I muri eretti nel Mediterraneo

Un appello: lettera aperta all’Unione europea (firmata da 548 docenti e ricercatori di tutto il mondo) per l’ingresso libero dei richiedenti asilo e per fermare “la soluzione militare” che lede il diritto alla mobilità esercitato dai migranti

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I leader politici europei hanno annunciato che la loro risposta alla sconcertante perdita di vite fra i migranti che attraversano il Mediterraneo con imbarcazioni non adatte alla navigazione sarà l’uso della forza per rompere la cosiddetta «rete» che opera in Libia e organizza i pericolosi attraversamenti. Come? L’11 maggio, il capo della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, ha dichiarato: «Nessuno pensa di bombardare. Parlo di un’operazione navale». Ma due giorni dopo il Guardian ha pubblicato un documento strategico che è trapelato riguardante una missione europea nel Mediterraneo e nelle acque territoriali libiche proponendo una campagna aerea e navale. Questo – dice il documento – porterà ad alcuni «danni collaterali». In altre parole, adulti e bambini a bordo o intenti a salire sulle imbarcazioni attaccate potrebbero essere uccisi. Con o senza bombe, questo «danno collaterale» è un già ben conosciuto prodotto delle misure impiegate dall’Unione Europea per respingere, scoraggiare e far cambiare rotta ai migranti, inclusi i richiedenti asilo.

Dove risiede la giustificazione morale perché alcune delle nazioni più ricche del mondo impieghino la loro forza navale e tecnologica in un modo che porta alla morte di uomini, donne e bambini provenienti da alcune delle regioni più povere e devastate dalla guerra del mondo? Una pericolosa perversione storica è stata fatta circolare per rispondere a questa domanda.

In anni recenti, le politiche sui movimenti non autorizzati attraverso le frontiere hanno portato a una distinzione fra le attività degli «intermediari di persone» (people smugglers) e dei «trafficanti di esseri umani» (human traffickers). Fare da intermediario implica un accordo volontario e consensuale mentre trafficare è considerata una forma di coercizione e inganno che è stata ripetutamente collegata alla tratta degli schiavi da politici, giornalisti e addirittura da alcuni attivisti contro la schiavitù contemporanea. I pericoli di quest’analogia sono ora resi manifesti dall’uso intercambiabile dei termini «intermediario» e «trafficante» riguardo ai migranti che attraversano il Mediterraneo. Ed è questa elisione che rende possibile ai leader dell’Unione Europea discutere l’uso della forza militare sulle coste dell’Africa settentrionale come se questa fosse una necessità morale. «I trafficanti di esseri umani sono i trafficanti di schiavi del ventunesimo secolo, e devono essere consegnati alla giustizia» ha scritto recentemente sul «New York Times» il primo ministro italiano Matteo Renzi. Quando il problema è posto in questo modo, la loro promessa di «identificare, catturare e distruggere» le imbarcazioni di chi fa muovere i migranti appare come una decisione dura obbligata dall’apparizione improvvisa di un male molto più grande – una moderna tratta degli schiavi.
Ma ciò è palesemente falso e opportunista. Gli studi accademici sulla storia della schiavitù rendono dolorosamente chiaro che ciò che sta succedendo nel Mediterraneo oggi non somiglia nemmeno lontanamente alla tratta transatlantica degli schiavi. Gli africani resi in schiavitù non volevano spostarsi. Erano tenuti in celle prima di essere incatenati e caricati sulle navi. Doveva essere loro impedita la scelta del suicidio alla prospettiva di essere trasportati forzatamente. Il trasporto conduceva a un solo e tremendo esito: la schiavitù.

Oggi, chi intraprende un viaggio verso l’Europa vuole spostarsi. Se fosse libero di farlo utilizzerebbe i voli che le compagnie aeree low-cost operano tra il Nord Africa e l’Europa. E non sono gli «schiavisti» o i «trafficanti» a impedire l’accesso a questo itinerario privo di pericoli.

È vero che chi vuole migrare è talvolta costretto a terribili condizioni in Libia, ma non in celle per poi essere forzatamente trasportati come schiavi. Piuttosto, molti sono rinchiusi in centri di detenzione per immigrati, finanziati in parte dall’Unione Europea, dove sia adulti che bambini sono a rischio di violenze, inclusa la fustigazione, le botte e la tortura. E il risultato per chi riesce a imbarcarsi è incerto. Alcuni muoiono in viaggio, alcuni sopravvivono e vengono sfruttati e abusati nei luoghi di arrivo. Ma gli altri che sopravvivono si assicurano per lo meno una possibilità di accedere a diritti, protezione, riunificazione familiare, educazione, lavoro, libertà dalla persecuzione.

Questo non è l’equivalente contemporaneo della tratta transatlantica degli schiavi. Provare a fermarla con la forza militare non è rivestire i panni nobili contro il male della schiavitù, o anche contro il «traffico». È semplicemente continuare una lunga tradizione in cui gli Stati, inclusi gli Stati schiavisti del diciottesimo e diciannovesimo secolo, usano la violenza per impedire che alcuni gruppi di esseri umani si muovano liberamente.
Questa – dovrebbe essere ricordato – è una tradizione che ha trovato il suo culmine nella nota Conferenza di Berlino del 1885 che autorizzò la divisione e conquista dell’Africa da parte dei poteri europei, giustificate dalla volontà di terminare la cosiddetta «schiavitù araba». Nei due decenni che seguirono, milioni di africani persero la vita, fra cui moltissimi congolesi sotto la tutela del grande «filantropo», il re del Belgio Leopoldo.

E oggi il modo in cui gli Stati europei (e l’Australia) stanno proseguendo questa tradizione è diventato un esempio seguito in tutto il mondo, come evidenziato dallo spettacolo scioccante dei rifugiati Rohingya che tentano di scappare dalla persecuzione Myanmar in Birmania ma non è loro permesso di sbarcare in Tailandia, Malesia e Indonesia e sono lasciati morire in mezzo al mare.

Non c’è alcuna giustificazione morale per misure che portano alla morte di donne, uomini e bambini pacifici, vittime di tortura, e che scappano da persecuzioni e guerre. I leader e i popoli europei devono ricordare la propria storia, recente e passata, e le responsabilità che l’Europa porta per quei corpi nel Mediterraneo e per quelle per­sone sulle navi. Chiediamo che il maggior numero possibile di rifugiati sia reinsediato in Europa e che le barriere, costruite per proteggere i più ricchi, siano smantellate.

Chiediamo che i leader politici europei smettano di abusare della storia della schiavitù transatlantica per legittimare azioni militari contro i migranti, e che invece agiscano sulla base delle domande di libertà di movimento o di «diritto alla locomozione», espresso dagli attiivisti afro-americani contro la schiavitù nel diciannovesimo secolo.

Chi vuol aderire all’appello può mandare una mail all’indirizzo: beyond.salvery@opendemocracy.net con il soggetto «SIGN».

 

Redazione
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