I vincitori scrivono la storia, non la verità

di Giovanni Dall’Orto

un gentlemen’s agreement condivisibile:

dice a un certo punto Dall’Orto: la questione delle statue “razziste” sarebbe a mio parere risolta meglio costruendo ovunque statue dei neri (indiani d’America, aggiungiamo noi della bottega),che lottarono per la libertà e affiancandole a quelle dei loro aguzzini, piuttosto che sfasciando statue al grido di “scordammoce ‘o passato“.

Dopo l’attentato nazista che a Charlotteville ha causato morti e feriti, sono stato inghiottito mio malgrado dalle polemiche per una questione marginale se non irrilevante, ossia l’oltraggio che ho espresso, in quanto storico, di fronte all’idea che sia “progressista” o comunque scusabile vandalizzare opere d’arte solo perché rappresentano personaggi “odiosi”, come un soldato del Sud nella Guerra di Secessione americana.

In quanto storico io vado in panico al solo sentire parlare di “distruggere” un documento, sia esso un testo o una statua. Mi viene subito in mente che anche i cristiani provavano un giusto oltraggio di fronte alle statue religiose dei pagani (che li avevano perseguitati per secoli) scolpite da Prassitele o Fidia, e le sfasciavano. Come questo volto di Afrodite, copia da Prassitele, sfigurato da un cristiano che incise la croce sul volto e il naso per cancellare un passato “ignobile”, a beneficio dei posteri.

Una premura per cui noi, i posteri, gli siamo tutti grati… vero?

Riesco a capire che un popolo in rivolta abbatta d’istinto, senza pensarci, le statue dei tiranni. Ma so già cosa risponderebbero oggi i bolognesi alla domanda se sono fieri del fatto che  i loro avi hanno fatto a pezzi la statua in bronzo di papa Giulio II, modellata da Michelangelo. Se invece di farla a pezzi l’avessero spostata in un sottoscala in cui non avrebbe dato fastidio a nessuno, non sarebbero tutti più contenti, oggi? Giusto per dire, eh?

Del resto, l’arte è da sempre schiava del potere e della ricchezza: l’arte “rivoluzionaria” è solo una strategia di marketing per vendere ai potenti e ai ricchi “rivoluzionari”.

L’Isis e i talebani lo hanno compreso fin troppo bene. Tuttavia, non credo che metterci al loro livello, agendo come loro, ci qualifichi molto.

Il problema che ho riscontato nei miei oppositori (che me ne hanno dette di tutti i colori, da “ignorante” a “amico di Trump” a “succube della propaganda neonazista”) è che a quanto pare a sinistra ristagna una visione arcaica e “storicistica“, ossia ottocentesca, della storia.

Nella visione dei “kompagni” che mi contestano, infatti, la storia è un lento, costante progresso evolutivo dal passato (barbaro e inferiore) verso il Radioso Presente, che avendo raggiunto le vette del Politicamente Corretto, ha finalmente raggiunto per la prima volta nella storia umana, il livello della Civiltà Autoevidente. L’idea che la storia possa essere conflitto dialettico tra classi ed interessi contrastanti, anziché fra Buoni e Cattivi, è morta e sepolta dopo il trionfo della narrazione neoliberista, con il suo delirio sul raggiungimento della fine – e del fine – della Storia.

Secondo tale modello non può esistere conflitto tra modelli diversi di società, dato che siamo infine arrivati alla vetta del solo modello di società concepibile, quello liberista. “TINA” – There is no alternative.

Il passato è ormai solo una Epoca Oscura, infestata da persone che non conoscendo il Politicamente Corretto erano bruti, e di cui ci vergogniamo al punto da volerle cancellare, in modo da cancellare la vergogna che ci provoca l’assenza della perfezione di cui noi siamo i radiosi rappresentanti, “splendidi e unici come fiocchi di neve“.

Per compiere questa operazione di riscrittura della storia (che è poi il lavoro a cui era addetto il protagonista di 1984 di George Orwell!), occorre distruggere i monumenti che smentiscono la nostra visione.

Nel corso della discussione ho fatto notare che se vanno abbattute le statue degli schiavisti, allora le prime da abbattere sono quelle dei “padri fondatori” degli Usa: George Washington possedeva ben 317 schiavi, Thomas Jefferson addirittura 600, eccetera.

