I “rospi della strada”

di Antonella Rita Roscilli (*)

Bambini italiani emigranti nelle Americhe a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Mortalità in alcuni quartieri di New York tra gli italiani al di sotto dei 5 anni: 92,2 per mille. A São Paulo, dove la popolazione operaia era quasi totalmente italiana, i bimbi che lavoravano nel tessile raggiungevano il 38% degli occupati

Erano tanti i bambini che si mischiavano alla folla di adulti, legali e clandestini, e partivano in viaggi estenuanti su quelle navi dirette al di là dell’Oceano. Solo per ricordare un caso, nella primavera del 1907, sul piroscafo Ravenna che doveva raggiungere l’Argentina, a causa di un’epidemia di morbillo si ammalò circa un terzo dei bambini. Degli 80 decessi complessivi, 65 furono neonati e bambini.

Anche nelle Americhe, presentate come il paradiso terrestre da agenti senza scrupoli, nelle vetrerie lavoravano bambini e ragazzi italiani tra i 6 e i 15 anni. Lavoravano per due o tre anni e, se non morivano prima, venivano rispediti alla famiglia, ormai minati dalla tubercolosi. “Disgraziatamente ho dovuto personalmente constatare che la vergogna da me osservata in molte vetrerie francesi esiste anche in questo distretto industriale ove centinaia di ragazzi italiani, senza alcun dubbio minori di 13 anni, sono adibiti a servizi assolutamente dannosi alla salute”, scriveva nel 1906 Lionello Scelsi, viceconsole italiano a Pittsburgh (in Emigrazione e Colonie: Raccolta di rapporti dei rr. Agenti diplomatici e consolari, vol 3, Parte 3, p. 191. Roma).

Negli Stati Uniti, Canada, Argentina e Brasile, anche i mestieri di strada quali venditori di giornali, suonatori e lustrascarpe rimasero per molto tempo appannaggio dei bambini e ragazzi figli di immigrati italiani. Per le famiglie povere, la strada rimaneva l’unica possibilità per migliorare il magro bilancio familiare e i padroni ne approfittavano anche per mancanza di leggi. Solo nel 1876 negli Stati Uniti entrò in vigore la legge che condannava alla prigione coloro che si servissero di minori di 16 anni per il mestiere di suonatore. All’inizio del secolo XX, tra i 5000 piccoli venditori di giornali di New York, erano centinaia quelli che vivevano e dormivano per strada. Erano definiti “rospi della strada” e si attribuiva loro anche la maggior parte degli atti di piccola criminalità. Secondo un’inchiesta del 1904 tra i detenuti minorenni, i ragazzi italiani rappresentavano oltre il 28%, seguiti da russi, tedeschi e canadesi. Si trattava di reati di lieve entità come ubriachezza, vagabondaggio e piccoli furti. Molti di essi non andavano a scuola o abbandonavano la scuola tra la prima e la terza elementare.

I ragazzi crescevano in fretta e, spesso, dovevano contare solamente sulle loro capacità. Ricordiamo per esempio quei ragazzini lustrascarpe sui traghetti che nel 1899 si opposero all’ introduzione di un registratore di cassa dotato di campanello per il controllo degli incassi: “Non siamo scimmie ammaestrate che suonano la campanella”, protestarono i piccoli minacciando di gettare in acqua gli strumenti di lavoro. La vertenza si concluse con un aumento della paga. Erano costretti a vivere esperienze che presto li rendevano adulti esponendoli ad abusi, violenze e malattie.

Molti genitori provenivano da zone rurali italiane e nelle grandi città si sentivano impotenti a proteggere i figli. Specie i più piccoli lavoravano in casa aiutando le mamme a confezionare abiti, fiori artificiali, ombrelli. Da un’inchiesta condotta nell’inverno 1906-7 risultò che dei 558 minorenni trovati al lavoro nelle abitazioni di alcuni quartieri di New York 406 erano bambine di età compresa tra i 7 e 13 anni. Le conseguenze sulla salute dei bambini del lavoro precoce in ambienti malsani erano gravissime. Secondo i risultati di una inchiesta sulla mortalità in alcuni quartieri di New York, pubblicata nel 1908 da Antonio Stella, tra i bambini italiani al di sotto dei 5 anni, raggiungeva il 92,2 per mille. La media cittadina per i bambini della stessa età era del 51,5 per mille. Morbillo e tubercolosi mietevano vittime.

Nell’emigrazione stagionale dalla Pennsylvania al New Hersey, per la raccolta dei prodotti agricoli, i bambini e le bambine venivano spinti al lavoro addirittura dall’età di 3 anni. Nel 1910 in 6 campi di mirtilli furono trovati 603 bambini di età inferiore agli 11 anni.

Il Comitato Nazionale per il Lavoro Minorile (NCLC – National Child Labor Committee) venne fondato nel 1904 con l’obiettivo di “promuovere i diritti, la consapevolezza, la dignità, il benessere e l’educazione dei bambini e dei giovani”, e principalmente porre fine al lavoro minorile. Tra le varie iniziative documentò con foto la situazione dei tanti bambini sfruttati, e molto spesso maltrattati, in tutti gli Stati Uniti. Così nel 1905 venne approvata una legge che stabiliva l’ età minima per l’ingresso al lavoro a 14 anni, ma ancora nel 1908 a Sharpsburg ogni soffiatore continuava ad avere due o tre minorenni che lo assistevano nel lavoro ed erano utilizzati anche nei lavori notturni. La giornata lavorativa si componeva di 10 o 14 ore con pause minime durante il turno. Talvolta i bambini erano obbligati a dormire nei sacchi all’interno degli stabilimenti. Molti venivano licenziati prima dei 16 anni e neppure divenivano apprendisti.

