Il canto di Mohamed

 di Christiana de Caldas Brito

Il giradischi era lì, nell’armadio.

«No, Mohamed, non puoi portarlo, è pesante! Te lo teniamo noi, dai!».

Si lasciò convincere, ma prese il disco, il disco della canzone che era il suo tormentone. Lo mise sotto la camicia.

«A che ti servirà, Mohamed?».

Come risposta, tirò su la lampo della giacca a vento, stringendo il disco al petto.

«Adesso, scappa, Mohamed! La pioggia nasconderà i tuoi passi!».

Si muoveva come un pezzo staccato dalla notte. Chiare solo le scarpe. Aveva sognatoquelle con la suola di cuoio, ma si allontanò con le solite scarpe da tennis. L’avrebbero aiutato a non scivolare sulle tegole. E l’avrebbero portato lontano.

Prima di saltare dalla finestra, sussurrò: «Aiutami, Allah!».

Senza il minimo rispetto, la pioggia gli sputò in faccia.

I giovani iniziarono a far caciara. La signora Bornani, da sotto, pensò che stessero litigando. Si mise, come sempre, a battere sul soffitto con il manico della scopa.

Quando i poliziotti salirono, la signora si rese conto che Mohamed era scappato.

«Mohamed? No, non l’abbiamo visto».

Arrivava stanco dalla campagna e si metteva a cantare mentre sentiva il suo disco. «Vogliamo dormire, Mohamed! Possibile che ascolti sempre questa fottuta canzone? Non capiamo le parole! Non ti piace O sole mio? Perché non canti Funiculì, funiculà?».

Ogni sera, ogni mattina, si metteva a cantare quelle strane parole. Gli amici lo prendevano in giro: «Ancora i gargarismi, Mohamed? Smettila!». Ma lui diceva che la canzone era bella, che lui e Fatma, sua sorella, l’avevano sempre cantata insieme.

Quei suoni distanti tenevano uniti i giovani nella squallida camera. Li facevano sognare. Forse un giorno sarebbero andati al paese di Mohamed. «Ci farai da guida, Mohamed, se andiamo al tuo paese?».

Lui camminava per le strade del grigio quartiere canticchiando la sua canzone e i bambini lo seguivano, ridendo. Ridevano, i bambini, nella borgata senza musica.

Quando provava a parlare l’italiano, la cadenza della sua canzone si mescolava alle parole. «Mohamed canta anche quando parla» dicevano.

Una sera, sua madre l’aveva chiamato al telefono. Il centralino chiese se lui accettava di pagare la telefonata. Disse di sì. La madre gli raccontò che Fatma aveva preso una brutta malattia. Stava molto male, sua sorella.

Mohamed rimase per molto tempo al telefono. Com’era cominciata la malattia di Fatma? Quale dottore la stava curando? Voleva sapere tutto. Spiegò che non aveva i soldi per partire in quel momento. Pensava alla foto scattata dai suoi amici vicino al ponte sul fiume della città dove lavorava. L’aveva appena spedita a Fatma. L’immagine di Mohamed adesso attraversava i cieli, e sua sorella forse non avrebbe mai visto quella foto. In movimento, la foto. Immobile lui, nell’impotenza.

Chi ha detto che gli uomini non piangono? Il problema è che al telefono le lacrime costano più delle parole. Quando la signora Bornani presentò la bolletta, Mohamed non aveva i soldi per pagare le lacrime. La signora aspettò un intero mese. Finì per perdere la pazienza. e avvertì i poliziotti, che vennero quella sera. Mohamed fu costretto a scappare di corsa, sotto la pioggia. Di corsa con le scarpe da tennis per le strade bagnate del grigio quartiere.

***

Al bar, davanti al televisore, gli amici di Mohamed hanno visto che portavano via il corpo dell’immigrato. Dal ponte, si era buttato nel fiume, diceva il telegiornale. I poliziotti portavano il corpo in un sacco. Dal sacco spuntavano due scarpe da tennis.

Lasciarono il bar in silenzio, senza guardarsi. Nessuno voleva la conferma negli occhi dell’altro.

Era un sacco d’immondizia nero, di plastica.

In camera tolsero il giradischi dall’armadio. Lo accesero. Si misero a cantare.

Imitavano i suoni che Mohamed aveva tante volte regalato loro. Cantarono fino a capire. Il disco che Mohamed aveva portato con sé era la sua vita. La canzone, dalle parole cadenzate, la sua infanzia.

Rimasero a lungo a seguire con gli occhi il piatto vuoto che girava.


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