I Lumen Natalis
un racconto di K. G. Sage (*)
I Lumen Natalis
La notte non aveva ancora finito di riversarci addosso avvenimenti a catena. Una filza di sorprese destinate a sconvolgere le nostre esistenze e a donarci una nuova e più alta comprensione dell’Universo.
Non potreste nemmeno lontanamente immaginare, giunti lassù, cosa videro i nostri occhi in quella che ricorderemo per sempre come la notte più incredibile della nostra vita.
Se Ferruccio fosse ancora tra noi, vi assicuro che direbbe esattamente la stessa cosa.
Purtroppo non avemmo il tempo di comprendere e apprezzare appieno ciò che si presentò alla nostra vista. Non subito, perlomeno.
Partiamo dall’inizio.
La pioggia era caduta fitta per tutto il pomeriggio. Il cielo cominciava ad aprirsi, offrendo un tramonto dai toni appariscenti. Uno di quei tramonti ricchi di sfumature cromatiche che si vedono soltanto dopo un buon acquazzone. Si stagliava suggestivo da uno squarcio nelle nubi sullo sfondo dell’antica torre civica, tingendole di gradazioni iridate.
Era il ventitré di agosto. L’estate astronomica si sarebbe protratta per un mese ancora, tuttavia l’innalzamento della temperatura globale avrebbe determinato un prolungamento della bella stagione, la cui onda lunga avrebbe accorciato l’autunno di un paio di settimane buone, magari anche di tre.
La gente dello storico paesello medievale dove vivo, nell’Appennino centrale, si preparava a godere il meritato ristoro dalle fatiche di un’altra giornata vissuta con la solita operosità di sempre.
Ai mocciosi che si rincorrevano in piazza e nelle vie si mescolavano turisti intenti a scattare foto ai monumenti e a quel cielo, dono di una divinità esteta.
E poi c’ero io, seduto in mezzo a una pittoresca combriccola di miei anziani concittadini persi nei ricordi di una gloriosa gioventù da tempo andata che, tra un bicchiere di vino e due fette di specialità norcine, puntualmente arricchivano di nuovi colorati particolari, concludendo la narrazione con una punta di malinconia che velava i loro occhi vissuti.
Se vi state chiedendo cosa ci facesse un giovanotto della mia età in compagnia di vecchi ruderi come quelli, beh… mi è sempre piaciuto stare lì a sentirli parlare.
Quanti pomeriggi avrò passato, quando ero soltanto un moccioso dai calzoni corti, seduto per terra, le gambe incrociate, ad ascoltare rapito aneddoti di un’epoca andata… Quante cose avrò imparato dai loro racconti…
Mi credereste se vi dicessi che ai loro tempi non esistevano ancora internet, i navigatori satellitari e i telefoni touch screen? Che per comporre un numero usavano ruotare una ghiera con dei buchi dove infilavano le dita?
Mi alzai, lasciai sul tavolino un paio di euro, la mia quota per le ordinazioni consumate, e mi incamminai di buon passo. Angela mi stava aspettando. Era a casa da sola. I genitori erano andati a prendere i nonni nella capitale, avrebbero fatto ritorno soltanto l’indomani.
A un paio di isolati dalla mia meta, alla periferia del paese, un brivido freddo lungo la schiena mi provocò una strana sensazione.
La temperatura si stava abbassando velocemente.
Non è un fatto insolito da queste parti, specie se si considera che per tutto il pomeriggio non si era visto un raggio di sole.
Allungai il passo.
Quando giunsi, pochi minuti dopo, davanti al portone dell’abitazione di Angela quasi correndo tra le vie desolate della periferia, mi resi conto che il fiato che usciva dalla mia bocca aveva preso a condensarsi. Come nei mesi invernali, quando la temperatura scende ai livelli minimi.
Un fenomeno davvero anomalo in agosto.
Angela mi chiese come mai fossi turbato e infreddolito. Le risposi di mettere il naso fuori dalla porta.
– È solo per un brusco calo di temperatura che sei tanto sconvolto? – si stupì.
Non fui capace di spiegarle il motivo del mio malessere interiore, e non seppi spiegarlo neanche a me stesso.
Mangiammo un piatto di bucatini cucinati da lei. L’aroma del guanciale rosolato mi restituì il buonumore.
Si era fatto scuro. Uscimmo nella veranda sul retro a prendere una boccata d’aria. Faceva talmente freddo che Angela dovette darmi una felpa del fratello per farmi smettere di battere i denti. Ne indossò una anche lei.
La strana sensazione che avevo provato un paio d’ore prima ritornò prepotente, stavolta la avvertiva anche lei. Mi pregò di accompagnarla dentro. Non si sentiva sicura.
Ci alzammo dal dondolo. Le passai un braccio attorno alle spalle e l’avvicinai a me.
Fu in quel momento che le vedemmo.
– Guarda laggiù, Adriano.
Ci avvicinammo alla balaustra e mi misi a scrutare l’orizzonte in direzione del bosco. Le individuai quasi subito. Piccole luci danzanti che si agitavano nell’aria ferma rischiarando la cupa oscurità del bosco. Ce n’erano di ogni colore. Verdi, gialle, blu e, più di tutte, rosse.
