«Il lavoro dell’economia digitale» di Ursula Huws

recensione di Gian Marco Martignoni

Molto sbrigativamente e con una visione tipicamente eurocentrica le trasformazioni economiche e sociali che hanno investito nell’ultimo quarantennio l’occidente capitalistico sono state descritte come l’approdo a una società ormai definitivamente post-industriale e finanche della “conoscenza“, con il ruolo guida affidato all’ascesa di quella che lo studioso Richard Florida ha definito come la classe creativa. L’enorme mole dei dati provenienti dalle tendenze affermatesi con la nuova divisione globale del lavoro, pur dimostrando che il complesso delle multinazionali si è orientato spazialmente al di fuori prevalentemente dai confini della triade –  sia per i lavori manuali che per quelli intellettuali a partire dalla Cina e poi nelle molteplici periferie del Sud del mondo – non è bastata per smentire questa narrazione fuorviante a proposito anche di post-fordismo e capitalismo molecolare. Ursula Huws è una ricercatrice indipendente, che partecipando e riprendendo le varie indagini compiute all’interno del Progetto Works da parte dell’Istituto superiore di storia sul lavoro tra il 2005 e il 2010, ha focalizzato la sua attenzione e i suoi studi su quel proletariato occupato su scala globale nelle attività legate alle nuove tecnologie dell’informazione.

Nel libro “Il Lavoro dell’Economia Digitale” (pag.206 euro 20 Edizioni Punto Rosso) sono raccolti 7 saggi, che – mettendo a fuoco le condizioni di vita, di lavoro e di sfruttamento del cybertariato – evidenziano da un lato la genericità dell’attribuzione del termine lavoratori e lavoratrici della conoscenza a questo pur ampio segmento della composizione di classe, e dall’altro che il mondo virtuale non cancella la perdurante validità della teoria del valore-lavoro. Con l’avvertenza di non scambiare la parte con il tutto, la Huws sottolinea a più riprese come non esisterebbe un software senza un hardware, il lavoro virtuale senza quello manuale, allo stesso modo di come Internet non avrebbe potuto svilupparsi senza una infrastruttura materiale collocata fisicamente negli oceani e grazie ai satelliti lanciati nello spazio, proprio perché questa interconnessione non è sempre facilmente percepibile.  Infatti, solo il 20% delle 100 più grandi società transnazionali operano come società dei servizi, ma questa quota è la somma di una serie di processi di mercificazione del lavoro, che per rilanciare la declinante accumulazione capitalistica hanno investito il campo della biologia, l’arte e la cultura, i servizi pubblici – per via delle politiche di deregolamentazione neoliberiste – ma anche la socialità quotidiana in forme precedentemente impensabili. In particolare quanto attiene essenzialmente alla riproduzione della vita quotidiana, e che prima veniva svolto all’interno dell’ambito domestico, così come l’atto del consumo, ora vengono intermediati da multinazionali che gestiscono le piattaforme digitali, mentre le società di telecomunicazione si occupano profittevolmente di quell’interazione sociale che avviene tramite una pletora di dispositivi digitali. Le conseguenze di questi repentini cambiamenti sul piano del mercato del lavoro e delle garanzie contrattuali sono state notevoli, perché il dilagare dell’individualismo ha contribuito a minare quei legami di solidarietà che avevano permesso l’instaurazione del compromesso keynesiano-fordista e la fruizione delle conquiste fornite dal Welfare State. Ma indubitabilmente ha pesato in questo arretramento sociale anche l’indebolimento generalizzato delle organizzazioni sindacali, un tempo forgiate da identità lavorative tipicamente di mestiere. Inoltre, le categorie dei lavoratori e delle lavoratrici impiegati nelle varie attività di servizio sono assai diversificate, poiché le innovazioni dei prodotti sia materiali che di contenuto immateriale o la programmazione dei computer richiedono l’apporto di una specifica fascia di forza-lavoro creativa per la loro ingegnerizzazione, mentre la standardizzazione delle procedure adottate per il trattamento delle informazione richiede invece una massa di forza-lavoro con abilità generiche. Pertanto, mentre per la prima corte di lavoratori e lavoratrici le imprese sono disponibili a fornire incentivi, formazione permanente e stabilità occupazionale per incrementare la produttività e i profitti, l’alfabetizzazione digitale sviluppatasi in ogni area del pianeta ha  messo a loro disposizione un esercito di riserva globale, per di più flessibile e soggiacente alla logica della precarizzazione dei rapporti di lavoro. Al punto che con l’espansione del lavoro uberizzato o delle altre piattaforme digitali la tendenza a quella degradazione del lavoro analizzata a suo tempo da Harry Braverman (nel suo capolavoro “Lavoro e capitalismo monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo”) si è rivelata più che illuminante.  Altresì la destrutturazione delle legislazioni volte a proteggere il lavoro è sostanzialmente all’origine della crescente intensificazione dei ritmi, dell’allungamento della giornata lavorativa, dell’introduzione di indicatori e di obiettivi di prestazione, tanto che si è verificato l’incremento del disagio psichico e dello stress anche nei lavoratori e lavoratrici stabilmente occupati. Le attività che sono state standardizzate, attraverso nuovi metodi di gestione delle procedure, non sono solo quelle informatiche a minor valore aggiunto (facilmente delocalizzabili nella corsa al ribasso globale dei salari o dei diritti) ma anche quelle intellettuali riguardanti ad esempio il mondo universitario. A riprova dell’invarianza della logica del capitale, anche per i docenti universitari si è determinato un preoccupante peggioramento della loro condizione lavorativa, in quanto se le loro mansioni vengono caricate da una mole di compiti amministrativi e burocratici, invece le loro conoscenze vengono espropriate mediante la conversione dei contenuti delle loro lezioni in pacchetti e-Learning fruibili da remoto.

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