Questa mia obiezione non ha avuto risposte, ma solo insulti (“Ragioni come il KuKluxKlan“): il massimo che ho ottenuto è una magniloquente dichiarazione sul fatto che sarebbe “scorretto” paragonare costoro, che si limitarono a possedere schiavi (adorabile autolimitazione!) laddove il generale Lee difese attivamente la causa degli schiavisti. (Altre risposte sono ancora più patetiche: per esempio che non sono paragonabili perché Jefferson lottava per la parte giusta, mentre Lee lottava per quella sbagliata, come ci fa sapere l’ineffabile “Washington Post”. Immagino che agli schiavi di Jefferson questo dettaglio sia stato di smisurata consolazione, quando furono tutti venduti per pagare i suoi debiti…).

Ebbene, certo che è scorretto paragonarli, dato che Lee si limitò a fare il suo (sporco)  lavoro come soldato, mentre Washington e Jefferson scatenarono la rivoluzione proprio in quantoschiavisti, per paura che la Corona inglese finisse per decretare l’abolizione della schiavitù (come in effetti avvenne di lì a non troppi anni), almeno a voler dar retta allo stimolante saggio d’uno storico afroamericano, Gerald HorneThe counter-Revolution of 1776: slave resistance and the origins of the United States of America (NYU Press, New York 2014).

Questo saggio si apre con un interessantissimo excursus sulla resistenza dei neri allo schiavismo, per secoli, demolendo il santino zuccheroso d’una manica di bianchi generosi, altruisti, insomma “politicamente corretti”, che sacrificarono le loro vite e i loro beni pur di regalare ai “boveri negri” la libertà!

Invece i primi antischiavisti, in ogni secolo, furono i neri, uomini e donne, i cui nomi (come quelli di Sojourner Truth) nessuno di noi conosce, mentre tutti conoscono quello del generale Lee, se non altro per averlo visto in qualche filmone americano. In una società davvero attenta ai valori umani, invece, tutti saprebbero chi fosse Sojourner Truth, e il nome del generale Lee sarebbe noto solo a qualche specialista di storia militare. Tant’è che la questione delle statue “razziste” sarebbe a mio parere risolta meglio costruendo ovunque statue dei neri che lottarono per la libertà e affiancandole a quelle dei loro aguzzini, piuttosto che sfasciando statue al grido di “scordammoce ‘o passato“.

Non è detto che le posizioni di Horne siano destinate a diventare ortodossia storica, per carità: la storia tende sempre ad essere molto più “polifonica” di quanto un approccio “zoomato” su un solo aspetto permetta di apprezzare – e questo vale anche per i miei libri di storia dell’omosessualità, ovviamente. Pertanto non sono pronto a mettere la mano sul fuoco per difendere il pur stimolante argomento centrale di questo libro, ossia che quella americana del 1776 non fu una “Rivoluzione”, bensì una “controrivoluzione preventiva” per scongiurare il rischio dell’abolizione della schiavitù, simile alla dichiarazione unilaterale di indipendenza della Rhodesia del Sud (oggi Zimbabwe) nel 1965.

Tuttavia resta il fatto che un interessante corollario della tesi di Horne è che, letta in quest’ottica, la Secessione del 1861 non fu altro che la ripetizione di quanto avvenuto nel 1776, la prima volta con successo, la seconda, per mutate condizioni storiche, no.

Ripeto, è raro che un solo evento (a meno che si tratti della caduta di un asteroide su una città!) spieghi da solo un processo storico, tuttavia solo uno sciocco oggi può credere alla favola bella della Guerra di Secessione come lotta fra schiavisti cattivi ed antischiavisti buoni ed altruisti.

La Secessione, infatti, avvenne chiaramente per proteggere il “diritto” a possedere schiavi, e il modello economico che si basava su di essi. Tuttavia la Guerra fu scatenata, dal Nord, per impedire la secessione, non la schiavitù.

Se la liberazione degli schiavi divenne rapidamente il motivo proclamato per mandare al fronte i giovani a morire, furono altre le motivazioni (che come sempre nella storia erano di tipo economico) che spinsero il Nord a invadere il Sud. Il Sud voleva sì mantenere gli schiavi, ma anche esportare le merci da essi prodotte in cambio di manufatti industriali inglesi, più a buon mercato di quelli prodotti nel Nord, che invece voleva venderli al Sud in un regime di protezionismo doganale. (Perché, sapete, fino alla Prima guerra mondiale gli inglesi erano liberoscambisti, mentre gli Usa costruirono le loro industrie grazie a impenetrabili barriere doganali e un disprezzo sovrano della “proprietà intellettuale” altrui, in primis quella inglese. Il bello della storia è che le sorprese non finiscono mai…)

Ancora il 18 settembre 1858 Abramo Lincoln (sì, il Liberatore della Razza Negra) riteneva politicamente opportuno rassicurare pubblicamente:

Dirò che io non sono, né sono mai stato, favorevole a mettere in atto in qualsiasi modo l’eguaglianza sociale e politica  della razza bianca e della razza nera, che io non sono né sono mai stato favorevole di fare dei negri elettori o giurati, né permettere loro di ricoprire cariche, né di sposarsi con individui bianchi; ed aggiungerò a questo che esiste una differenza fisica tra le razze bianca e negra che credo che impedirà per sempre alle due razze di vivere assieme in termini di uguaglianza sociale e politica.

