Il dominio del consumo

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di Francesco Gesualdi

Siamo abituati a fare la spesa in maniera narcisistica: l’attenzione puntata tutta su noi stessi, badiamo solo al prezzo e alla qualità tecnica dei prodotti. Mai un pensiero, un interrogativo, sulla provenienza e il destino dei prodotti, quasi approdassero sugli scaffali del supermercato piovuti dal cielo. In realtà ogni prodotto ha una sua storia ambientale, una sua storia sociale, addirittura una sua storia politica e a seconda della storia rischiamo di renderci complici di gravi misfatti.

Potremmo parlare del caffè: in Italia ne consumiamo ogni anno 5 chili a testa. Ogni mattino cominciamo la nostra giornata preparandoci una tazzina di caffè e, senza saperlo, la prima persona con cui entriamo in contatto è un contadino dell’Africa o un bracciante dell’America del Sud.

Fra contadini e braccianti, le persone che coltivano caffè sono 25 milioni. Contando anche i loro familiari, fanno 125 milioni di persone che vivono su questo prodotto. La loro condizione di vita dipende da un solo elemento: il prezzo che si forma a livello internazionale. Al supermercato, il caffè noi lo paghiamo fra i due e i tre euro a pacchetto, ma ai produttori arrivano solo le briciole. Una situazione simile a ciò che succede nell’ambito dei pomodori e delle arance in Italia un settore affollato da migranti costretti a lavorare dieci ore al giorno per 25 euro su cui gravano i taglieggiamenti da parte dei caporali.

23 aprile 2013

Con l’estendersi della globalizzazione lo sfruttamento del lavoro non si limita alle paghe da fame, ma compromette la vita stessa, come mostra il crollo del Rana Plaza, un edificio di Dacca che su quattro piani abusivi ospitava oltre 2.000 operaie che cucivano camicette per le più grandi marche mondiali. Quel palazzo non resse all

’eccesso di peso e il 23 aprile 2013 crollò seppellendo 1.500 persone.

Potremmo parlare dell’acqua in bottiglia di cui gli italiani sono i più grandi bevitori del mondo con un consumo pro capite annuo di 190 litri. Complessivamente nel 2014 ne abbiamo bevuta 10 miliardi di litri. Nel nostro paese il giro d’affari dell’acqua in bottiglia è di 2,2 miliardi di euro, suddiviso fra 180 imprese. L’acqua in bottiglia costa mediamente mille volte di più dell’acqua del rubinetto e i risultati si vedono: i profitti del settore ammontano a 110 milioni di euro. Gli enti locali danno il loro contributo rilasciando concessioni a prezzi ridicoli. L’acqua viene regalata alle imprese anche dove non ce n’è. Nel 2007 a Santo Stefano Quisquinna, una località in provincia di Agrigento, Sanpellegrino/Nestlè ha ricevuto in concessione due pozzi. Ci estrae acqua che rivende col marchio “Vera Santa Rosalia”. Un’autorizzazione per 36.000 litri l’ora che fa sognare l’amministratore delegato di Sanpellegrino: “È buona come l’acqua Vera. Contiamo di coprire il 50 per cento dei consumi dell’isola”. Intanto ad Agrigento, quaranta chilometri più in là, i rubinetti sono a secco vari giorni la settimana, talvolta anche per quarantotto ore di fila.

Togliere acqua alle popolazioni locali per permettere alle imprese di guadagnare su un vezzo, è uno scandalo degno soltanto del regno dell’imperatore Bokasso. Ma lo scandalo ancora più grave è che per vendere un litro di acqua se ne sprecano dodici, perchè questa è la quantità di acqua che serve per produrre i 40 grammi di plastica che formano la bottiglia. Per non parlare del petrolio utilizzato non solo come materia prima, ma anche come carburante per fare viaggiare l’acqua su e giù per l’Italia. La libertà di mercato esige che i veneziani bevano l’acqua Lete prodotta a Caserta e i casertani l’acqua San Benedetto prodotta a Venezia. In conclusione chi beve un litro d’acqua che ha fatto 1000 chilometri è come se bevesse tre quartini di petrolio di cui mezzo litro per trasporto e 160 centilitri per la plastica.

