I treni non sono piombati (per ora) ma…

molti cervelli purtroppo sì

di Ester Zappata

Ho viaggiato molto in treno nel 2018. Stamattina, dopo tanto (sciopero inatteso) parto da Cesena diretta a Imola, verso un’isola felice, combattiva e sperimentatrice fondata da donne native e migranti, che è #Trama di terre. È una tratta regionale di poco più di mezz’ora. Il controllore chiama “forze dell’ordine, a centro treno”. Assisto a un diverbio animato nei confronti di un giovane ragazzo senegalese, che privo di biglietto, viene accertato (intuisco) sui suoi documenti. Espressioni di malessere collettivo e mormorio generale: chi a disagio (io) e chi in libero sfogo sul tema sicurezza: sono in troppi ma sono loro che sbagliano. Provo un senso di indignazione, anche perché sono appena tornata, entusiasta, da un viaggio del tutto personale in Etiopia dove per un mese l’altro è stato parte del mio quotidiano. Nel giro di dieci minuti, il controllore chiama “forze dell’ordine in coda treno”.

Non so quale norma preveda la presenza delle forze dell’ordine sui mezzi di trasporto, e non oso nemmeno immaginare se a ogni verifica dei titoli di viaggio debba conseguentemente seguire un controllo sui documenti. Sarebbe (è?) un clima di caccia alla streghe. Riconosco invece che il mestiere di controllore debba essere anche una rottura di coglioni. Ma ricordo nitidamente su un treno estivo Firenze Faenza che percorre l’Appennino, pochi mesi fa, un controllore resistente (oppure resiliente?), che nella stessa situazione, aveva intavolato una discussione civica e pacifica con un passeggero straniero, senza biglietto, a cui tutto sommato aveva offerto una possibilità di dialogo (scelta e mediazione) reale. No commenti fascisti please e niente chiacchiere da bar. 

Mentre questo lo ha scritto ieri – da Venezia – Gaia Vianello, un’amica.
Per una serie di casualità questa mattina mi è successo di fare da interprete al tribunale di Venezia a un ragazzo, mio coetaneo, che aveva l’udienza di ricorso per la richiesta di permesso umanitario.
Da alcuni anni mi capita spesso di essere chiamata dalle Procure per servizi di interpretariato, e dunque ho pensato che, in questo caso – oltre a essere per una nobile causa (ovvero aiutare, per quel che si può, le persone) – sarebbe stata un’udienza come tutte le altre.
Mi sono ritrovata immersa in un contesto che era un mix tra commedia kafkiana, un film con Alberto Sordi e un incubo di quelli che ti svegli nel sudore, contento di vedere oggetti amici e rassicuranti che ti fanno capire che te l’eri solo sognato.
Il richiedente non ha alle spalle una vicenda di quelle che fanno il giro dei social per qualche ora, per farci sentire un po’ meglio con le nostre coscienze.
Viene dal Senegal, e lì non c’è guerra. Stava pure bene in Senegal, gestiva una propria attività che gli piaceva.
Si è solo trovato, suo malgrado, a essere schiacciato tra le mafie locali e la polizia corrotta, ha cominciato a ricevere minacce di morte, poi a essere aggredito fisicamente.
Allora si è spostato in un’altra città, ha cambiato cellulare, casa, tutto. Ma l’hanno trovato anche lì.
Quindi si è messo in viaggio, il solito: Mali, Niger, Libia.
In Libia è rimasto due anni, di cui uno in un centro di detenzione per migranti, in cui – come la maggior parte delle persone – ha subìto torture.
Quando il giudice mi ha chiesto di tradurgli «Perché se n’è voluto andare dalla Libia?» io mi sono vergognata tantissimo, anche se ero solo un porta parola. Come mi sono vergognata di dover tradurre «Lei ha un contratto di lavoro?» ma mi è venuto in soccorso lui, che ha risposto con la semplice verità «Ho alcuni datori che me l’hanno proposto, ma dal momento che non ho i documenti, ma solo un permesso provvisorio, finché l’iter della richiesta di permesso non finisce, non me lo fanno».
A condire di surrealismo all’italiana tutta questa storia, il solito cliché del funzionario dello Stato innervosito e sbuffante, come le commesse quando un cliente entra nel negozio alle 19.25. Invece io e l’avvocato, entrambi ex giovani ma tutt’ora precari, volontariamente stavamo facendo il nostro lavoro, perché pensiamo che sia la cosa giusta. E cerchiamo di farla bene, per quello che ci riesce.
L’udienza è stata rinviata a novembre, e quando – usciti – ho proposto al ragazzo di farsi una bella passeggiata a Venezia, che non aveva mai visto, in attesa del treno di rientro, mi ha risposto quasi disperato: «No, voglio aspettare vicino alla stazione, perché tu non hai idea di quanti pensieri mi scoppiano in testa».
Mi sono sentita molto ingenua.  E’ vero purtroppo, “non ne ho idea”.
Da molto tempo ho fatto un passo indietro rispetto alle faide partigiane che spopolano in questo periodo, ma oggi se qualcuno prova a dirmi «ma i 35 euro…»oppure «non possono starsene tutti qui» o «la retorica buonista» lo prendo a pattoni.
Perché sono tanto incazzata.
Perché è l’intero il sistema che non funziona e questo sentirmi quotidianamente presa in giro è diventato intollerabile. Anche per me.
A tutti quelli – singoli o associazioni – che abbiano bisogno di un’interprete volontaria su Venezia per questioni simili, dò la mia disponibilità.

Redazione
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