E in quanto non possono vivere in tal modo, fino a quando rimangono mescolate deve esistere la posizione di superiore e inferiore, ed io come qualsiasi altro uomo sono a favore di far sì che la posizione superiore sia assegnata alla razza bianca.

Aggiungo però che non sento che solo perché l’uomo bianco deve avere la posizione superiore, allora al negro debba essere negato tutto.

Con ciò non voglio dire che siccome non voglio una donna negra come schiava, io debba necessariamente volerla come moglie…”.

Esistono due possibilità.

O Lincoln non pensava queste cose e le affermava solo per opportunismo politico, ossia per ingraziarsi i presenti al comizio, e questo ci mostra fino a che punto nel 1858, prima di diventare il paladino dell’abolizione, perfino un Abramo Lincoln giudicasse lecito il razzismo dichiarato.

Oppure Lincoln le pensava. Come milioni di suoi contemporanei. Incluso il generale Lee.

In entrambi i casi, diventa palese che non si può giudicare la storia coi criteri morali di oggi. La storia si studia, si comprende, si contestualizza. Non si cancella (anche perché è dentro di noi, come dimostra il razzismo traboccante degli antirazzisti americani!).

Del resto, le statue sono capaci di buttarle giù tutti, e il gioco si può giocare in entrambi i sensi. Vale la pena di innescarlo, allora? Pensate davvero che il reverendo Martin Luther King potesse essere favorevole ai matrimoni egualitari, per caso? E se scopriamo che non lo era, che facciamo, sfasciamo le sue statue? E come trattavano le loro donne, gli schiavi neri? E cosa ne pensavano dei trans, le schiave nere? E così via, all’infinito.

Fino a quando non resterà in piedi una sola statua. O una piramide, come ironizza questa vignetta:

 

Su Facebook sono stato accusato di riprendere gli argomenti dei razzisti americani filo-Sud, con un rimando a questa voce di… Wikipedia affinché io imparassi una buona volta come si fa a fare storia….

Ora, io non capisco perché la storiografia “filo-Sud” debba essere per forza di cose “filo-KKK”. Esiste una storiografia filo Sud-Italia, “neoborbonica”, che ha rimesso in discussione l’idea che l’unità d’Italia abbia per davvero costituito un atto di benevolenza del Piemonte per strappare generosamente all’oscurantismo borbonico il Sud, ma non per questo scrivere da questa prospettiva implica essere “filo-mafia”.  KKK e mafia sono infatti associazioni a delinquere, non i portavoce di un territorio.

Simmetricamente, la versione ufficiale dei vincitori non diventa quella “vera” solo perché è quella dei vincitori.

I vincitori scrivono la storia“… non la verità.

Pezzi di ragione possono quindi stare nelle ragioni dei vinti. Sicuramente nel nostro caso fra questi pezzi di ragione non rientra la schiavitù, che era una istituzione che stava tramontando già nel 1776, figuriamoci nel 1860, in piena rivoluzione industriale. Ma sul fatto che Nord e Sud avessero interessi economici contrapposti, “stranamente” simili a quelli segnalati nel caso italiano dagli storici del Sud, non ci piove. E che il Sud avesse il diritto a difenderli, non ci piove neppure qui.

Dopo queste premesse, torniamo al tema che ha scatenato questa riflessione: la vandalica distruzione di un’opera d’arte per motivazioni di censura politica della storia passata. Siccome la storia passata non ci piace, allora distruggiamone i monumenti.

I quali invece, come sa chi capisce un minimo di storia, vanno contestualizzati ed anche risignificati, in modo che svolgano la loro funzione: dare un monito a chi viene dopo. Non necessariamente quello immaginato da chi li aveva costruiti.

Ci sono molti modi di risignificare un documento d’arte e di storia imbarazzante: il più banale è spostarlo (in un museo, per esempio, come è stato fatto con decine di monumenti comunisti nell’ex Urss). Migliaia di statue oggi nei nostri musei un tempo svettavano in piazza, o sugli altari, o su facciate che oggi ne fanno tranquillamente a meno.