Acqua e petrolio

Spreco di acqua e spreco di petrolio sono solo una parte del problema ambientale scaricato sulla collettività. In Italia si bevono 11 miliardi di litri di acqua in bottiglia che richiedono 320/350mila tonnellate di plastica Pet (polietilene tereftato). Per ogni chilo di Pet ci vogliono 4 chili di petrolio, 300 litri di acqua, 3.700 litri di aria come coadiuvante dei processi chimici e di combustione. Dall’altra si rilasciano 5 kg di gas serra (qui il dossier sul clima Il bivio di Parigi, ndr), un peso indefinito di inquinanti tossici (benzene, arsenio, cadmio) e 180 g di scorie solide. Non è ancora arrivata nelle nostre case e l’acqua in bottiglia ha già prodotto un sacco di spazzatura, finchè la bottiglia non diventa essa stessa rifiuto.

I sette od otto miliardi di bottiglie di plastica messe ogni anno in circolazione non sono biodegradabili e se gettate in discarica formano una grande montagna che ci mette qualche centinaio di anni per disintegrarsi. Se incenerite possono produrre sostanze dannose come furani e diossine. Ma noi issiamo la bandiera del riciclaggio e pensiamo di salvarci. Illusione: i rifiuti creano problemi, sempre e comunque. Per cominciare va detto che in Italia si recupera solo il 60 per cento della plastica consumata e quella effettivamente riciclata non supera il 29 per cento. Morale della favola una buona metà del differenziato finisce nell’inceneritore. Un vero schiaffo al buonsenso, all’impegno degli italiani e agli alti costi di recupero.

Come consumatori ci troviamo nella parte finale della filiera e siamo molto sensibili al tema dei rifiuti nella forma di prodotti consumati. Ma la maggior parte di essi si producono mentre gli oggetti sono ancora in fase di costruzione, ben lontani dal consumo. Uno dei fattori d’inquinamento è il trasporto dei prodotti alimentari da un capo all’altro del mondo e proprio per attirare l’attenzione sull’inquinamento e lo spreco d’energia che si cela dietro ai chilometri percorsi dal nostro cibo, nel 1992 il ricercatore inglese Tim Lang ha coniato l’espressione Foodmiles.

Nel mercato globalizzato il cibo non conosce più confini. Viaggia da un punto all’altro del pianeta come se fosse su una giostra in perenne movimento. Nei supermercati ci sono le fragole del Sudafrica, anche quando i campi sono coperti di neve, i fagiolini dal Burkina Faso anche quando la nostra terra è indurita dal gelo, le pesche del Cile anche quando i nostri peschi sono ancora in fiore. Il supermercato si fa mondiale: i fiori dal Kenya, i fagiolini dal Burkina Faso, le magliette dal Bangladesh, le ciabatte dall’Indonesia. E con le distanze si moltiplicano le tonnellate di cherosene e le tonnellate di Co2. Ad ogni chilo di pere fatto arrivare dall’Argentina via aerea, corrisponde un consumo di 2,6 litri di cherosene e una produzione di 6,5 kg di anidride carbonica. Un vero assurdo non solo da un punto di vista ambientale ma anche energetico: si bruciano 53 calorie fossili per disporre di una caloria vegetale. Per non parlare dei trasporti interni: è stato calcolato che in Inghilterra i camion dei supermercati percorrono complessivamente 408 milioni di miglia, il corrispettivo di 854 viaggi andata e ritorno sulla luna. Ogni anno 600.000 tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera.

Consumo critico

Un modo per privilegiare gli acquisti locali e là costituzione dei Gruppi di Acquisto Solidale che consistono in gruppi di famiglie organizzate fra loro per effettuare gli acquisti direttamente dai piccoli produttori locali con lo scopo di potenziare il consumo locale e di sperimentare nuove relazioni economiche. Attualmente i gruppi di acquisto esistenti sono 1500. Benché ognuno abbia le sue particolarità, tutti sono animati dallo stesso spirito e sono organizzati sullo stesso modello. Ad esempio i compiti sono svolti a rotazione dai soci. C’è chi cerca i produttori, chi raccoglie gli ordini, chi ritira la merce, chi distribuisce i prodotti. Tutto in forma rigorosamente gratuita. Per questo il gruppo è definito solidale.

