alcuni giorni ha piazzato una tenda davanti al parlamento israeliano a Gerusalemme. Chiede a Netanyahu di dimettersi e di porre fine alla guerra.

“La guerra non finirà finché Netanyahu sarà al suo posto”, afferma in un’intervista. Lancia un appello: “Chiedo al mondo di non inviare armi a Netanyahu. Non mandateci armi, non mandateci navi da guerra. Mandateci la pace. Mandateci amore. Mandateci riconciliazione”.

Nel presidio che ha allestito campeggiano i volti delle vittime di Hamas e delle persone trattenute ancora a Gaza. Quelle stesse immagini che in Italia sono strumentalizzate per sostenere la guerra di Israele, in Israele diventano uno strumento per chiedere la pace in Palestina. Maoz ha disposto dei lumini accesi per omaggiarli. C’è una bandiera israeliana.

“Capisco il desiderio di vendetta, ma vedo dove questa vendetta ci ha portato”, scrive su Istangram.

La madre di Neta Heiman Mina, attivista di ”Women Making Peace”, è ostaggio a Gaza: “Non importa quante volte cercheremo di spazzare via Hamas – scrive sui social – il prossimo round sarà sempre peggiore. La convinzione che la soluzione debba essere politica non solo non si è indebolita, ma si è rafforzata, perché questa volta sono stato colpita personalmente”.

Sabato alcune centinaia di pacifisti ebrei e arabi hanno sfidato la repressione e organizzato una protesta contro la guerra per chiedere al governo un cessate il fuoco. Durante il presidio hanno esposto striscioni e cartelli con slogan per chiedere una soluzione politica al conflitto, lo scambio dei prigionieri: “Non esiste una soluzione militare”, “solo i colloqui di pace risolveranno tutto”, “la guerra non ha vincitori”, “scambio degli ostaggi subito”.

Israele somiglia sempre più ad un Moloch che danza sui corpi dei propri morti, per spargere altro sangue e altra distruzione. Si pone al di sopra della giustizia internazionale, con slogan furenti istiga nel suo popolo la vendetta. Subordina la liberazione degli ostaggi alla vittoria su Hamas. Nella dottrina Dahiya ciò si traduce in guerra senza regole: a Gaza nessuno è innocente. Ogni civile, ogni casa, ogni scuola, ogni ospedale diventa un obiettivo militare dell’esercito israeliano. Il diritto alla difesa di Israele si converte in terrorismo di Stato.

La campagna #kidnapped, “Rapiti”, è stata creata subito dopo il 7 ottobre, da artisti israeliani che vivono a New York, con lo scopo di costruire il sostegno internazionale per la liberazione degli ostaggi. In diverse città italiane come Roma, Napoli, Milano, Torino, Parma, le foto dei rapiti sono apparse sui muri delle strade, con il loro nome ed età per creare un legame empatico ed emozionale con chi osserva il volantino. Sotto ogni volto sorridente, l’appello: aiutaci a riportarli a casa.

La richiesta, apparentemente ineccepibile, nasconde la domanda “in che modo?”.

Se Israele intende liberare gli ostaggi distruggendo Gaza ed espellendo i palestinesi dalle loro terre– come dichiarato dai vertici politico-militari israeliani – allora sostenere una campagna internazionale per la liberazione dei prigionieri di Hamas vuol dire sostenere una guerra contri i civili e quei volantini altro non sono che propaganda bellica. Questa è la semplice ragione per cui spesso vengono strappati.

La realtà in Israele è diversa dalle campagne propagandistiche. Molti dei familiari dei 240 prigionieri e delle vittime rifiutano che i loro cari siano utilizzati per legittimare un massacro, rifiutano logiche di odio, rifiutano la mostrificazione dei palestinesi. Chiedono uno scambio di prigionieri, chiedono concessioni, chiedono il cessate il fuoco, la riconciliazione, la pace. Chiedono di restare umani.

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Antisemitismo, confondere è dimenticare – Roberta de Monticelli

