I primi italiani ribelli da Peschiera del Garda a Dachau

di MAURO SONZINI (*)

L’8 settembre 1943 detenuti militari e carcerieri di Peschiera del Garda si ribellano, rifiutano la Rsi e diventano i primi italiani in campo di concentramento

La guerra è follia e chi a proprie spese rifiuta di rendersi complice, avrebbe diritto a considerazione, specie quando la follia divora oltre 50 milioni di vite. Invece nella storia a volte si levano veli di foschia e per controversi motivi discernere è impossibile. Solo che, mentre fra i monti prima o poi il colpo d’aria spazza la foschia, nella storia può tardar secoli e non lasciar tracce. Essi però “vantano” primati di resistenza in campo di concentramento cui spesso sommano precedenti detenzioni rimediate quando, in nome di razzismo e sopraffazione, il fanatismo fascista ci spinse ad aggredire popoli liberi. Pur ribelli, non son però partigiani, nemmeno IMI pur se rifiutano la Repubblica Sociale, né deportati razziali, politici, religiosi, civili, ma criminali. Criminali alcuni però non sono ma personale in servizio e altri non son Italiani ma stranieri costretti a combattere per noi invasori. E c’è chi neppur c’entra. 74 anni dopo le ricostruzioni latitano, le testimonianze raramente collimano: fra rimozioni, reticenze e tracce erose dal tempo il colpo d’aria tarda e la foschia impedisce di discernere.

La XXX maggio di Peschiera del Garda è caserma ricavata dall’ottocentesco ospedale austriaco a prova di bomba che nel 1942-43 la rivolta al forte Boccea di Roma e l’avanzata angloamericana verso il carcere di Gaeta costringono d’urgenza ad adattare a reclusorio militare. È però epoca singolare: tra ladruncoli e violenti vi sono tanti che la follia bellica rende disertori o renitenti, insubordinati o autolesionisti. Fra loro vi son poi reduci di Spagna come l’aviatore folgaretano Giovanni Spilzi arrestato dai nazisti in Francia e consegnato ai fascisti, o oppositori come il comunista cormonese Bruno Nicolaugic, già condannato dal tribunale speciale a sei anni, che per sfuggir alla morte in Africa si fa dare quattro anni mettendo mani addosso ai carabinieri. Intanto il tempo profila epocali rivolgimenti: Stalingrado, El Alamein, sbarchi alleati, 25 luglio, 45 giorni, armistizio, occupazione nazista, fuga di re, corte, governo e generali e, perché no, Resistenza.

Le campane che all’armistizio rintoccano guerra finita, in carcere a Peschiera suonano vigilia di libertà: l’ufficiale cappellano don Sandro Mettigli assicura che tutti usciranno. “In qualche modo i nostri reati son politici, non siam delinquenti si convince il disfattista novarese Marco Apruzzese. Già dalle 22 dell’8 settembre su loro però incombe il fiato nazista. Una delegazione di detenuti s’offre al comandante tenente colonnello Strada:Se arrivano i tedeschi, dateci le armi: combatteremo per il nostro Paese. Se dobbiam morire, sia da soldati!”. Non è coraggio ma rassegnata consapevolezza della propria condizione. Nobili parole in bocca a reclusi per codardìa dinanzi all’impunita codardìa di tanti ufficiali che in quei giorni scelsero fuga o resa senza combattere o persin passaggio al nemico in cambio d’incarichi, condannando al dramma i propri subalterni. Il colonnello vuol forse farsi incaricare di vigilare gli infidi criminali: rinforza i cancelli con catene e aumenta la sorveglianza. La tensione esplode: al mattino del 9 settembre la massa di detenuti forza gli usci. “Ma il cancello grande non cedette all’assalto disordinato – ricostruisce lo studioso Giovanni Melodia, uno dei pochi a essersene occupato – mentre i pochissimi ch’erano riusciti a varcare quello secondario, furono quasi tutti bloccati dai drappelli attorno alla fortezza o ripresi poco dopo”.

Da Verona ecco i nazisti. All’inizio due soli carri armati: sopraffarli sarebbe un gioco se si armassero i militari e ancor più gli oltre 1500 reclusi che tornano a offrirsi. Primi a rimetterci sono invece soldati e graduati: “Ci han disarmato peggio di detenuti” lamenta un maresciallo. Con lati grotteschi: “Voialtri adesso siete detenuti mentre io son libero e vi porto il mangiare in cella” li burla il detenuto Marco Apruzzese che ai secondini chiusi nei magazzini reca, scortato da nazisti, la minestra che ha cucinato.

