Il Guatemala sull’orlo del precipizio

di David Lifodi

In Guatemala i diritti civili, sociali e politici sono un miraggio: poco più di un mese fa i rappresentanti delle comunità indigene del paese centroamericano hanno accusato le imprese europee di violare i diritti umani. Gli sgomberi forzati delle comunità sono una triste realtà, al pari della criminalizzazione dei movimenti sociali, che emerge ogni qualvolta la società civile prova a bloccare i principali progetti di sfruttamento del territorio, soprattutto quelli minerari. La persecuzione e il carcere contro gli attivisti sociali sono la norma e stanno raggiungendo i livelli degli anni ’80, durante i quali spadroneggiava il dittatore Ríos Montt. L’ex presidente degli anni 1982-1983 ha sulla coscienza la morte di quasi duemila persone, in maggioranza indigeni maya ixil, ma è riuscito a salvarsi da una condanna a 80 anni di carcere emessa solo pochi giorni fa dal Tribunal Primero de Mayor Riesgo A e ribaltata dalla Corte Costituzionale.

Di fronte ad uno scenario politico che si va caratterizzando sempre più come una “democratura”, una democrazia formale mascherata da dittatura, il 1 maggio le organizzazioni sociali guatemalteche hanno convocato la Marcha por la Paz, la Justicia y los Derechos individuales y colectivos de los Pueblos. Le comunità indigene hanno contestato l’estrazione mineraria in Guatemala, il saccheggio delle risorse naturali, l’acqua in primis, e hanno denunciato la militarizzazione del territorio: è ancora vivo il ricordo del drammatico 1 maggio di un anno fa a Santa Cruz Barillas, quando le guardie armate dell’impresa Hidro Santa Cruz, affiancate dai militari dell’esercito guatemalteco, uccisero tre dirigenti indigeni impegnati in una dura battaglia per impedire la costruzione di una centrale idroelettrica sul fiume Canbalam, nel dipartimento di Huehuetenango. In due anni il governo del presidente Otto Pérez Molina, ex militare in pensione che ebbe un ruolo di primo piano nella repressione delle comunità indigene negli anni ’80 (sebbene millanti il suo ruolo di mediatore negli accordi di pace di fine dicembre 1996), ha  legalizzato la persecuzione contro gli attivisti per i diritti umani, ha cavalcato la campagna di discredito nei confronti delle organizzazioni popolari e, a livello economico, si è reso responsabile del peggioramento delle condizioni di vita della popolazione guatemalteca, buona parte della quale già viveva sotto il livello di povertà. Del resto, in Guatemala la destra neoliberista sta da tempo conducendo una battaglia delle idee che mistifica la realtà dei fatti. Gli assi portanti di questa campagna di disinformazione sono almeno cinque. Il primo consiste nell’equiparare la pace alla rinuncia a lottare per la memoria, la giustizia e la verità: adesso non c’è più il conflitto armato interno, non siamo più in una situazione di guerra e, di conseguenza, il conflitto sociale non ha motivo di esistere. Lo stesso Otto Pérez Molina, che più volte ha dichiarato di non poter affermare con certezza che in Guatemala vi sia stato un genocidio, aveva sentito il bisogno di intervenire da Haiti, dove si trovava per il vertice dei capi di stato dell’Asociación de Estados del Caribe (Aec), per sottolineare come il processo a carico di Montt fosse un fatto storico, ma rischiava di causare una forte polarizzazione all’interno della popolazione guatemalteca. Un secondo aspetto riguarda l’utilizzo delle parole: il termine genocidio non viene mai utilizzato dai vertici dello stato, nonostante sia stato proprio a causa dell’operazione tierra arrasada, di cui Ríos Montt e il suo predecessore, Lucas García, furono i principali fautori, che  si compì una vera e propria mattanza ai danni degli indigeni maya. Furono centinaia i villaggi indigeni dati alle fiamme perché accusati di offrire copertura alla guerriglia: soprattutto nel periodo 1978-1983 le esecuzioni extragiudiziali erano all’ordine del giorno. E ancora: condannare al carcere i militari genocidi responsabili di atrocità e torture sulla popolazione