Il cerchio entro cui si agita la vita

di Daniela Pia
Quando ho iniziato a leggere «Mia figlia follia» ho capito, dopo pochissime pagine, perché mi avevano suggerito (senza nulla aggiungere) la scrittura di Savina Dolores Massa. I suoi romanzi

parlano la mia lingua, i personaggi sentivano le vibrazioni come la sentivamo noi quando avevamo dieci anni e scendevamo giù al fiume a inseguire lucertole e formiche, in pomeriggi estivi di salsedine e sudore, terra arida, nuvole e sole. Questa l’aria che ho annusato leggendo le riflessioni scaturite dalla mente di Maddalenina, una cinquantenne “pippia” che: «prova ad avere un mondo nel cuore / e non riesce a esprimerlo con le parole / la luce del giorno si divide la piazza / tra un villaggio che ride e lo scemo, che passa / e neppure la notte la lascia da sola / gli altri sognan se stessi e (lei) sogna di loro»… così forse l’ avrebbe cantata De Andrè.
Un dialogo quasi irreale, quello che si sviluppa fra lei e Maria Carta, l’aggiusta ossa. Una figlia che cerca una madre; una madre che non la vuole ma la ascolta, da viva morente, divenendo cassa di risonanza per i suoi pensieri. La lingua che parlano i personaggi di Dolores Massa è, secondo una sua definizione, stra-sbagliata ma forse proprio per questo umana e ancora più incisiva: è la lingua nella quale, in Sardegna, molte/i di noi sono cresciuti. Un misto di italiano e dialetto capace di saper dare voce all’ira in modo ineguagliabile; ricca di suoni onomatopeici e interiezioni. Lingua di avi. Odorosa. Emotiva. Sensuale. Bambina. Capace di dipanarsi secondo un ritmo sincopato interrotto ogni tanto da «un susino secco» che forse non è secco. Così Savina Dolores Massa racconta l’epopea di una piccola città, metafora di un mondo intero; non è necessario parlare esotico per poter raccontare il nostro Macondo. Ne era consapevole Ciccittu Masala quando affermava: «Qualcuno, potrebbe chiedermi: “Ma, tu, non fai altro che parlare del villaggio?”. Bene, gli risponderò che Tolstoj, Leone Tolstoj, mi ha detto all’orecchio: “Descrivi il tuo villaggio e diventerai universale; se cerchi di descrivere Parigi, diventerai provinciale”». Infatti non è provinciale l’umanità che si dispiega fra le pagine di «Cenere Calda a Mezzanotte». È fatta di creature ricche di sentimenti, tignose e fragili al contempo. Uomini e donne che lottano per la sopravvivenza nel loro arcano mondo; ondeggiano fra l’onirico e il concreto, si nutrono di pezzi di vite altrui cogliendone briciole che sanno di pane e, passando di bocca in bocca, si trasformano in pagnotta grassa e fumante. Amori, tradimenti, rimpianti e mestieri si affastellano in un particolare universale che sa di magico, il tanto necessario a far intuire fantasmi di Janas, le stesse che potrebbero vegliare, non viste, sul dono di preveggenza concesso al settimo figlio maschio o su gatti che sono stati bambini e persino su maiali fatti a «fillus de anima». Il tutto nell’affresco di un Ballo Tondo capace di chiudere il cerchio entro cui si agita la vita.

BREVE NOTA
Forse non ce n’è bisogno ma già che ci sono spiego un paio di termini sardi: «Jana» è una strega-fata mentre «pippia» è una bimba o una donna rimasta birichina. Ma chi è davvero sarda/o mi corregga pure… se ho semplificato troppo.
Il «Ciccittu» ovvero Francesco Masala (omonimo di quello che scrive spesso su codesto blog) citato sopra è stato un grande scrittore, autore fra l’altro di un libro assolutamente da conoscere, «Quelli dalle labbra bianche»: al riguardo vi consiglio in blog «Sos laribiancos (monologo)» l’adattamento teatrale di Pierpaolo Piludu.
Ho recensito il romanzo «Cenere calda a mezzanotte» (Il maestrale: 430 pagine per 18 euri) di Savina Dolores Massa a dicembre in blog con il titolo «Realismo magico ad Aristanis». Se da lì vi scatta la curiosità… trovate altre recensioni a libri di Savina Dolores Massa ma anche alcuni suoi interventi ben distribuiti nel blog. (db)

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Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

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