Nei giorni a seguire arrivano altri detenuti. Arriva il paracadutista torinese Antonio Temporini: prima di rientrar a casa voleva passare le sue armi ai partigiani. Dal carcere Averof di Atene giunge un gruppo della divisione Cagliari che ha rifiutato la proposta nazista di tornar al fronte: di guerra non vogliono più saperne. Minacciano di spedirli in Germania: “Quand’è finita, torno a casa!” valuta il torinese Giovanni Fioris. Ai nazisti bastano pochi giorni a definire le posizioni: asociali per i campi del Reich. “Ragazzi che più o meno capiscon niente” blatera ancora il colonnello Strada. Essendo militari i nazisti offrono d’impegnarsi in loro vece a difender il fronte, direttamente nelle loro armate o in quelle che il regime neofascista allestirà col loro aiuto. Finir prigionieri però pare condizione conveniente: la quasi totalità dei detenuti declina e i nazisti spediscono pure i pochi favorevoli. Così alle 10 del 20 settembre due fila di SS a mitra spianati scortano i detenuti in stazione dove li piombano in carri bestiame sotto gli sguardi curiosi e crucciati degli arilicensi. “Dalla mattina verso mezzogiorno che ci avevan fatto salire” rammenta l’insubordinato cerignolese Michele Lupoli, si fa sera quando lento il treno s’avvia. Cade qualche foglietto: “Cara mamma, son prigioniero dei tedeschi e vado in Germania”. Malgrado le interruzioni esso pure viaggerà centinaia di chilometri fino a casa Fioris.

Verso il Brennero il treno sosta a Verona: sui carri sale una ventina di giovani giunti dal forte S. Leonardo tra cui il milanese Ambrogio Ciceri, fermato in stazione il 10 settembre in partenza fra i ribelli in val Trompia: anche lui ha rifiutato l’esercito RSI. Finché il convoglio, scortato davanti e dietro, arranca in val d’Adige, tentativi d’evasione si susseguono da respingenti e sfiatatoi o svellendo assi dal fondo soprattutto in rallentamenti o soste prolungate: fra tanti finiti tra le ruote, contro pali della luce o stesi da raffiche naziste, forse qualcuno ce la fa. Causa discesa e terra straniera, oltre Brennero le fughe cessano. All’alba del 22 settembre ecco Dachau: tra cani lupo e SS i 1800 prigionieri si fanno a piedi sotto la pioggia altri tre chilometri sino al campo. La prima impressione è positiva: “Tutto ordinato, fiori, piante, baracche, forse c’è la protezione della Croce Rossa”. Oltre la scritta “Arbeit macht freisono i primi italiani a entrare in campo di concentramento.

Cinque minuti dopo è follia: ordine di svestirsi totalmente, lì, sul piazzale, all’aperto, sotto la pioggia. E a lungo restano in attesa di chissà cosa: operazioni di schedatura, depilazione, disinfezione e doccia. Poi qualcuno porta via le loro cose. Per non farsele prendere e difendersi dal freddo, ne fanno piccoli falò: Abbiam acceso camicie, un po’ di fuoco per scaldarci” ricorda Michele Lupoli. Dai fagotti arrivano sui fuochi portafogli, fazzoletti, mutande, maglie. “Che coraggio gli italiani!” apprezzano altri prigionieri e uno spagnolo li avvisa: “Attenti, rischiate la fucilazione!”. Poco dopo con le prime nerbate il kommandoführer li dichiara sabotatori con tanto di triangolo nero. Botte, numeri, vesti, castelli, sbobba: tutto è assurdo, punizioni come sistema lager. Ma non è che l’inizio. Pochi giorni dopo li invitano a far rapporto su ciò che non va: si fa avanti una dozzina d’audaci. Senza conferire tornano dopo ventiquattr’ore di stehzellen,digiuni in piedi in cunicoli verticali stretti e chiusi come bare, così angusti da neppur star rannicchiati”. Poi fan loro calare i calzoni, li chinano sul tavolo e, a partire dal bersagliere romano capodrappello, ricevono ognuno 25 nerbate perché “le lagnanze son manifestamente infondate”. D’altronde manifestamente son presi di mira: ogni notte, racconta Melodia, li fanno uscir ore all’addiaccio inquadrati nudi sull’attenti mentre in baracca tutto va in aria in cerca d’armi poiché, dicono, stanno per rivoltarsi come già due volte in Italia. Tanto accanimento accende però simpatie e altri prigionieri arrivano davanti al block a incoraggiarli: “Garibaldi! Garibaldi!”.

