Il bordello della porta accanto

di Anna Louie Sussman

tratto da «The brothel next door», un ampio servizio per «Foreign Policy» del 17 maggio. Anna Louie Sussman, giornalista indipendente, è anche editrice di www.womenintheworld.org. La traduzione è di Maria G. Di Rienzo.

Sotto l’ombra degli alberi, in un caffé di Istanbul, Suzan, una voluttuosa signora sulla cinquantina con i capelli ossigenati e un sorriso caldo e generoso, descrive com’è passata dall’essere una sposa adolescente a essere una sex worker a tempo pieno. Mentre parla, il suo cellulare suona circa ogni quindici minuti. Clienti, mi spiega.

Suzan fu data in moglie dal padre quando aveva 16 anni e il solo diploma di scuola elementare. Ha lasciato un marito alcolizzato e scommettitore dopo aver avuto con lui sette figli, uno dei quali morto bambino. Per sostenere gli altri sei, Suzan ha tentato di tutto: vendere vestiti usati al mercato, lavorare in fabbrica, fare la cameriera in una sala da tè. Ma le sue misere entrate non pagavano le tasse scolastiche a sei figli. Un incontro casuale con una prostituta alla stazione dei treni la convinse che era meglio cambiare carriera. Nonostante le sue tariffe vadano dai 12 ai 24 euro, scoprì che riusciva a vivere decentemente, soprattutto dopo aver creato una base di clienti fissi e affidabili. A differenza di altri lavori, questo la mette in conflitto con la legge. In vent’anni da sex worker Suzan è stata multata più volte di quante ricordi e ha dovuto presentarsi a più di cinquanta udienze in tribunale. Quattro anni fa ha passato sei mesi in prigione mentre la polizia indagava sul suo possibile coinvolgimento in traffico di droga e prostituzione minorile: non trovarono prove per nessuna delle due accuse e la rilasciarono. Fino ad allora, Suzan era riuscita a nascondere ai suoi figli qual era il suo lavoro, ma la sentenza a sei mesi di galera la costrinse a dir loro dove andava e perché. Con una voce densa di emozione, ricorda come i figli la confortavano durante le loro visite settimanali alla prigione. «Mi dicevano: Va tutto bene, mamma. Tu ci hai cresciuto, hai messo il pane sulla nostra tavola. Possiamo andare a parlare con il giudice? Gli diremo che grande madre sei». Suzan ha pianificato il suo ritiro per quando la sua figlia minore prenderà il diploma al college.

Il commercio sessuale qui è per la maggior parte invisibile pur avendo una storia particolare che risale all’Impero Ottomano. L’attuale governo islamista desidera dare della Turchia un’immagine allo stesso tempo moderna e pia, il che lascia poco spazio per Suzan e le sue colleghe. Secondo il ministero della Sanità, la Turchia ha attualmente 3.000 sex worker registrate che lavorano in 56 bordelli gestiti dallo Stato, chiamati genel evler (case generali). Le prostitute senza licenza sono circa 100.000, metà delle quali straniere: la Turchia è una delle destinazioni per il traffico di donne dell’est europeo, che qui sono chiamate «Natashe». Da circa un decennio, il numero di licenze concesse per aprire una “casa generale” è gradualmente diminuito sino a cessare del tutto tre anni or sono. I bordelli già esistenti vengono chiusi o trasferiti nelle periferie urbane.

