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La Bottega del Barbieri

Il governo indiano contro agricoltori, ragazze e gesuiti

articoli di Chitra, Lucia Capuzzi, Satarupa Chakraborty, Geeta Pandey, musica e cinema (124a , con le parole di Charlie Chaplin e La tigre bianca, di Ramin Bahrani)


un film che verrà:

 

 

TROLLEY TIMES / IL TEMPO DEI TRATTORI. Il punto sulle mobilitazioni contadine in India

 

Trolley Times è infatti soprattutto il titolo di un giornale che può considerarsi ormai protagonista di questo movimento.

Un’iniziativa varata da un gruppo di giovani sikh, diventati a un certo punto ospiti fissi di quegli accampamenti che andavano crescendo alla periferia nord della capitale e via via contagiando anche altre aree, “per facilitare il collegamento tra tutti queste diverse aree della protesta, con le loro incredibili storie di resilienza durante uno degli inverni più freddi degli ultimi anni” ha raccontato uno dei fondatori, Jasdeep Singh, in una recente intervista al website svizzero pagesdegauche.ch.

Già durante il mese di dicembre, infatti, ai primi due accampamenti formatisi a Singhu e Tikri, nel punto di convergenza con la città di Delhi venendo dal Punjab, se ne erano aggiunti altri tre lungo la stessa enorme tangenziale, con distanze di decine di km tra un punto e l’altro. Jasdeep e compagni, tutti studenti con varie skills, individuarono una carenza di comunicazione che avrebbero potuto colmare magari sui social, o con l’ennesima pagina FB, e invece decisero di impegnarsi su una testata cartacea, che potesse proporsi anche come contenitore di grafica e creatività, e con storie ben scritte in Hindi e Punjabi, godibili anche per i molti anziani coraggiosamente accampati con le loro famiglie in quella sparsa tendopoli che stava diventando una multicity appena fuori dalla capitale.

Molti dei testi erano in effetti sintesi di note di diario, o dei frettolosi rapporti, scambiati su whatsapp o sui socials dai loro figli, generi, nipoti – e in focus sulle tante facce di quell’improvvisata comunità, unita sì da un unico obiettivo (la richiesta di abrogazione delle famose tre sfavorevolissime leggi da poco votate a sorpresa in Parlamento), ma non certo omogenea. Piccolissimi contadini o coltivatori senza terra accanto a quelli con proprietà considerevoli, dalits e braccianti a giornata provenienti magari da stati diversi del Punjab, e poi le tantissime e attivissime donne, i giovani, un mosaico di voci e istanze dal basso – accanto a contributi più ‘d’autore’ tradotti magari dall’Inglese.

“E non solo. Quello era il momento in cui – dopo l’iniziale sconcerto per i lacrimogeni che avevano accolto la processione dei trattori proveniente dal Punjab fino alle porte della capitale, quel 26 novembre in cui l’intera India si era messo in sciopero – il movimento stava guadagnando favore nell’immaginazione generale, presso quella stessa classe media normalmente indifferente alle sofferenze nelle campagne. E soprattutto nella percezione della quanto mai demoralizzata sinistra indiana, la compattezza e fermezza di quelle proteste contadine salutava il possibile inizio di un ben più ampia risposta allo strapotere del BJP” ha sottolineato Jasdeep Singh.

“Nel progressivo indebolimento delle istituzioni democratiche, dopo anni di Narendra Modi al governo, la sfiducia che possa emergere qualcosa di diverso dalle elezioni è molto sentita in India. E questo spiega il generale entusiasmo per questa protesta dal basso. Fin da subito l’immaginario collettivo ha percepito queste proteste come la versione moderna di quella freedom struggle che dagli inizi del 20imo secolo ha accompagnato il percorso di liberazione dell’India dall’oppressione coloniale. È stato tra l’altro bellissimo raccontare la progressiva integrazione della componente dalit, ovvero degli intoccabili, all’interno del movimento. La consapevolezza del pericolo che quelle tre leggi avrebbero rappresentato per l’intero settore agricolo dell’India, in quanto svendita agli interessi corporativi ha concorso alla percezione del ’nemico comune’ ed è stato un grosso ingrediente di unità per tutti, superando anche i peggiori pregiudizi di casta”.