Banditen”, “faschisten”, “Badoglio”: così apostrofato il 13 ottobre 1943 entra a Dachau il secondo gruppo di deportati italiani. Il gruppo di Peschiera s’avvicina solo dopo ore: “Erano a Dachau da sole tre settimane e il loro aspetto nulla aveva più d’umano, ridotti ormai a povere vite, magri, ingobbiti dalle botte, sporchi e vestiti di stracci” annota Giovanni Melodia giunto quel giorno. Per molti di loro quel giorno iniziano i trasporti a Flossenbürg, Sachsenhausen, Buchenwald, Mauthausen, Natzweiler, Majdanek e agli arbeitskommando esterni. Uno è Kottern, soli 70 chilometri dal confine svizzero: s’assemblano motori per cacciabombardieri Messerschmitt. La frustrazione per quanto subìto, l’angoscia per l’inverno alle porte, il terrore per ciò che li attende e l’ebbrezza del fuori lager inducono il 25 ottobre il veronese Umberto Gioco e il trentino Mario Moranduzzo a tentar la fuga. L’indomani sono ripresi. La punizione è atroce: oltre 250 nerbate li riducono in fin di vita. Condannato a suo trempo per ripetute fughe dalla morosa, il ventenne disertore di Castello Tesino Mario Moranduzzo è così a inizio novembre ‘43 il primo caduto del gruppo. A Dachau come altrove altri seguiranno, come il cappellano don Mettigli morto a Flossenbürg il 18 febbraio 1944 e lo “spagnolo” Spilzi morto a Ohrdruf il 21 gennaio 1945.

A Dachau gli americani liberatori arrivano solo 18 mesi dopo, alle 17,15 di domenica 29 aprile ‘45. Il primo deportato accorso ai cancelli finisce freddato ma centinaia subito s’accalcano urlanti. Le guardie s’arrendono, l’incontenibile gioia solleva l’equipaggio d’una jeep fra cui la bionda inviata Marguerite Higgins. La libertà però non placa il dramma: a Dachau come altrove, per i postumi dell’immane tortura e l’impreparazione a tanta indigenza fisica e morale, nei giorni seguenti muoiono molti, anche del gruppo di Peschiera, come lo sloveno Carlo Gandolfi, il carinese Gaetano Balsamo, l’adrense Attilio Mena, il bolognese di Marzabotto Ettore Leoni, il romano Vittorio Aldrovandi. Poi, pian piano, inizia il rientro. Ma il dramma prosegue: muoiono altri, alcuni appena rientrati come il monselicese Giannino Garbo, altri anni dopo senza riprendersi come il vogherese Angelo Arcalini. Il dramma indossa poi nuove vesti e nuovi nomi: reinserimento e riabilitazione. Alcuni come Marco Apruzzese tornano nella propria azienda, altri come Vincenzo Forino trovano lavoro grazie a quote imposte di deportati e partigiani. Tutti si scoprono deboli, manifestano malanni e scompensi, devono farsi adibire a mansioni leggere con frustrazioni d’attitudini e competenze. Alcuni come Vincenzo Forino ne escono depressi, altri come Giovanni Fioris soffrono incubi e squilibri. Incomprensioni, disagi, litigi con figli e mogli: è dura anche in famiglia. Ma sui campioni di resistenza alla follia bellica gravano soprattutto le condanne fasciste che negano accesso a benefici: in quanto criminali non avrebbero “presupposto ideologico”, come ribadito ancora nel 1986 alla Camera nel caso dell’abruzzese Fiorello Vignetti condannato a oltre 10 anni per non esser subito rientrato al corpo. Nonostante la resistenza alla follia bellica, nonostante il no alla RSI, nonostante la resistenza alla follia nazista, è ancora tortura, tacitamente comminata per insensibilità e pressappochismo. E, quasi neppur siano stati deportati, negli anni la tortura si reitera su richieste di pensione, invalidità e vitalizi.

Nessuno di loro è forse oggi vivo ma ignota in gran parte resta la loro storia: le testimonianze raramente collimano, le ricostruzioni latitano. Non resta che attendere che finalmente il colpo d’aria giunga a restituir valore e senso a tale irriducibile resistenza alla follia della guerra e del nazifascismo.

(*) Mauro Sonzini, studioso di Resistenza e Democrazia, ha pubblicato “Abbracciati per sempre. Il rastrellamento del maggio 1944 nelle valli Sangone, Susa e Chisone” (Gribaudo – 2004), “La lunga strada verso la pace. Candiolo dal fascismo alla Liberazione” (Comune di Candiolo – 2006), “Uomini in mezzo al delirio. Il fascismo, la guerra e la lotta di Liberazione. Pinasca e Inverso Pinasca” (L.A.R. – 2013) e ha curato il volume di Lidia Lazzero “Da Rivoli verso il mondo. Lidia Lazzero, partigiana, sindacalista, antifascista” (Comune di Rivoli – 2008). Per la Provincia di Torino è stato autore del dossier di candidatura per la medaglia d’oro al merito civile per la lotta di Resistenza (2005), progettista e segretario del Comitato Provinciale per la valorizzazione della Resistenza, dei princìpi della Costituzione, della Democrazia, della Pace, della Solidarietà e dei Diritti Umani. È ideatore e responsabile ricerca del Centro Documentazione Resistenza. Attualmente vive a Voghera.

 

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