civile metterebbe a rischio la convivenza pacifica e sarebbe fonte di divisione nel paese. Da qui l’idea di mantenere gli aguzzini di ieri ai vertici dello stato. Tra l’altro, lo stesso presidente Molina è stato chiamato in causa, nel processo Montt, da un testimone che lo accusa di aver partecipato, in qualità di ufficiale dell’esercito, al genocidio dei maya nel dipartimento del Quichè. Infine, l’ultimo aspetto: dimostrare che in Guatemala la violenza politica non esiste. In realtà, gli omicidi di natura politica sono all’ordine del giorno: agenti di stato e sicari al servizio delle grandi imprese transnazionali lavorano a pieno regime. Secondo i dati nelle mani delle organizzazioni per i diritti umani, dal 2000 al 2011 si sono registrate ben 2285 aggressioni ai danni di militanti sociali. Inoltre, solo nel periodo che va da fine febbraio a metà aprile di quest’anno, sono stati assassinati otto esponenti dei movimenti e delle organizzazioni indigene. Il caso più eclatante, e recente, riguarda Daniel Pedro Mateo, leader della comunità Q’anjob’al de Santa Eulalia (dipartimento di Huehuetenango) e fondatore della radio comunitaria Snuq Jolom Konob: sequestrato il 7 aprile, è stato ritrovato morto il 16 dello stesso mese, con evidenti segni di torture sul suo corpo. Daniel Pedro Mateo rappresentava un punto di riferimento nell’opposizione alla centrale idroelettrica di Hidro Santa Cruz e faceva parte di Winaq, il partito politico di ispirazione indigena fondato da Rigoberta Menchù. È in carcere dallo scorso 15 marzo Rubén Herrera, altro esponente di spicco del movimento di resistenza alla diga sul fiume Canbalam, appartenente alla Asamblea de Pueblos de Huehuetenango, e “colpevole” di opporsi ad Hidro Santa Cruz, filiale guatemalteca della spagnola Hidralia. In questo contesto non stupisce che il processo a carico di Ríos Montt e del suo braccio destro alla guida dell’intelligence militare, Mauricio Rodríguez Sánchez, sia stato interrotto lo scorso 19 aprile a seguito di un complicato conflitto di competenze tra il pubblico ministero e la Corte Costituzionale. Sul ribaltamento del verdetto emerso dal processo (conclusosi poi in tempi rapidi e con la condanna di Montt a 80 anni di carcere grazie al pronunciamento della giudice Jazmìn Barrios), pesa la responsabilità di aver messo a repentaglio la sicurezza dei sopravvissuti che partecipavano alle udienze, come hanno ben sottolineato in un documento sette Nobel per la pace, tra cui la guatemalteca Rigoberta Menchù, che visse in prima persona quei drammatici avvenimenti. La sentenza della giudice Carol Patricia Flores, che ad aprile aveva dichiarato nullo il processo contro Ríos Montt e Mauricio Rodríguez Sánchez, derivava da una serie di vizi di forma a cui è riuscita ad appigliarsi anche la Corte Costituzionale, all’interno della quale l’annullamento della condanna a Montt è passato di stretta misura, con tre voti favorevoli e due contrari. Del resto, gli avvocati dell’ex militare erano alla ricerca di un qualsiasi casus belli per rimandare il processo e farlo annullare, mentre il pubblico ministero definiva la revisione della sentenza un ulteriore insulto alle vittime del genocidio e alle loro famiglie. E’ per questo che la condanna a 80 anni di prigione aveva rappresentato un evento di portata storica: la giudice Jazmin Barrios aveva individuato in Montt il colpevole del genocidio del popolo maya.

Il fatto che la condanna comminata all’ex dittatore sia stata annullata si pone in continuità con la poco edificante farsa giuridica di questi mesi, al pari della contemporanea assoluzione del suo braccio destro Rodriguez Sanchez, il disprezzo e la persecuzione nei confronti dei leader comunitari e dei movimenti sociali perseguiti penalmente per aver cercato di difendersi da uno stato violento e oppressore che ha svenduto la propria sovranità territoriale e le più elementari regole della vita democratica alle multinazionali e ai peggiori carnefici del suo recente passato.

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