Un ruolo particole in questo processo di collettiva emancipazione va riconosciuto alla numerosissima ala femminile del movimento. “Per noi che ci siamo uniti a queste proteste venendo da Delhi, è stata una vera rivelazione constatare l’attivismo, l’energia, la visibilità, il protagonismo, la capacità di auto-organizzazione, la consapevolezza del ’naturale’ ruolo di comunicazione e connessione delle donne, in tutti i siti che abbiamo avuto modo di osservare nell’ambito del nostro quotidiano reporting” ha osservato Jasdeep nella sua intervista

“Un contributo anche strategico che potrebbe considerarsi abbastanza normale all’interno della cultura sikh, ma che incredibilmente abbiamo visto crescere anche negli stati dell’Haryana e dell’ultra-conservatore Uttar Pradesh, man mano che gli accampamenti si allargavano anche a quelle aree immediatamente confinanti con Delhi. Donne che all’interno dell’induismo si sarebbero considerate gregarie, o in ruoli di servizio. Ma che questo movimento ha reso consapevoli della grandezza della propria forza, capacità, diritti, promuovendo tra l’altro un empowerment totalmente armonico rispetto ai loro compagni, mariti, padri, figli, ben contenti (per esempio) di stare ai fornelli, oppure addetti alle tonnellate di chapati per poter sfamare tutti, insomma sì, una rivoluzione.”

https://serenoregis.org/2021/03/26/trolley-times-il-tempo-dei-trattori/ 

 

la marcia dei trattori:

 

una canzone dalla parte degli agricoltori:

 

 

Covid-19 ha messo a nudo le lotte e lo sfruttamento che le lavoratrici e i lavoratori domestici devono affrontare – Satarupa Chakraborty*

Dal rapporto dell’Economic and Political Weekly risulta che in India ci siano più di 50 milioni di lavoratrici e lavoratori domestici, una forza lavoro costituita per oltre il 75% da donne.

A Bangalore, capitale del Karnataka, uno stato dell’India meridionale, ci sono circa 400.000 lavoratrici e lavoratori domestici. Il loro lavoro non è tuttavia riconosciuto, e così sono privati dei diritti sindacali, di condizioni di impiego regolari e del rispetto, un fatto che è emerso con ancora maggiore evidenza dall’inizio della pandemia.

I lavoratori migranti dell’India, che si spostano dalle aree rurali a quelle urbane in cerca di un’occupazione remunerativa, mantengono le proprie famiglie nei villaggi con rimesse che rappresentano gran parte del loro salario. Vivono in anguste baracche fatte di teloni e lamiere, in una città tentacolare in cui il costo della vita è crescente.

In India non esiste una legislazione nazionale che garantisca ai lavoratori domestici condizioni di impiego regolari, un salario minimo e condizioni di lavoro decenti. Le lavoratrici sono spesso alla mercé dei loro “datori di lavoro”, il che può significare minacce, intimidazioni e violenza; alla maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori domestici il riposo settimanale, festività o ferie retribuite, anzi nei giorni di festa il loro lavoro aumenta fortemente. Inoltre non hanno diritto a nessun sussidio sociale ed economico da parte dello stato.

La segretaria generale del sindacato dei lavoratori domestici, affiliato al CITU (Centre of Indian Trade Unions) riferisce che le minacce di violenza più comuni emergono quando una lavoratrice chiede un aumento del salario o si rifiuta di svolgere compiti diversi da quelli concordati nelle trattative verbali al momento dell’assunzione, o quando una lavoratrice resiste agli abusi sessuali del “datore di lavoro” maschio. Intimorite dalla minaccia che costui possa sporgere una denuncia di furto alla polizia contro di loro (anche se sono innocenti), la maggior parte delle lavoratrici domestiche evitano di sporgere denuncia, temendo di perdere il lavoro, di subire ritorsioni su di loro o sulle loro famiglie.

La lotta dei sindacati e delle organizzazioni per salvaguardare i diritti e la vita delle lavoratrici e dei lavoratori domestici ha spinto il governo centrale a introdurre nel 2017 la Legge sui lavoratori domestici (Regolamentazione del lavoro e Previdenza Sociale).

Ciò nonostante, non solo il loro lavoro è invisibile, ma loro stesse/i sono visti come persone subumane.

Occorre combattere questa mentalità e le pratiche disumane che ne derivano con una lotta organizzata delle lavoratrici domestiche per risolvere le loro angustie quotidiane e far progredire la loro vita sociale.

[*Satarupa Chakraborty è un’attivista della AllIndia Democratic Women’s Association (AIDWA). È una Globetrotter/Peoples Dispatch fellow e una ricercatrice al Tricontinental: Institute for Social Research ed è attualmente basata nell’ufficio di Nuova Delhi in India.]

Kajita (28 anni) e Noor (45 anni)

Kajita (28 anni) e Noor (45 anni) sono lavoratrici giunte dal Bengala occidentale a Bangalore, metropoli di 8,5 milioni di abitanti. Abitano in una baraccopoli nell’area di Thubarahalli, a est della città, celata dagli edifici che stanno sorgendo in un quartiere di lusso che collega i due maggiori centri Information Technology (IT), Marathahalli e Whitefield.

