I segreti di cui abbiamo bisogno

 Barbara Bonomi Romagnoli sul romanzo di Elvira Seminara

Arrivi alla fine del romanzo e la domanda sorge spontanea: perché abbiamo bisogno di segreti? Elvira Seminara – giornalista e scrittrice, autrice del divertente e vivace «I segreti del giovedì sera» [Einaudi, 2020] – è sorpresa e ride: «Non mi è stata mai posta questa domanda, non ci avevo mai pensato in questi termini. Ne abbiamo bisogno perché tutto è troppo manifesto, esibito, senza la possibilità di avere qualcosa di preservabile dall’esibizione. Ne abbiamo sempre meno di segreti e invece cerchiamoli, anche con noi stessi. I segreti abitano uno spazio ambivalente e misterioso, il più raro che esista perché apre allo spazio necessario del dubbio». E della penombra, che forse tutte noi in fondo reclamiamo, per riprendere fiato e ridere di gusto ogni volta che si può. Soprattutto quando si arriva a un certa età di mezzo, fra i 50 e i 60, un po’ depresse e un po’ disincantate, eppure vive. E con la voglia di vivere, nonostante tutto. Per questo un gruppo di amiche e amici si incontra, insieme o anche solo due a due, come racconta la voce narrante Elvis, alter ego dell’autrice e trait d’union della compagnia, che funziona come una sostanza reagente rispetto agli altri personaggi: è colei che fa parlare in un intreccio di elementi biografici e di escamotages narrativi fra un capitolo e l’altro. Donne e uomini si ritrovano in un circolo degli affetti, per dibattere di piccole cose del quotidiano e dei massimi sistemi, per condividere anche solo in parte alcuni segreti, consapevoli di essere su una soglia pericolante: quella dell’età, del tempo che passa, della Sicilia in cui si abita. E ancora la soglia dello sguardo dalla costa, che sorregge quando si ha paura di perdere l’orizzonte e al tempo stesso si ha un senso febbrile per il futuro, perché a voler essere sinceri come uno dei protagonisti «noi adulti proviamo una schifosa invidia per i giovani, un’ambigua e languorosa invidia, ma per accettarla la convertiamo prima in autoindulgenza e poi in un sentire più nobile e sociocompatibile, chiamato trasmissione di saperi». Su questo non ha dubbi Seminara: «l’invidia esiste anche se ipocritamente diciamo di no, per questo Elvis, che sono io, dice quello che nella vita reale ci nascondiamo. Non amo la retorica o il rimpianto per il passato, e non nego questa forma di gelosia per chi è più giovane di noi, che non significa regredire ma voler restare giovani nel tempo». Per questo tutte le voci che si rincorrono nel testo in un flusso veloce di parole, rapido come il modo di parlare dell’autrice, tengono insieme il peso specifico dell’età adulta e l’ironia e la leggerezza di chi conosce, abbastanza bene, i propri limiti e sa quanto possono pesare dolori e delusioni, lutti e separazioni. Sanno che non è possibile salvarsi da soli, che abbiamo bisogno delle relazioni, anche quelle incerte o casuali del sorriso che ti rivolge il panettiere perché non possiamo non rifletterci nello sguardo delle altre e degli altri, ed è sano pensarlo, soprattutto nel tempo pandemico in cui indossiamo la mascherina per entrambi, per me e per te, per tutti noi. E per la città che, pagina dopo pagina, vorremmo raggiungere in un balzo, quella Catania descritta nella sua ambivalenza e nei suoi colori, nei sensi che stimola soprattutto a novembre, quando «nei trenta giorni di cui dispone, è capace di ondeggiare a caso dai dodici ai trenta gradi, e può capitare che domenica fai una nuotata e lunedí un salto sulla prima neve dell’Etna». Pur non sentendosi “siciliana” in senso classico, Seminara in questo romanzo narra le siciliane e i siciliani a tutto tondo, li conosce e vuole loro bene, al punto da pensare che «quando un giorno improvvisamente provi nostalgia dei tuoi amici, anche se sono davanti a te, se li vedi ridere e provi tenerezza, poi gelosia e colpevolezza, e poi apprensione come se fossero in pericolo, in pericolo di felicità, lontani e intimi come mai, vuol dire solo una cosa, che quella storia sta finendo. E io devo prepararmi, allestire un congedo che non sia una fine». E infatti non c’è una fine in questo romanzo, ma solo un ciuffo di capelli che spunta da un basco, quasi a voler dare aria al prossimo segreto.

 

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