«La verité d’abord»: stanno in questa frase l’alfa e l’omega della lettera aperta al presidente della Repubblica francese che Émile Zola pubblicò il 13 gennaio 1898 sul quotidiano di Parigi L’Aurore, che denunciava – dietro l’Affaire Dreyfus – «l’odioso antisemitismo di cui la grande Francia liberale dei diritti dell’uomo morirà, se non ne guarisce». «Se insisto – ribadiva Zola – è perché qui sta l’uovo dal quale uscirà poi il vero delitto, la spaventosa negazione di giustizia di cui la Francia è malata». Certo, il confronto è impietoso. Ma «la verità prima di tutto» non pare l’urgenza più intima di Paolo Mieli nel suo recente allarme antisemitismo («Gli sfregi contro gli ebrei e i silenzi di troppa sinistra», Corriere della sera di ieri).
Mentre ai tempi di Dreyfus, argomenta Mieli, «gli stendardi dell’odio contro gli ebrei erano ben saldi nelle mani della destra», oggi «in tutti i paesi d’Europa l’asta di quelle bandiere è impugnata da mani di sinistra».
Ecco: i dati del Rapporto sugli incidenti antisemiti registrati nell’Ue negli ultimi tempi, a cura dell’Agenzia dell’Unione europea per i Diritti fondamentali, sono tanto massicciamente a sfavore di questa tesi (a fronte di alcune migliaia di «incidenti» con «motivazione politica di destra» corrisponde nella tabella relativa alla «sinistra» una cifra di alcune decine) che bisognerà intendere questo allarme come riferito non tanto alla crescita degli effettivi, inquietanti episodi di antisemitismo che si sono verificati in Europa, quanto alle grandi manifestazioni europee (e americane) contro l’eccidio dei civili palestinesi a Gaza.
Del resto, Mieli si era già prodigato di accuse quando scrisse che l’onda antisemita dalle proporzioni preoccupanti «ha trovato eco addirittura al vertice delle Nazioni Unite»: si riferiva alle dichiarazioni del Segretario generale Antonio Guterres, che aveva denunciato, a Gaza come negli altri territori, il fatto che i palestinesi per 56 anni «hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e piagata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le case demolite».
Com’è noto, il gentiluomo portoghese era stato perciò investito da accuse corali di antisemitismo, nonostante avesse introdotto e concluso le sue parole con la «condanna inequivoca» degli «inauditi e orripilanti atti di terrore compiuti da Hamas», che «nulla può giustificare».
E allora diventa chiaro che «l’asta delle bandiere» dell’antisemitismo «impugnata da mani di sinistra» è, fuor di metafora in questa sconcertante identificazione, l’asta delle bandiere palestinesi, che hanno sventolato su tutte le piazze d’Europa.
Vorrei fare, a questo proposito, due considerazioni. La prima è che c’è voluto ben poco ad assolvere gli eredi politici dei partiti fascisti d’Europa dall’antisemitismo che bevvero insieme al latte: è bastato un abbraccio a Netanyahu, o il sostegno gridato a una politica di “autodifesa” che non ne vuole sapere dei principi di distinzione e proporzione, dei vincoli insomma che distinguono l’umanità civile dal fondo arcaico e ferino che ribolle in noi sotto le leggi che ci siamo dati. Come mai?
La seconda considerazione riguarda un fenomeno molto più grave. C’è un’evidente e colpevole identificazione tra l’antisemitismo e la critica di quegli aspetti del sionismo politico – anche liberal, purtroppo – che da più di mezzo secolo seppelliscono nel buio della rimozione, in Israele e in tutto il cosiddetto occidente, i fatti menzionati da Guterres. Con parole di Edward Said: «C’è una semplice verità: sino al 1948 c’è stata un’entità chiamata Palestina e lo stato ebraico deve la propria esistenza alla sua soppressione». Una frase il cui senso va attentamente calibrato. In termini di tabelle, si traduce nel fatto che sei milioni di palestinesi (dato Unrwa) sono classificati come «rifugiati» dalle Nazioni Unite. In termini di verità morale, invece, non dice affatto che Israele non dovrebbe esistere, ma interroga la forma in cui esiste: in primo luogo denunciando la ferocia del trattamento riservato ai palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme Est e – non certo da ora – a Gaza; in secondo luogo evidenziando la feroce disparità di diritti in vigore anche all’interno dei suoi virtuali (mai costituzionalmente definiti) confini: disparità fra gli israeliani (ebrei) che godono e quelli che non godono dei «diritti nazionali» (tutti gli israeliani non ebrei).
A proposito di antisemitismo: chi lo equipara alla critica del sionismo politico nei suoi aspetti più “attuali”, sproporzione e indistinzione fra miliziani e civili comprese, fa di questa politica l’essenza dell’anima ebraica. E quindi la vera domanda è: sta dunque nella natura dello stato di Israele discriminare al suo interno categorie di cittadini, e all’esterno espandere sempre di più l’occupazione illegale di terre non sue? Ci si aspetterebbe che la risposta non antisemita sia: «Certo che no!». E, del resto, come si può inchiodare l’ebraicità a una particolare dottrina politica e a una particolare pratica di esercizio del potere statuale? È vero, invece, che sono più numerose le dottrine ebraiche – politiche e no – rappresentate da menti attive internazionalmente e dai molti cittadini israeliani che si oppongono alla legge dello stato nazione approvata nel 2018, in seguito alla quale Netanyahu potè veridicamente dire: «Lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma esclusivamente del popolo ebraico».
A proposito di quelle bandiere di una nazione negata, Paolo Mieli troverebbe forse interessante sentire cosa pensano dei suoi articoli tutte le associazioni che in Israele combattono questo stato dell’arte – organizzazioni come B’tselem, Breaking the Silence, Jewish Voice for Peace, e i tanti editorialisti di Haaretz e del Jerusalem Post, che hanno tentato di spezzare con le armi della ragione e della giustizia le radici di Hamas nei disperati sottofondi di Gaza. Tutti antisemiti?

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