Prima che il lockdown nazionale fosse annunciato nel marzo 2020, Kajita iniziava la sua giornata di lavoro alle 4:45 e tornava a casa dopo le 21. Lavorava per più di 15 ore al giorno in 10 famiglie. Noor andava a lavorare alle 5:45 del mattino e tornava verso le 18:30. Lavorava in quattro famiglie: otto ore in una casa e poi divideva il resto del tempo lavorando in altre case. Una lavoratrice giovane, come Kajita, può lavorare in una dozzina di case per aumentare il suo reddito, invece, quelle più anziane, come Noor, di solito lavorano 8 o 12 ore con una sola famiglia e cercano di trarre da lì la maggior parte del loro reddito.

Il salario di Kajita e Noor proviene dal loro lavoro fisico pesante e sottovalutato. Prima dell’annuncio del lockdown in India il loro reddito bastava appena a sostenere se stesse e le loro famiglie.

Quanto hanno guadagnato in un decennio di lavoro non è bastato a migliorare il loro tenore di vita e neppure ha garantito loro durante la pandemia di rimanere in casa, senza rischi.

Quando è iniziato il lockdown, Kajita, Noor e le altre lavoratrici domestiche si sono trovate per più di quattro mesi senza lavoro. Uno dei “datori di lavoro” di Kajita le ha pagato i primi due mesi di salario ad inizio lockdown, mentre gli altri si sono rifiutati di pagarla, cosicché per diversi mesi ha perso circa il 90% del suo reddito mensile. Noor ha ricevuto la metà del suo salario per i primi due mesi del lockdown.

Attualmente Kajita guadagna 7.000 rupie (96 dollari) al mese – una drastica riduzione del suo reddito di oltre il 70% rispetto alle 30.000 rupie (413 dollari) al mese che guadagnava prima del lockdown. Noor ne guadagna 11.500 rupie (158 dollari) – un calo di quasi il 50% rispetto alle 20.000 rupie (275 dollari) al mese.

Se è calato il salario, la spesa delle famiglie è aumentata in proporzione al reddito. Anche durante il lockdown, Kajita e Noor hanno dovuto pagare 2.500 rupie (34 dollari) ciascuno per l’affitto delle loro baracche e le bollette elettriche, e per le taniche di acqua potabile, che non c’è negli slums.

Ad ottobre 2020, Noor ha riferito che sono riusciti a sopravvivere per più di due mesi, grazie ai pacchetti alimentari di un mese ricevuti da alcune organizzazioni come il Centro dei sindacati indiani e Bharat Gyan Vigyan Samiti. Non avevano mai visto questo tipo di miseria prima.

India: sfruttamento e lotte delle lavoratrici e dei lavoratori domestici ai tempi del covid 19 – S. Chakraborty

 

Occhi sull’India: agricoltori uniti contro le riforme agricole – Chitra

L’inverno è una stagione produttiva

Per gli agricoltori in India, è la stagione del rabi, in cui vengono coltivati alimenti essenziali come grano, orzo, lenticchie, piselli e patate, tra gli altri. Poiché le colture di rabi hanno bisogno di un clima caldo per germogliare e di un clima freddo per crescere, vengono piantate durante la stagione dei monsoni e raccolte in primavera. Questo inverno, tuttavia, gli agricoltori di tutta l’India sono stati costretti a lasciare i loro campi e le risaie per dedicarsi a un diverso tipo di lavoro. Sono passati più di due mesi da quando si sono accampati ai confini di Delhi in una dharna indefinita. Sebbene dharna possa essere semplicemente tradotto con “sit-in”, in hindi il termine non implica solo l’occupazione fisica dello spazio ma anche un esercizio di perseveranza: fissare la propria mente su un obiettivo o risultato chiaro. In termini di applicazione pratica, una dharna di solito si svolge alla porta di un delinquente o di un debitore ed è uno strumento mediante il quale le componenti più vulnerabili della società possono costringere un soggetto più potente a rispondere alle loro richieste. Per esempio, una dharna potrebbe essere messa in scena al di fuori dell’ufficio di un esattore delle tasse, del capo di una azienda o della casa di un proprietario. Nel caso della protesta dei contadini, il colpevole sembra essere il governo centrale che, mentre presiedeva gli uffici parlamentari di Delhi, ha approvato una serie di progetti di legge che ribaltano completamente il modo in cui si regola l’agricoltura in India.

Il punto cruciale delle 3 proposte di legge può essere riassunto come segue:
  • La creazione di nuovi spazi commerciali che aggirano le restrizioni esistenti sulla vendita e l’acquisto di prodotti agricoli.
  • L’abilitazione dell’agricoltura a contratto con obblighi minimi (a differenza dell’attuale accordo, gli agricoltori saranno in grado di commerciare in diversi stati).
  • La rimozione delle restrizioni sulle scorte di merci essenziali (il che significa che i grandi acquirenti possono trarre profitto dall’accumulazione).