L’esitazione durò un battito d’ali. Scavalcammo la balaustra e ci incamminammo in direzione delle luci.
– Che cosa saranno? – fece Angela. – Non ho mai visto lucciole brillare di quei colori.
– E nemmeno tanto grosse, – risposi, – sembrano champignon.
– Gli champignon volano? – Sorrise e mi strinse la mano.
– Avviciniamoci, voglio vederle meglio.
Ci addentrammo tra i castagni e cominciammo a salire lungo le pendici boscose del monte seguendo i bagliori che, a quanto sembrava, non avevano nessuna intenzione di lasciarsi avvicinare. Ci precedevano di una quindicina di metri mantenendo un’andatura costante e quel loro atteggiamento elusivo.
Non avevamo torce con noi, ma i raggi lunari che dal cielo ormai terso filtravano attraverso il fogliame erano sufficienti a rischiarare i nostri passi. Seguirli non era difficile. Anche perché ogni volta che ci fermavamo a rifiatare si arrestavano anche loro.
Sembrava quasi che volessero essere seguiti.
Poi, di colpo, scomparvero, lasciandoci interdetti in mezzo al nulla. E come se non bastasse sparì anche la luna, coperta da un solitario nuvolone nero.
Ci sedemmo per terra, sul soffice sottobosco. Non si poteva far altro che attendere il riaffacciarsi della luna piena e tornare indietro, a casa di Angela.
Che diamine! non avevo nessuna voglia di lasciar perdere. E neppure Angela. Eravamo troppo curiosi per mollare tutto e andarcene a dormire.
Mi arrampicai su un alto faggio per vedere di rintracciare le lucette che tanto abilmente ci avevano guidato in quel luogo per poi sparire nel buio e lasciarci con un mucchio di domande.
Muoversi alla cieca tra i rami non è semplice, comunque potevo contare su anni di esperienza. Mi sono sempre divertito un sacco a salire sugli alberi, fin da piccolo scavezzacollo qual ero.
Mi guardai attorno e dopo un po’ riuscii a intravederle, nascoste dalla vegetazione agli occhi di osservatori stanti a livello del suolo. A volte è sufficiente avere una prospettiva diversa per venire a capo di una questione.
– Da quassù riesco a vederle, – esclamai, – sono a pochi passi, possiamo raggiungerle anche al buio.
Angela mi invitò a fare silenzio.
– Hai sentito qualcosa?
– Un lamento.
Tornai giù.
La luna scelse proprio quel momento per ripresentarsi.
– Da quale direzione? – chiesi.
– Da quella parte.
– Ma… è proprio verso di là che ho scorto i “funghetti colorati”.
I lamenti erano quelli di Ferruccio, un arzillo ottantenne della combriccola di evergreen che ero solito frequentare nei pomeriggi liberi. Si era slogato una caviglia inciampando su un sasso.
– Si può sapere cosa ci sei venuto a fare di notte nel bosco tutto da solo, alla tua età?
– La stessa cosa che ci siete venuti a fare voi due, suppongo. Ho seguito le “Luci di Natale”. Stavolta non me le voglio perdere.
– Stavolta?
– Te lo spiego dopo, adesso aiutami a rialzarmi, non dobbiamo perderle di vista.
– La tua caviglia è in disordine, non riuscirai a fare molta strada. Torniamo indietro.
– Mi capitò la stessa cosa nel settembre del ’79, poco più che quarantenne. Sai cosa feci allora? Tornai indietro. Sai, invece, cosa farò adesso? Eviterò di commettere lo stesso errore. Voglio vedere “quei cosi” da vicino. Non avrò un’altra occasione.
– Cioè, vorresti dire che quelle strane lucciole erano qui anche quarant’anni fa?
– Possiamo parlarne dopo? Si stanno allontanando.
Angela mise in pratica quanto aveva imparato al corso da infermiera. In due minuti applicò un bendaggio compressivo alla caviglia di Ferruccio utilizzando il rotolo di benda elastica adesiva che quel vecchio marpione, memore di com’erano andate le cose l’ultima volta, aveva infilato nel tascapane assieme a una torcia, una bussola, un telefono cellulare e razioni di emergenza.
Ricominciammo a marciare sorreggendo Ferruccio in mezzo a noi due. La sua determinazione ci aveva commossi al punto da coinvolgerci a livello empatico. Desideravamo aiutarlo a realizzare il sogno che per quasi quarant’anni aveva cullato. Per Angela e me era la cosa che in quel momento contava di più.
– Sapete, – cominciò Ferruccio ansimando per la fatica fintanto che arrancavamo dietro alle luci, – ho trovato menzione di “quei cosi” in una vecchia pergamena del XVII secolo.
– Ci prendi in giro?
– Prima d’ora sono stati avvistati nel V secolo dai romani, nel IX in diverse aree abitate del centro Italia e nel dicembre del 1315 ad Aquila, come si chiamava allora il capoluogo abruzzese.