La regolamentazione della prostituzione è sempre stata un affare poco chiaro in Turchia. Negli anni ’80 Mathilde Manukyan, una tenutaria armena di dodici bordelli divenne la maggior contribuente di tasse del Paese. Manukyan, che finì per possedere un considerevole patrimonio immobiliare ed è scomparsa nel 2002, era premiata regolarmente dal governo per i suoi contributi alle casse statali: anche se molte delle sue “impiegate” erano minorenni, la polizia chiudeva un occhio. Filiz Kargal, trentacinquenne, mi racconta che suo marito la vendette a Manukyan quando aveva 13 anni. Era sposata con lui da tre mesi. Seduta su una panchina nel quartiere operaio di Sirinevler, descrive la spietata efficienza dell’impresa di Manukyan. Le donne lavoravano dalla mattina alla notte, con un’unica pausa per il pranzo. Il pranzo era fornito da una tavola calda di proprietà della tenutaria e le donne dovevano pagarlo: cibo scadente a prezzi da inflazione, spiega Kargal. Ogni due o tre mesi erano obbligate a firmare documenti falsi in cui si attestava che dovevano soldi al bordello. Kargal racconta anche di aver denunciato il figlio di Manukyan, poiché quest’ultimo non ha versato i contributi per i 12 anni in cui lei ha lavorato al bordello. Sommando interessi e danno, potrebbe arrivare a doverle qualcosa come 400.000 euro. L’avvocato di Kargal, Abdurrahman Tanriverdi, dice che ci sono moltissime ex prostitute in queste condizioni e che la procedura di intascarsi i loro contributi sociali era standard per i bordelli di Manukyan. Le scarse protezioni legali che le sex worker avevano sono messe in discussione dal governo turco attuale. Il portavoce del ministero della Sanità, che ha declinato il fornire il proprio nome, dice «Vogliamo riformare e correggere queste donne, riabilitarle». (Naturalmente nessuna riforma, correzione e riabilitazione è prevista per i clienti, ndt) Il portavoce sostiene che ora il ministero fornisce alle prostitute “carte sanitarie” invece delle licenze precedenti ma non è chiaro se il fatto di possedere una carta consenta loro di operare e come. Inoltre nessuna delle sex worker e delle attiviste per i diritti umani con cui ho parlato ne era a conoscenza.

Le politiche di governo hanno spinto le donne turche ancor più ai margini della sfera economica. Circa due terzi delle donne in età lavorativa non hanno reddito. La loro partecipazione alla forza lavoro si aggira attorno al 24%, ma più del 40% delle donne del Paese hanno subìto violenza fisica e/o sessuale, il che rende più probabile per una donna subire un abuso che trovare lavoro. Quelle che finiscono in strada dopo la chiusura dei bordelli diventano una fonte di reddito sicuro per le agenzie governative. Ne parlo con Hakkan Yildrim, avvocato di Pembe Hayat, ong che lavora per i diritti delle persone Lgbt e delle prostitute. Nel 2008, dopo che i tentativi di bandire gli alcolici erano miseramente falliti, il sindaco di Ankara, Ibrahim Melih Gokcek, si dedicò a combattere “il vizio” chiudendo metà dei bordelli della capitale senza tuttavia offrire alternativa alcuna alle 330 donne che vi lavoravano. Per strada, le sex worker (soprattutto le persone transgender) sono soggette a tutta una serie di multe per reati che vanno dal «comportamento contrario all’ordine pubblico» al «intralcio al traffico». Di media una sex worker paga in multe 2.000/5.000 lire turche (dagli 800 ai 2250 euro) ogni anno. Solo le persone transgender coinvolte nella faccenda, ad Ankara, sono 400: lo Stato raccoglie sino a due milioni di lire turche l’anno solo da loro. «In altre parole – aggiunge Kemal Ordek, segretario di Pembe Hayat – lo Stato fa da magnaccia alle prostitute».

A sentire Ali Ihsan Olmez, vicesindaco di Ankara, si tratta solo del fatto che i bordelli si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Olmez è un fedele militante di Akp, il partito di governo. In una lunga intervista concessami nel suo ufficio e punteggiata da innumerevoli sigarette (quando gli ho detto che in Turchia è proibito fumare negli uffici pubblici si è messo a ridere) Olmez ha descritto il grande piano di rinnovo generale per il distretto di Altindag, dove i restanti bordelli della capitale si trovano. «La nostra principale preoccupazione sono i fattori geografici del progetto, ma in effetti i bordelli si trovano in quest’area, che è la parte storica più antica di Ankara. Se le prostitute dovrebbero o no fare le prostitute non è affar nostro. Sia come sia, i bordelli là non possono restare. Questo restauro dell’area è un progetto gigantesco, importantissimo». I miei tentativi di fargli presente i problemi delle sex worker sono stati dismessi con una metafora: «Stiamo parlando di un progetto davvero enorme. E’ come se io stessi parlando di un cammello e tu di una mosca sotto la sua coda». Non è l’unica metafora di cui Olmez è capace: «Lasciare i bordelli dove si trovano sarebbe come ristrutturare la propria casa senza però pulire la cucina che è piena di scarafaggi» e ripete con enfasi: «Per quanto tu decori e sterilizzi, se non ammazzi gli scarafaggi in cucina come puoi dire che la cucina appartiene alla nuova casa?».


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