Gli agricoltori devono essere consapevoli dei molteplici fattori che influenzano la crescita, la resa e il commercio dei raccolti. Ciò include la conoscenza della maturità del raccolto, delle variazioni del clima e della qualità del suolo, nonché il prezzo di fertilizzanti e benzina, e anche fattori logistici come la disponibilità di strutture di trasporto e stoccaggio. In questo modo, l’agricoltura è un’attività che comporta molti rischi e variabili che vanno oltre il solo lavoro degli agricoltori. Capire questo aiuta a chiarire meglio perché le nuove riforme proposte dal governo indiano stanno subendo una così feroce resistenza da parte di coloro che hanno passato tutta la vita a lavorare la terra. Nonostante la retorica neoliberale usata per persuadere gli agricoltori – per esempio che le nuove riforme garantiscano loro una maggiore “libertà” di vendere a qualunque prezzo vogliano e farla finita con l’“uomo di mezzo”, l’intermediario – gli agricoltori temono che l’apertura di uno spazio di mercato parallelo, come propone il primo disegno di legge, porterà inevitabilmente al crollo del sistema mandi attualmente in vigore.

 

Il sistema mandi: aste regolamentate e consolidate

In India, i mandi sono spazi d’asta regolamentati in cui i prodotti agricoli vengono acquistati e venduti in base a una serie di accordi specifici dello stato. In questi spazi, i commercianti all’ingrosso e al dettaglio non possono acquistare direttamente dagli agricoltori e le transazioni vengono invece effettuate tramite commercianti autorizzati che fungono da salvaguardia contro lo sfruttamento dei prezzi. Il sistema mandi dovrebbe anche garantire agli agricoltori un prezzo minimo di sostegno (Msp) per determinate colture, ovvero un prezzo al quale lo stato deve acquistare i loro prodotti. Ciò garantisce che il lavoro del raccolto non vada sprecato, sebbene gli agricoltori dicano che spesso finiscono comunque per ricevere un prezzo al di sotto del minimo. Anche se da tempo gli agricoltori chiedono riforme nel sistema, sono convinti che la soluzione non sia abolirlo. In stati come il Bihar, dove i mandi sono già stati sciolti con il pretesto di promesse simili, ciò ha solo portato a una maggiore volatilità dei prezzi dei cereali e alla monopolizzazione dei mercati da parte delle grandi aziende agricole. Gli agricoltori del Bihar, che sono tra i più poveri del paese, riferiscono anche che le loro scorte possono rimanere inutilizzate per mesi senza ricevere alcun pagamento e che sono spesso costretti a vendere a prezzi poco convenienti per liberarsene.

Non c’è libertà a meno che non ci venga garantito un prezzo minimo o garantita la possibilità di far sentire la nostra voce all’alta corte o alla Corte Suprema. Ora hanno detto (secondo le nuove proposte di legge) che puoi solo andare all’Sdm (tribunale inferiore) e, come sappiamo, l’Sdm appartiene a chi ha i soldi.

 

La riforma si abbatte sui piccoli agricoltori…

L’elenco delle complicazioni che circondano le leggi è ampio. In India, gli agricoltori piccoli e marginali (che possiedono meno di due ettari di terra) costituiscono l’86,2% di tutti gli agricoltori, ma possiedono solo il 47,3% della superficie coltivata. Inutile dire che questi agricoltori sono destinati a essere colpiti in modo peggiore rispetto ai proprietari terrieri più grandi e probabilmente, a lungo termine, saranno costretti a vendere la loro terra. Tuttavia, anche queste statistiche trascurano una quota fondamentale della forza lavoro agricola: le donne. A causa del fatto che l’agricoltura è vista prevalentemente come una professione “maschile”, le donne sono troppo spesso escluse dalla narrazione sull’agricoltura indiana. Questo nonostante il fatto che le donne rappresentino la maggioranza dei lavoratori agricoli complessivi (70%) e tendano anche a lavorare più ore rispetto agli uomini, pur possedendo solo il 12,8% dei terreni agricoli. Le donne contadine, a cui raramente viene concesso il potere decisionale in famiglia – per non parlare del potere di negoziare con le grandi compagnie – saranno senza dubbio quelle che soffriranno di più a causa dei nuovi accordi agricoli dell’India. Oltre a dover affrontare l’espropriazione economica (con scarse possibilità di occupazioni alternative), dovranno anche sostenere il peso di gestire la carenza di cibo in casa, che è quasi inevitabile se alle imprese viene consentito di accumulare beni essenziali.