“Documenti più recenti riportano avvistamenti avvenuti nell’aprile del 1747 dalle popolazioni umbre e marchigiane, tra il 22 maggio e il 1° giugno del 1829 ad Albano Laziale e Marino, il 26 giugno 1899 in Toscana e il 19 luglio dello stesso anno nell’hinterland della capitale.
“Ancora, il giorno di Santo Stefano del ‘27 nella zona dei Colli Albani, il 1° settembre del ’51 a Cessapalombo e nel ’79, come ho già accennato, tra la Valnerina e casa nostra.
– Wow, hai indagato proprio a fondo. Quando ho sentito te e gli altri all’osteria parlare di “quei cosi”, come ti piace chiamarli, ho pensato a uno scherzo.
– Sapete cosa hanno in comune le date e i luoghi che ho snocciolato? Eventi sismici di entità catastrofica che hanno fatto registrare danni materiali ingenti e nessuna o pochissime vittime: certe lucine avevano attirato gli abitanti delle zone colpite in luoghi sicuri.
Quando le luci finalmente si fermarono eravamo saliti di quota di altri due o trecento metri. Una sfacchinata epica in quelle condizioni.
C’erano tutti.
Gli abitanti del paese erano lassù davanti a noi.
Udimmo un boato terrificante, la terra fu scossa con rara violenza. Finimmo gambe all’aria.
Il ricordo più spaventoso di quella notte.
Quando il suolo smise di tremare e il boato si fu spento ci rialzammo in piedi, tutti sani e salvi.
Il paese, giù a valle, era ridotto a un cumulo di macerie, dalla nostra posizione lo si poteva vedere fin troppo bene, rischiarato dalla luce anemica della luna.
Il ricordo più triste.
Tuttavia nei nostri cuori non vi era traccia di disperazione. “Qualcuno” aveva preparato un gran numero di accoglienti casette di legno tra gli alberi, e lo aveva fatto apposta per noi, per l’occorrenza.
Sono certo che abbiate già capito chi.
Un villaggio arboricolo da regno incantato delle fiabe. Un autentico paesaggio natalizio che sembrava uscito fuori dal più tradizionale dei presepi, con tutte quelle lucine colorate intermittenti che svolazzavano febbrili qua e là come un coro di stelle in movimento.
Mancava solo la neve… che non tardò ad arrivare. Proprio così. Larghi fiocchi di neve cominciarono a venire giù lenti e imbiancarono le cime degli alberi.
Scommetto che anche la neve fosse opera loro, di quegli esserini dalla grossa testa stipata dentro un casco trasparente che comunicavano tra loro accendendosi di una moltitudine di colori luminescenti.
Con quei loro corpicini esili, i visetti lieti e sorridenti, le orecchie a punta e gli arti minuscoli sembravano una tribù di folletti dello spazio.
Già, perché è appunto dallo spazio che arrivavano.
Lo capimmo quando scorgemmo sopra le nostre teste la loro astronave. Affusolata e splendente, sembrava proprio la stella cometa che mancava per completare il quadretto.
Ignorando i fatti, penserete che l’opera fosse incompleta. So a cosa vi riferite: l’evento natale.
Non mancò neanche quello.
Faustina, una giovane mamma del paese, diede alla luce dentro una delle capanne la piccola Nadia, un paffuto messaggio di speranza incarnata e vivente, come suggerisce il nome. Avrebbe donato a noi tutti la forza di ricostruire.
E Ferruccio?
Non credo che lo rivedremo ma, di certo, è l’uomo più felice dell’Universo… o almeno è ciò che lasciava presagire l’espressione dipinta sul suo volto ringiovanito quando salì saltellando come un ragazzino sulla nave-cometa e il portello si richiuse alle sue spalle.
Il mezzo schizzò via nello spazio diretto chissà dove. Diretto laddove vi sia qualcuno necessitante del loro altruismo, di quei piccoli, generosi Lumen Natalis.
K. G. Sage,
20/10/2018
(*) qui in bottega sappiamo chi è K. G. Sage ma per il momento non ve lo diremo, eh-eh. L’immagine – scelta dalla “bottega” – è del nostro amato Jacek Yerka.
Purtroppo per loro, anche in Bottega stanno imparando a conoscermi 😀 😀 😀
2 volte grazie, Daniele (e anche agli altri “ragazzi” che sotto l’abile coordinamento del mastro bottegaio mandano avanti l’attività): per lo spazio gentilmente concessomi nella rubrica del sabato e per condividere con il sottoscritto il segretuccio che si cela dietro la mia identità 😉
E’ magico condividere i piccoli segreti.
P.S.: L’immagine di Jacek Yerka è una perla smeraldina.
Un bel racconto. La figura di Ferruccio molto empatica e anche le luci sanno di speranza. Grazie
Grazie a te, Elena 🙂
In un’epoca nella quale assistiamo a una recrudescenza dell’oscurantismo che vede addirittura il ritorno dei terrapiattisti ( 😀 😀 😀 ) 2 dita di speranza e una spruzzata di empatia sono forse l’elisir in grado di riaccendere un sentimento illuminato.