«Ice»: fantascienza o «un mondeggiare rischioso»?

Giuliano Spagnul sul romanzo di Anna Kavan

Romanzo inclassificabile Ice di Anna Kavan, pubblicato nel 1967 un anno prima della sua morte, (1) può essere comunque considerato, come scrive L. Timmel Duchamp: «un interessante esperimento letterario femminista» (2). Molto apprezzato da James G. Ballard, Doris Lessing e Brian Aldiss, se proprio lo si volesse accostare alla fantascienza si dovrebbe ricorrere alla definizione magmatica che di questa da oggi Donna Haraway: un mondeggiare rischioso in cui anche il vecchio dispositivo fantascientifico novecentesco rientra per essere sfilato e ripreso insieme al «femminismo speculativo», la «fabula speculativa» e il «fatto scientifico» nell’intreccio continuo del gioco della matassa (3). Esperimento femminista estremamente rischioso perché asseconda, e anticipa, quel femminismo radicale che Haraway ha stigmatizzato come riduzionista: «una teoria della coscienza che delimita ciò che può costituire l’esperienza delle ‘donne’ tutto ciò che nomina la violenza sessuale, o anche solo il sesso dal punto di vista delle ‘donne’. La pratica femminista è la costruzione di questo tipo di coscienza: la conoscenza di sé di un sé-che-non-c’è. (…) Questa totalizzazione produce ciò che lo stesso patriarcato occidentale non è mai riuscito a creare, la consapevolezza femminista della non-esistenza delle donne se non come prodotti del desiderio maschile». (4)

Ma in Kavan, a riscattare questa visione di una possibile remissione a una non esistenza, c’è una capacità di vedere «se stessa attraverso occhi e comportamenti maschili ambigui e sempre fondamentalmente aggressivi» (5) che ribalta la visione introspettiva direttamente dentro il mondo maschile e ne corrode, parimenti, il suo preteso esserci fondato sulla continua negazione dell’altro: del femminile diverso esistere. Questo vedersi con occhi maschili è sì rischioso in quanto portatore di annullamento: come Kavan aveva confessato: «So di avere un desiderio di morte (deat wish). Non ho mai goduto della mia vita, non mi è mai piaciuta la gente. Amo le montagne perché esse sono la negazione della vita, indistruttibili, disumane, indifferenti, come io voglio essere» (6). Però come acutamente osserva ancora Pagetti anche se sono gli uomini «i suoi inseguitori a plasmare, a raccontare la sua storia (…) toccherà a loro, per una ironica legge del contrappasso, di essere inghiottiti dal vuoto di un biancore assoluto» (7).

La terribilità di questo raccontarsi in un viaggio verso il progressivo gelo del proprio essere ricorda molto i film degli stessi anni di Bergman, «Il silenzio» e «La vergogna», come quello del pittore surrealista (anche Kavan è pittrice di tipo surrealista) André Delvaux, «Una sera… un treno». Anni Sessanta, esplosivi, carichi di conflitti e di attese. Ma non c’è in questo ghiaccio nessun anelito di speranza, solo l’ineluttabile assenza di ogni via di scampo «che non era possibile sfuggire al ghiaccio, al tempo che incalzava, imprigionandoci».

Fuorviante raccontare la trama e il ritmo: guerre, frustrazioni, dolori, incubi… Ma occorre interrogarsi sul finale, sull’immagine di quella pistola il cui peso, avvertito nella tasca, risultava “rassicurante”. Quest’uomo la cui arma dovrebbe rassicurare anche lei, garantirne esistenza e protezione, chiude il viaggio in quel mondo che «sembrava già morto» ma che forse fa da ponte, sopra le macerie della storia, al romanzo di Joanna Russ Female Man che soli pochi anni più tardi vedrà una protagonista femminile avanzare in un mondo estraneo e forse ostile senza la protezione di alcuna arma. Consapevole che la paura dell’altro è il tuo peggior nemico.

Nota 1: Edito in Italia nel 1974 da Bompiani, nel 2008 da Fanucci e nel 2021 da 451.

Nota 2: https://en.wikipedia.org/wiki/Anna_Kavan

Nota 3: https://www.labottegadelbarbieri.org/intorno-al-gioco-della-matassa-o-ripiglino-e-al-futuro/

Nota 4: Donna Haraway, «Manifesto Cyborg», Feltrinelli, Milano, 1991, pag 53.

Note 5, 6, 7: Carlo Pagetti introduzione all’edizione Fanucci

 

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