 

… e la mobilitazione parte dal Punjab

A differenza del lavoro agricolo e del suo collegamento ai cicli stagionali, il lavoro dei governi fascisti è più in sintonia con i cicli di crisi e opportunità. E quale migliore opportunità per approvare una serie di proposte di legge contro i poveri, contro le donne e contro gli agricoltori che nel bel mezzo di una crisi sanitaria globale? Tuttavia, nel rendersi conto di alcuni dei modi in cui gli agricoltori rischiano di soccombere, quelli dello stato del Punjab (il terzo più grande stato produttore di colture in India) sono stati tra i primi a mobilitarsi dopo che le leggi sono state promosse in parlamento lo scorso settembre. Avendo avuto luogo senza alcuna consultazione pubblica o il coinvolgimento esplicito dei governi statali, molte persone hanno anche sottolineato che le leggi erano completamente incostituzionali. Tuttavia, dopo due mesi di proteste locali e nessuna risposta da parte del governo centrale, i contadini del Punjab hanno deciso di lanciare un appello per assaltare la capitale, portando le loro lamentele direttamente al parlamento. Con lo slogan #dillichallo (andiamo a Delhi), la chiamata è stata sostenuta dagli agricoltori del vicino stato di Haryana che si sono uniti a loro sulle autostrade. È solo dopo essere arrivati ai confini di Delhi che i contadini sono stati fermati dalla polizia pesantemente armata e dalle forze di azione rapida (Raf). Eppure qualcosa di incredibile era già avvenuto nel processo.

Creare ostacoli nell’anno del Covid rinfocola una reazione collettiva

Dopo essersi lasciati andare all’arresto indiscriminato di studenti attivisti durante tutto l’anno, oltre a smantellare le leggi sul lavoro e le politiche di protezione ambientale, i conti con le aziende agricole era forse solo un altro obiettivo che il governo di Modi pensava di poter raggiungere all’ombra della pandemia. Dal punto di vista di quelli di noi impegnati nei sit-in della capitale, forse inizialmente sembrava anche così. Tuttavia, mentre gli agricoltori del Punjab si facevano strada verso di noi, siamo rimasti incollati ai nostri feed dei social media e alle possibilità politiche che si stavano aprendo davanti ai nostri occhi. Le autostrade dell’India sono state improvvisamente trasformate in un palcoscenico per eroici atti di disobbedienza, con video di persone che lanciavano transenne della polizia nel fiume e trattori che tiravano via lastre di cemento che proliferavano nello spazio digitale. Facendosi strada tra cannoni ad acqua e lanci di gas lacrimogeni, i contadini erano riusciti a capovolgere la situazione: non era l’indebolimento della marcia, ma la brutalità dello stato che, appunto, veniva smascherato. Penetrando attraverso la dissoluzione e la depressione politica che annebbiano i nostri cuori, tali scene ci hanno lasciato sbalorditi. Una battaglia era certamente iniziata, e mentre il governo era impegnato a scavare buche nella strada, ogni ostacolo che i contadini riuscivano a superare alimentava solo ulteriormente lo spirito collettivo.

All’inizio abbiamo sentito che Delhi è così lontana, cosa faremo una volta arrivati? Ma ogni trattore e camion ha riempito da 5 a 10.000 rupie di diesel per arrivare qui perché sappiamo che se non prendiamo una posizione ora, non saremo in grado di stare in piedi.

Una volta raggiunta Delhi, anche gli agricoltori di molti altri stati dell’India hanno cominciato ad affluire, insieme agli studenti, ai sindacati dei trasporti e agli alleati di diversi settori. Dormire dieci per un camion, al riparo di una stazione di servizio abbandonata, o in tende improvvisate tra pneumatici di trattori e carrelli, attualmente occupano cinque principali autostrade che portano in città. L’atmosfera è gioiosa, con cucina, giochi di carte, discorsi e kirtan dal vivo (canto devozionale) che si svolgono l’uno accanto all’altro. Secondo la pratica sikh, numerose cucine comunitarie (langar) sono state istituite in tutto il sito e chiunque e tutti i passanti sono incoraggiati a sedersi e mangiare. Con rifornimenti freschi in arrivo dai villaggi del Punjab e dell’Haryana ogni giorno, i contadini si vantano di avere abbastanza da sfamare se stessi e l’intera Delhi. Nei primi giorni della dharna, l’India ha anche assistito al più grande sciopero della storia mondiale, con oltre 250 milioni di lavoratori che si sono schierati a sostegno degli agricoltori. Sotto la bandiera di #bharatbandh (chiusura dell’India), si sono svolte marce in varie città del paese, con canti di kisaan majdoor ekta zindabad (lunga vita all’unità dei contadini e dei lavoratori) che hanno riempito le strade. «L’intero paese si è riunito. Se Modi non avesse fatto questa legge non avremmo saputo della situazione degli agricoltori in luoghi diversi. Non saremmo stati in grado di unirci … ora non puoi fare distinzioni anche tra di noi!».