Nelle fonderie i piccoli immigrati italiani erano adibiti alla manovra delle condutture che trasportavano il metallo fuso e le ustioni erano all’ordine del giorno. Nei distretti minerari della Pennsylvania, dove il 75% della mano d’opera minorile era immigrata (nel 1905 erano oltre 27.000), i ragazzi italiani venivano avviati al lavoro a un’età inferiore rispetto alle altre nazionalità. Anche nell’America Latina, soprattutto in Argentina e in Brasile ritroviamo ragazzi minorenni immigrati dall’Italia con le famiglie o da soli.

Non possiamo dimenticare, tra i casi letterari ispirati alla realtà dell’epoca, il racconto Dagli Appennini alle Ande, che fa parte del libro Cuore, scritto da Edmondo de Amicis nel 1889. Un volume che, seppur discusso per tanti motivi, pone al centro i ragazzini e il loro obbligo a divenire precocemente adulti per vivere, spesso senza una vera famiglia alle spalle. Quasi tutti i personaggi – la piccola vedetta lombarda, il tamburino sardo, lo scrivano fiorentino – sono bambini cresciuti in fretta. Tra loro c’è il piccolo Marco che si imbarca da solo al porto di Genova alla volta di Buenos Aires per raggiungere sua madre, emigrata in Argentina per lavoro.

Le condizioni di vita e lavoro dei minorenni italiani che emigravano in America Latina sono ancora meno note di quelle degli Stati Uniti. Il tema fu praticamente ignorato dalle relazioni consolari e le rilevazioni statistiche non li distinguono per età, né per nazionalità. Ma li ritroviamo presenti in molte foto d’epoca, nei romanzi e nelle testimonianze di tanti anziani che mai hanno potuto vivere il diritto inalienabile all’infanzia.

In Argentina i bambini aiutavano nella preparazione dei terreni e affiancavano i “peones” al momento della raccolta. Avviati al lavoro dei campi all’età di 7/8 anni, imparavano ad andare a cavallo molto presto. In città erano spesso adibiti a commessi e garzoni. A Buenos Aires, nel 1904, si registrarono 12.742 minorenni, di cui il 44% nelle attività commerciali. Oltre la metà degli esercizi commerciali della capitale erano gestiti da italiani, pertanto probabilmente in maggioranza si trattava dei loro figli. Nel settore tessile e nell’abbigliamento, nell’industria del vetro, nelle fabbriche di fiammiferi, il lavoro si protraeva fino alle 10 ore giornaliere. L’età di ingresso al lavoro era precoce 8/10 anni.

Lo sfruttamento del lavoro minorile era ancora più duro in Brasile sia nell’agricoltura che nell’industria. L’abolizione della schiavitù avvenne nel 1888 e immediatamente dopo venne incentivato l’arrivo degli stranieri. L’emigrazione italiana in massa ebbe luogo subito. Ogni settore di lavoro aveva allargato la richiesta dei lavoratori ragazzi. Le famiglie numerose erano le più ricercate nello stato di São Paolo perché, nelle piantagioni di caffè, uomini e donne venivano impiegati fin dall’età di 12 anni. Il ricavo monetario annuale del colono dipendeva dalla mole di lavoro svolto, scandito dalla campana e sorvegliato nelle piantagioni da squadre armate. Mancavano strade, scuole, occasioni di socializzazione. Capitava anche che i figli dei coloni venissero tenuti in ostaggio finché questi non avesse saldato eventuali debiti col fazendeiro che spesso aveva finanziato il viaggio dei coloni dall’Italia.

Nelle città non andava meglio. Nel settore tessile un terzo della mano d’opera era composta da bambini daí 7 ai 15 anni. Nella città di São Paulo, dove la popolazione operaia era quasi totalmente italiana, l’uso dei bambini nel tessile era cosi sistematico (38% degli occupati) che alcuni stabilimenti, come quello di Francesco Matarazzo, un salernitano che in Brasile sarebbe diventato immensamente ricco e avrebbe ricevuto il titolo di “conte Francisco”, avevano macchinari di dimensioni ridotte, adattati a statura e mani infantili. Ricorda la memoralista brasiliana italodiscendente Zélia Gattai Amado (1916-2008): “Mia mamma Angelina era figlia di immigrati. Fin dall’età di 7 anni lavorava a São Paulo in una fabbrica di tessuti. Doveva girare una manovella per tutto il giorno” (Roscilli, 2006, p. 74).

Orari interminabili, infortuni, percosse, lavoro estenuante in capannoni in cui mancava igiene. Ne ritroviamo testimonianze nelle foto dell’epoca che sempre, ritraggono bambine e bambini accanto ad adulti, uomini e anche molte donne, durante il lavoro. Tutti loro hanno contribuito a sviluppare i Paesi che li hanno accolti. Volti stanchi, spesso tristi, distanti dall’Eden a cielo aperto, quell’immagine falsa che veniva venduta da agenti senza scrupoli e interessati solo a reperire emigranti e a caricarli su navi, spesso vere e proprie “carrette del mare”.

(*) ripreso da “Patria Indipendente” (di ANPI nazionale): Antonella Rita Roscilli è giornalista brasilianista, scrittrice e traduttrice

 

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