I senza sogni e la rivoluzione

recensione al romanzo «Ferro sette» di Francesco Troccoli

Tobruk: «un uomo che non aveva sogni e non voleva imparare ad averne», lui ha sempre saputo che «non si può cambiare il mondo». Ma in un pericoloso passaggio della sua vita, scopre – non prima di aver sbattuto la testa e l’ego contro molti muri – «che l’essere umano è reso migliore dai sogni». La sua storia è al centro di «Ferro sette», romanzo d’esordio di Francesco Troccoli (Armando Curcio editore: 320 pagine per 15.90 euri) che è uscito da pochi giorni.

Siamo nelle viscere di un pianeta minerario, dove il lavoro schiavistico è la regola o, come forse direbbe Mario Monti in un soprassalto di sincerità, dove «secondo gli economisti del governo le perdite dovute a incidenti gravi hanno un prezzo inferiore a quello necessario all’ammodernamento». Il protagonista, Tobruk Ramarren appunto, è all’incrocio fra un mercenario e un disilluso, presuntuoso e un po’ carogna, forse d’acciaio fuori ma con tanta nebbia dentro. Strada facendo Tobruk dovrà ricostruire se stesso interamente. Persino il suo “albero genealogico” – non posso svelare perché – si rivelerà un po’ diverso dal risaputo. Non c’è forse persona più ammirevole di quella capace di smantellare i pregiudizi e di imparare dagli errori, di dar valore ai sogni altrui prima e poi di imparare a sognare in proprio. O di capire – come Tobruk – che a volte bisogna andare avanti e altre tornare indietro; che per i ribelli è importante far pratica di armi ma anche fare l’amore o chiedersi di che colore è il mare. Quanto alle rivoluzioni, si sa, che per quanto vincerle non sia semplice è molto più difficile salvarle dai rivoluzionari. Del resto, come viene ricordato a Tobruk prima che cada nella trappola del “vincitore” per sempre, «la parola rivoluzione nasce in astronomia e implica il concetto del ritorno al punto di partenza alla fine del movimento a cui si riferisce».

Ho verso «Ferro sette» impressioni ambivalenti, di grande entusiasmo da un lato e di insoddisfazione per un altro. E occorre una premessa per potermi poi farmi capire meglio. Secondo me non c’è alcunché di male – anzi – nel costruire una storia d’azione (o un giallo) e dentro una vicenda semplice e appassionante, con un linguaggio popolare e comprensibile, far circolare questioni profonde in molte pieghe, più o meno visibili. La buona letteratura popolare (fantascienza inclusa e, per i miei gusti, in testa) si distingue dalla cattiva per questo: non naviga in un mondo banalizzato e fasullo ma nella verità e complessità facendosi però capire, senza sermoni o lezioni, eliminando ogni sfoggio di (presunta) saggezza e di verità scritte con maiuscole abusive. In questo c’è chi è più bravo, fino ai limiti della genialità (Dick a esempio ma anche Robert Sawyer) e chi meno; c’è chi privilegia le idee e magari sfilaccia la trama o sottovaluta la psicologia dei personaggi (Clarke e Asimov tanto per far due nomi); c’è chi sa cesellare le parole; chi butta lì un’invenzione da perfezionare e chi la ricicla al meglio: pur con queste articolazioni e diverse capacità al fondo resta l’entusiasmo (la necessità persino) di raccontare grandi storie facendosi capire.

Il mio entusiasmo per questo esordio di Troccoli è nelle idee che affollano il romanzo. Senza entrare troppo nel merito, per non togliere il gusto della sorpresa a chi legge, accennerò le principali: la perdita e la riconquista del sonno (e il suo legame con i sogni da una parte e con la produzione dall’altra); l’importanza della nascita di un mare; l’arma della «seconda volontà»; l’etnia dei longevi (con qualche piccolo debito a Robert Heinlein); e persino – in una piega della narrazione – la storia di un «piccolo Hans» che, almeno nel nome, rimanda a uno dei più noti casi clinici di Freud.

Dunque idee a iosa. Aggiungo che Troccoli scrive bene: tenere il ritmo per oltre 300 pagine e chiudere in crescendo non è proprio facile come inviare tre e-mail dotte o spiritose.

E allora l’insoddisfazione? Il mix fra idee e personaggi non è sempre riuscito; c’è qualche stereotipo di troppo; se in un paio di passaggi narrativi l’improbabile infastidisce è anche per pigrizia o per mancanza di tempo; la scrittura non è sempre all’altezza della vicenda e, a esempio, l’inizio stenta. Forse la mia delusione è accentuata dal fatto che proprio mentre notavo questi difetti riconoscevo a Troccoli talento e inventiva. Se fosse un brutto romanzo – come purtroppo ne girano tanti e magari vincono pure premi – non avrei sprecato spazio e tempo a parlarne ma l’impressione è invece di una vicenda che con uno sforzo maggiore (e/o esperienza) poteva essere memorabile e di un autore che ha grandi potenzialità non ancora completamente maturate.

Insomma lo aspetto – presto – alla seconda prova. E ovviamente, per quel poco che conta la mia opinione, lo incoraggio a proseguire: più cattivo, pignolo e coinciso nella scrittura ma altrettanto ingegnoso sui mondi possibili e quelli cosiddetti reali.

Nel frattempo «pia-ne-ta li-be-ro» è un eccellente, urgente slogan anche per noi qui del sistema solare. E in questo senso (per l’ennesima volta rubo una frase dal “magazzino” di Riccardo Mancini) «la fantascienza è un buon grimaldello per scardinare la realtà».


Redazione
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4 commenti

  • Una piccola postilla alle parole di Daniele.
    La presentazione romana di “Ferro Sette” avra’ luogo venerdi’ 27 aprile, dalle 1830, presso il Caffè Letterario (via Ostiense 95). L’incontro sarà curato da RiLL Riflessi di Luce Lunare, e vedrà la partecipazione di Francesca Costantino (Armando Curcio Editore), Francesco Grasso (due volte vincitore del Premio Urania) oltre che, ovviamente, di Francesco Troccoli.
    …vi aspettiamo!!
    http://www.rill.it/?q=node/458

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