Un altro modo, più costoso ma più utile, è modificare il contesto. Ad esempio, affiancando la statua della schiava ribelle a quella del generale schiavista, costringendo chiunque passi a chiedersi chi fosse quella donna e cosa abbia fatto. E questo, secondo me, è più utile, perché non è negando la storia che diventa possibile superarla. Occorre fare i conti con essa, e andare oltre alle storture che ci ha lasciato. Ma ammetto che la maggior parte delle volte limitarsi a portare in un museo o in un magazzino sia meno costoso e più rapido. E così sia allora: è  pur sempre meglio che distruggere una statua.

Purtroppo però si sta diffondendo come un incendio all’interno della sinistra un’intolleranza di stampo fascista che mostra come la sinistra anarco-capitalista, succhiando dalle stesse radici del fascismo, si avvii ad assomigliargli in tutto, ad eccezione della retorica, che resta ancorata alle parole del passato, sempre più vuote. Su Facebook, per provocazione, avevo proposto di demolire la Casa del Fascio di Como, capolavoro dell’architettura razionalista, in quanto documento d’un passato odioso. Ebbene, nove reazioni su dieci sono venute da persone che mi hanno preso sul serio. Segno questo del fatto che oggi proposte di questo genere non sono più considerate talmente demenziali da svelare immediatamente il loro carattere di paradosso. Viviamo insomma in un clima in cui l’idea di demolire quanto non ci è simpatico è sempre più familiare a tutti!

Del resto un tempo i roghi di libri erano prerogativa dei nazisti o di Torquemada, adesso invece sono sempre più spesso invocati dalla sedicente “sinistra”. Ma chi ha paura dei libri, da Pippi Calzelunghe alla Divina Commedia, ammette di essere cosciente del fatto di non avere argomenti per confutare eventuali contenuti sgraditi.

Io non ho paura dei fascisti con i gagliardetti, pochi nostalgici fermi a riti di un secolo fa, che la storia ha ormai digerito, e cacato. Io ho paura delle sinistre che vogliono manomettere la Costituzione italiana perché “troppa libertà ostacola la governabilità”. Sono loro, la nuova faccia del fascismo. Quando parlano di “riforma elettorale”, stanno parlando della “Legge Acerbo 2.0″.

Purtroppo la “sinistra” anarco-capitalista è capace di ragionare solo in termini di simboli ed astrazioni, nutrendo un disprezzo quasi fanatico per le volgari materialità della vita. E si è quindi lasciata incastrare dai neonazisti in una guerra stupida e inutile sulle statue, ossia sui simboli, che non cambierà di un millimetro le condizioni materiali e sociali degli afroamericani, anche se sparisse fino all’ultima statua contestata.

La condizione dei neri americani non è infatti causata dalle statue.

Sono semmai le statue erette a certi personaggini ad essere state possibili solo a causa delle condizioni dei neri americani (Georgij Plechanov, nel suo ingiustamente dimenticato La funzione della personalità nella storia, ironizzava su coloro che privilegiando lo Spirito rispetto alle condizioni materiali, credevano che “Il minuetto è stato la causa della rivoluzione francese“).

Ma negare che ciò sia avvenuto, significa nascondere la polvere sotto il tappeto. Significa parlare d’altro. Significa ciurlare nel manico con “armi di distrazione di massa”. Il “politicamente corretto” è infatti ciò che si fa invece di fare politica.

Gli Usa sono una nazione fondata in origine sulla schiavitù dei neri, sul genocidio dei nativi, e sul lavoro forzato dei bianchi indentured.

Fingere che le cose non siano andate in questo modo, solo perché si sbava davanti al “Destino Manifesto” della “Sola Nazione Indispensabile“, che ha dato al mondo gli hamburger all’olio di palma e Pamela Anderson, non è certo fare storia “da sinistra”.

Certo, gli americani nel 1945 hanno vinto la loro guerra contro l’Europa, quindi è inevitabile che si presentino in quel modo.

Ma in quanto vincitori, hanno scritto la storia. Non la verità.

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Post scriptum del 30 agosto 2017

Fare i profeti ultimamente è diventato facilissimo.

Come previsto, sono già iniziati gli attacchi contro statue di Martin Luther King (troppo arrendevole coi bianchi), Cristoforo Colombo (che ha reso possibile lo sterminio degli indiani) e Giovanna d’Arco (che ha avuto il cattivo gusto di opporsi alla globalizzazione anglosassone).

Ci sono démoni che è meglio non evocare, illudendosi di poterli sfruttare per i propri scopi in quanto potenti e difficili da sconfiggere.

E’ esattamente perché sono potenti e difficili da sconfiggere che è destino che o prima o poi sfuggano di mano, e facciano guerra a chi li ha evocati.

da qui

 

Redazione
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