Se è fondamentale porre attenzione alla storia sociale e ambientale dei prodotti, è altrettanto importante concentrarsi sul comportamento di chi ce li offre. Di qui l’importanza del consumo critico. Talvolta, può esserci niente da ridire sul prodotto come tale, ma molto da obiettare sull’ impresa produttrice. Prendiamo come esempio l’olio a marchio Bertolli. In origine era espressione di una piccola azienda toscana, ma oggi questo marchio fa parte dell’impero Unilever che è la seconda multinazionale più grande del mondo del settore alimentare. Unilever possiede piantagioni di tè in Africa e India, è uno dei più grandi acquirenti di olio di palma e di cacao. Tutti settori estremamente critici caratterizzati da salari al limite della sopravvivenza, da problemi ambientali di ogni tipo e perfino dalla presenza di lavoro minorile talvolta in schiavitù. Unilever è anche un fornitore importante di prodotti alimentari all’esercito statunitense mentre in vari paesi del mondo è denunciata per atteggiamento antisindacale. Le critiche potrebbero continuare e non si limitano solo a materie correlate con la produzione, ma sfondano anche nel politico e nel sociale. Potremmo citare come esempio il coinvolgimento col commercio di armi, l’invasione della politica, l’elusione fiscale, la segretezza.

L’esperienza dimostra che dove i consumatori si fanno sentire, le imprese sono disposte a cambiare, non perché si convertono all’ambiente o alla giustizia, ma perché non vogliono perdere quote di mercato. Dunque ogni volta che andiamo a fare la spesa ricordiamoci che siamo potenti e che le imprese sono in una posizione di profonda dipendenza dal nostro comportamento di consumatori. Consumando in maniera critica è come se andassimo a votare ogni volta che facciamo la spesa. Votiamo sul comportamento delle imprese, premiando quelle che si comportano bene e punendo le altre. Alla lunga le imprese capiscono quali sono i comportamenti graditi dai consumatori e vi si adeguano instaurando fra loro una nuova forma di concorrenza, non più basata sulle caratteristiche estetiche ed economiche dei prodotti, ma sulle scelte sociali ed ambientali.

Ridurre e cambiare i consumi

Oltre che alla qualità dei prodotti bisogna porre attenzione anche alla quantità, non solo per ridurre i rifiuti, ma anche per salvaguardare le risorse. È evidente, ormai, che il livello dei consumi mondiali sta mettendo in crisi alcuni equilibri naturali fondamentali e sta intaccando le riserve di varie materie prime. È importante ridurre i nostri consumi per lasciare spazi di crescita agli impoveriti che hanno il diritto di mangiare di più, vestirsi di più, calzarsi di più, curarsi di più, studiare di più, viaggiare di più. Ma non possono farlo finché i benestanti non accettano di sottoporsi a cura dimagrante, perché c’è competizione per le risorse e gli spazi ambientali scarsi.

La soluzione è che i ricchi si convertano alla sobrietà. Ossia a uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali, in modo da lasciare ai poveri le risorse e gli spazi ambientali di cui hanno bisogno. La sobrietà non significa ritorno alla candela o alla morte per tetano. Significa eliminazione degli eccessi e rimodellamento del nostro modo di produrre e di consumare. Significa adottare uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali, ricordandoci che la civiltà, nel vero senso della parola, non consiste nella moltiplicazione dei bisogni, ma nella capacità di ridurli.

Nella vita di tutti i giorni, la sobrietà passa attraverso piccole scelte come quella di utilizzare meno auto più bicicletta, meno mezzo privato più mezzo pubblico, meno carne più legumi, meno prodotti globalizzati più prodotti locali, meno merendine confezionate più panini fatti in casa, meno cibi surgelati più prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata più acqua del rubinetto, meno cibi precotti più tempo in cucina, meno recipienti a perdere più prodotti alla spina, meno pasti ingrassanti più correttezza alimentare.

L’esperienza di Bilanci di Giustizia, un movimento di famiglie italiane che praticano il consumo responsabile, dimostra che la sobrietà è possibile, non costa niente, anzi fa risparmiare, e riempe di soddisfazione. La soddisfazione di sentirsi persone libere che decidono esse stesse cosa comprare.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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