Ambiente vs. neoliberismo

Tuttavia le attuali proteste dovrebbero essere viste come il punto di svolta all’interno di una lunga storia di disagio agrario, che è stato solo esacerbato da quando Modi è salito al potere nel 2014. Un’indicazione di ciò risiede nei tassi catastrofici di suicidio degli agricoltori in India, con oltre 20.000 agricoltori che hanno riferito di essersi tolti la vita tra il 2017 e il 2019: stress finanziario legato a prestiti predatori, alti oneri del debito e la pressione che ciò esercita sui rapporti personali sono stati identificati come tra le ragioni principali. Naturalmente ci sono anche fattori meno percettibili di cui tenere conto. Gli agricoltori in India, come nel resto del mondo, sono in prima linea nella crisi climatica e i cambiamenti nelle condizioni meteorologiche e delle precipitazioni hanno avuto effetti devastanti sui raccolti. Anche le politiche di pianificazione in India trascurano ampie aree rurali, dedicando invece risorse statali allo sviluppo di economie produttive e di servizi. Di conseguenza, i sindacati degli agricoltori si sono da tempo organizzati in tutto il paese, con azioni particolarmente intense in risposta alle successive politiche neoliberiste introdotte con Modi. Oltre alla mobilitazione sindacale, è necessario riconoscere che gran parte della forza dietro l’attuale agitazione proviene dagli agricoltori sikh della regione del Punjab, per i quali l’agricoltura è parte integrante dell’identità culturale. Dopo aver subito la divisione del Punjab (la loro patria originale) nel 1947, e un genocidio per mano dello stato indiano nel 1984, anche la comunità sikh è stata sistematicamente cacciata e detenuta per decenni come parte delle guerre segrete dell’India contro le sue “minacce alla sicurezza” percepite. Questa storia di lotta e il particolare rapporto con lo stato indiano da questa generato rafforza il movimento contro le tattiche di divisione dello stato. Per questa ragione, tra le diverse bandiere sindacali, si trova anche la Nishaan Sahib (una bandiera Sikh) che viene issata. Tra le varie fazioni di contadini, si trovano anche Nihang Sikh che si prendono cura dei loro cavalli e praticano le loro abilità con la spada. In qualità di esercito ufficiale della comunità sikh, si sono schierati in prima linea sulle barricate, direttamente di fronte alla polizia e alle forze della Raf.

Fanno volare i droni sul sito ogni giorno per guardarci e tenere d’occhio il movimento.

Ma vedi quel Baaj [falco] nel cielo? Appartiene al Nihang. Abbiamo la nostra sicurezza, vedi.

Nonostante i molteplici round di colloqui tra leader sindacali e funzionari governativi, la situazione rimane in una condizione di stallo politico. Gli agricoltori da un lato sono risoluti a non accettare niente di meno del ritiro completo delle fatture e hanno inoltre richiesto che l’Msp sia convertito in legge per tutte le colture e in tutti gli stati, poiché questo è l’unico modo per garantire la sua corretta attuazione. Il partito al potere, d’altra parte, è impegnato nelle sue campagne di propaganda, dipingendo gli agricoltori come separatisti militanti o come confusi sui termini delle fatture. Collaborando con la polizia, ha anche inviato assassini pagati (che sono stati catturati dai manifestanti) per eliminare i leader sindacali e molti altri recentemente, hanno usato scagnozzi assunti per lanciare pietre contro i manifestanti e abbattere le loro tende. Tuttavia, fino ad ora, a ogni attacco è stato risposto da un numero ancora maggiore di agricoltori arrivati sul posto. In un paese di oltre 1,3 miliardi di cui il 70 per cento dei mezzi di sussistenza sono legati all’agricoltura, i numeri sono uno dei maggiori punti di forza che gli agricoltori hanno.

Anche la mia figlia più piccola mi dice di non tornare a mani vuote: «Legate Modi e portatelo di nuovo qui (in Punjab) su un trattore».

Eppure l’inverno è anche la stagione più dura

Soprattutto i mesi di dicembre e gennaio in cui le temperature quest’anno sono scese fino a 1° Celsius a Delhi. È importante notare che la stragrande maggioranza di coloro che sono accampati alle frontiere sono anziani, molti dei quali anche affetti da malattie croniche. Tra i 170 contadini martirizzati dall’inizio delle proteste a settembre, molti sono morti a causa della loro esposizione al freddo e all’esaurimento generale. Altri sono morti per incidente stradale o suicidio. Tuttavia, la dharna rimane incrollabile. Tutti gli agricoltori intervenuti hanno detto che non avevano intenzione di andarsene fino a quando le loro richieste non saranno soddisfatte, non importa quanti mesi o anni questo può richiedere. In tal modo, gli agricoltori spesso si riferivano a vite oltre la loro; dei loro figli, nipoti e pronipoti a venire. In India, la terra non costituisce solo fonte di reddito e sicurezza sociale, ma è anche profondamente implicita nella nozione di famiglia. Quindi rappresenta un senso di continuità; una promessa tra antenati e generazioni future quella attuale generazione di agricoltori intende mantenere.

A partire dal 29 gennaio, il governo indiano ha chiuso i servizi Internet nei vari siti di protesta situati ai confini di Delhi. Anche l’elettricità e l’acqua sono state interrotte e le punte di ferro sono state cementate sulla strada per impedire l’arrivo di altri manifestanti. Con il dispiegamento della sicurezza intensificato alle frontiere e il crescente arresto e detenzione di giornalisti, la Fortezza Delhi è l’ultima strategia per isolare gli agricoltori e reprimere il movimento. Adesso è un momento critico. Questo governo è guidato da un uomo che ha già commesso due massacri sponsorizzati dallo stato. Abbiamo bisogno di occhi sull’India.

Traduzione di Masha e Nicola

[L’articolo non riporta i cognomi dell’autrice e dei traduttori per preservare la loro libertà e integrità]

da qui

 

 

Padre Stan resta in cella: niente cauzione per il gesuita 83enne – Lucia Capuzzi

I giudici di Mumbai hanno rifiutato la richiesta della difesa di Padre Swamy, in prigione dall’8 ottobre nonostante il Parkinson. Il religioso aveva denunciato gli abusi sugli Adivasi

Padre Stan resta prigioniero e, là, nel carcere di Taloja, con tutta probabilità, trascorrerà l’84esimo compleanno, il prossimo 26 aprile. Il tribunale di primo grado di Mumbai ha rifiutato la richiesta del rilascio su cauzione nei confronti del gesuita Stan Swamy, in cella dall’8 ottobre scorso, nonostante l’età avanzata e il Parkinson. La difesa, però, guidata dagli avvocati Sharif Sheik e Kritiga Agarwal, non è disposta ad arrendersi. E ha già annunciato il ricorso in appello. Ci vorranno, però, ancora molti mesi. Il superiore dei gesuiti dell’Asia del sud, padre Jerome Stanislaus D’Souza, si è detto «rattristato» dal nuovo rifiuto. Dalla prigione, padre Stan ha manifestato serenità, consapevole che «i pedali della giustizia ruotano con lentezza». Il religioso è accusato, insieme ad altri quindici attivisti per i diritti umani, di «sovversione» in base alla draconania legge anti-terrorismo approvata dal governo nazionalista di Narendra Modi. I sedici erano impegnati nella difesa delle minoranze. In particolare, padre Stan aveva denunciato gli espropri di terre da parte di latifondisti e multinazionali ai danni degli indigeni Adivasi.

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/padre-stan-no-rilascio

 

 

Questioni di moda

 

Why India is talking about ripped jeans and knees – Geeta Pandey

Denim – the favourite punching bag of Indian patriarchs who routinely blame the fabric for the moral degradation of youth – is back in the news.

 

The latest to be riled by jeans is Tirath Singh Rawat, the newly-appointed chief minister of the northern Indian state of Uttarakhand.

Earlier this week, he blamed “ripped jeans” for all that ails the young.

Speaking at a workshop organised by the State Commission for Protection of Child Rights, Mr Rawat criticised an unnamed woman he met on a flight.

The woman, he said, was travelling with two children and was “wearing boots, jeans ripped on the knees, and had several bracelets on her arm”.

“You run an NGO, wear jeans ripped at the knees, move about in society, children are with you, what values you will teach?” he asked.

A member of Prime Minister Narendra Modi’s Hindu nationalist Bharatiya Janata Party, Mr Rawat went on to describe ripped jeans as clothing that both caused and was symptomatic of moral turpitude and criticised parents for allowing their children, especially girls, to wear them.

The chief minister chastised Indians for “running towards nudity” and claimed that “while people in India were wearing ripped jeans, those abroad were covering their bodies properly and doing yoga”.

Mr Rawat’s comments attracted widespread condemnation in India.

The opposition Congress party issued a statement asking him to “apologise to all Indian women” – or resign.

On Thursday, senior party leader Priyanka Gandhi Vadra shared photographs of PM Modi and one of his cabinet colleagues “showing their knees”:

Oh my God!!! Their knees are showing

continua qui

 

 

La scorsa settimana in India sui social network è circolato molto l’hashtag #RippedJeans, spesso accompagnato da foto in cui donne indossavano jeans strappati all’altezza delle ginocchia, di quelli che vanno di moda da diversi anni. L’hashtag è stato un gesto di risposta verso un importante politico indiano che aveva denigrato una donna perché indossava jeans strappati e aveva accostato al suo abbigliamento una mancanza di valori, ma non solo. Tra i critici si è aperto un dibattito su come la società patriarcale indiana cerchi di controllare il modo in cui si vestono le donne, riconducendo almeno in parte al loro abbigliamento la responsabilità per eventuali violenze sessuali subite.

La storia era iniziata qualche giorno fa, quando durante un recente viaggio in aereo il nuovo primo ministro dello stato dell’Uttarakhand, Tirath Singh Rawat, aveva incontrato una giovane donna che viaggiava coi suoi due figli e «indossava stivali e jeans strappati sulle ginocchia». In una successiva conferenza sui diritti dei bambini, Rawat, che è membro del partito conservatore del primo ministro indiano Narendra Modi (il BJP), si era chiesto retoricamente che tipo di valori potesse insegnare la donna ai suoi figli. Aveva poi detto che questo abbigliamento era sia un sintomo che una conseguenza della depravazione morale nella società indiana, e che mentre in India la gente indossa i jeans strappati «avvicinandosi alla nudità», all’estero le persone «si coprono adeguatamente e praticano lo yoga».

Le parole di Rawat hanno fatto discutere parecchio.

Il Partito del Congresso, di opposizione, ha chiesto a Rawat di chiedere scusa a tutte le donne indiane. Molte donne hanno pubblicato foto in cui indossavano jeans strappati o pantaloni corti con gli hashtag #RippedJeans o #RippedJeansTwitter. Un alto funzionario della polizia indiana, Dipanshu Kabra, ha scritto su Twitter: «Sono sempre meglio i jeans strappati che una mentalità lacerata», condividendo le immagini di una donna che getta immondizia in strada e di uomini che orinano contro un muro.

La leader del Partito del Congresso, Priyanka Gandhi Vadra, ha condiviso alcune foto di Modi e di altri membri del governo che indossavano calzoni corti, commentando: «Oddio, si vedono le loro ginocchia!»…

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La tigre bianca – Ramin Bahrani

è da molto che seguo Ramin Bahrani, e diventa sempre più bravo.

è il quinto suo film che vedo e sono d’accordo con Roger Ebert, che qui scriveva: “Bahrani is the new great American director”.

con La tigre bianca riesce ad arrivare al grande pubblico, via Netflix, e tutti potranno apprezzare questo film.

per chi ancora non lo sa, è tratto da un bel romanzo indiano ed è un film che ricorda sia The Millionaire, sia Parasite, ha molti elementi dell’uno e dell’altro, entrambi film memorabili.

come in Parasite la dialettica servo-padrone è in primo piano, è l’asse portante del film.

tutti gli attori sono bravissimi, ma Adarsh Gourav, il protagonista, più di tutti.

buona, imperdibile, visione

https://markx7.blogspot.com/2021/03/la-tigre-bianca-ramin-bahrani.html 

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Cara Redazione de la Bottega del Barbieri,

    i contadini indiani che lottano per la tutela della casa e della loro terra, fonte della loro sopravvivenza sono per me, da tempo, un grande esempio per tutti Noi.

    Ho seguito un po’ le lotte dei contadini che vivono ed operano sulle rive del fiume Ramada contro l’ampliamento della diga Enel

    E confesso che sono un grande stimatore di Indira Shiva che alcuni anni fa è venuta a Venezia per parlarci di queste lotte !

    Se è deprecabile il comportamento di tanti Governi africani che erano essi Stessi a vendere i giovani più in salute ai pirati portoghesi che li andavano a vendere nei campi di cotone Texani, oggi maggiormente è deplorevole la condotta di questo Governo indiano tiranno che sta svendendo il futuro del suo popolo.

    Credo che il nostro ruolo di militanti per la tutela del diritto all’acqua e ai beni comuni (e anche la terra da coltivare per me è un bene comune che bisogna sottrarre alle mire accaparratrici delle grandi società multinazionali delle mono/colture!) sia quello di stare a fianco dei contadini e a tutti questi giovani che collaborano con loro!

    … e non solo a quelli Indiani e degli altri Paesi, in particolare del Centro e Sud/America, ma anche di quelli che anche in Italia stessa lottano per gli stessi problemi e diritti dato che le politiche liberiste e privatizzatrici e la stessa riforma del commercio hanno contribuito pesantemente svuotato tante campagne e a distruggere la stessa memoria storica, culturale e di vocazioni lavorative di tante zone interne, montuose e collinari del nostro Paese

    … e anche i sacrosanti diritti del Mondo del lavoro !

    Questo non dobbiamo dimenticarlo!

    Cordiali saluti, Onofrio Infantile di Salerno

    Lunedì, 5 aprile 2021

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