«Il maestro di tango e altri racconti»

recensione di Maria Chiara Castro al libro di Miguel Angel Garcìa

Miguel Angel García, nato a Buenos Aires nel 1939, è uno scrittore e sociologo residente in Italia dal 1978. Si è occupato delle questioni sociopolitiche che caratterizzano il suo Paese d’origine e tutta l’America Latina. Negli ultimi anni si è dedicato con maggiore impegno alla tematica dell’immigrazione. Questi studi confluiscono nei saggi e negli articoli da lui pubblicati nel corso della vita ma anche nei racconti; in questi ultimi, l’attività di sociologo e gli interessi dello scrittore sono utilizzati come spunto per indagare la situazione esistenziale dell’immigrato e l’integrazione in seno alla nuova società.

La scrittura di Miguel Angel García è semplice, asciutta e caratterizzata da una sottile ironia che si concentra, in particolar modo, nelle chiuse dei racconti. Le parti conclusive sono contraddistinte a volte da un maggiore intimismo (come il finale del racconto Il maestro di tango) e a volte da un sarcasmo pungente, volto a suscitare la riflessione dei lettori su specifiche tematiche. In entrambi i casi è possibile intravedere in questi passaggi il pensiero, i sentimenti dell’autore e la sua volontà di comunicare idee e stati d’animo attraverso la scrittura.

Questi aspetti si osservano nella raccolta Il maestro di tango e altri racconti, pubblicata da Eks&Tra nel 2005. La tematica dell’immigrazione è il filo conduttore di tutti i racconti, da quello che dà il titolo alla raccolta, Il maestro di tango – posto in apertura del libro probabilmente perché racchiude il sentire personale dell’autore – fino all’ultima storia il cui titolo, Il cuore memore, fa riferimento al trapianto di un “cuore memore” subìto dalla protagonista, cioè di un cuore che continua a portare dentro di sé la nostalgia per la terra d’origine del donatore marocchino, causando grande sofferenza nella paziente.

Nel primo racconto, Il maestro di tango, si riscontrano elementi autobiografici: il protagonista-narratore, che si fa chiamare Julían Arroyo ma il cui nome vero è Isaac Blubstein, è nato e vissuto a Buenos Aires e, per motivazioni socio-politiche ha abbandonato l’Argentina per trasferirsi in Italia, dove è diventato un insegnante di tango argentino (Miguel Angel García, oltre a essere fuggito volontariamente dal proprio Paese negli anni ʼ70, è vicepresidente della Federazione di Associazioni di Tango Argentino in Italia). Isaac-Julían vive e lavora a Cremona e fa del tango non solo una professione che gli consente di inviare parte dei suoi guadagni alla famiglia che ha lasciato in Argentina, ma anche il simbolo del proprio stato d’animo. Il tango – ovvero, quel «delicato equilibrio tra le figure ispide e la liquida fluidità dei movimenti» – diventa metafora di quella scissione profonda vissuta dallo straniero che, nel nuovo Paese d’arrivo, si ritrova diviso tra più lingue e culture. Tale lacerazione porta l’immigrato alla ricerca di una nuova forma che lo contenga, a una «tensione disperata» verso un sé unico e indistinto paragonabile alle movenze del tango in cui, come ci spiega il protagonista, è impossibile fondere tutti i movimenti in un unico passo fluido e armonico. Il narratore, che in un primo momento ricerca l’unità del proprio essere attraverso le cadenze «briose e sfidanti» del tango, si accorge che a poco a poco ha cambiato il proprio modo di ballare. Con il passare del tempo la ricerca della sua identità si è fatta più profonda e sommessa e, così, durante il ballo, i movimenti dei piedi sono appena accennati perché Isaac riesce a ritrovare la propria forma nella forma della donna a cui si aggrappa. Il tango diventa, così, per Isaac, possibilità di trovare un “solco” personale entro cui potersi muovere «durante quell’abbraccio di tre minuti» che gli salva la vita.

Anche nel racconto Il destino di Ramiro Angel García sembra volerci dire che l’immigrato “abita” momentaneamente le vite degli altri ovvero, usando le parole di uno dei personaggi della storia, «attraversa tangenzialmente i solchi degli altri». Il cittadino medio e l’immigrato sono simili: il primo, seppur inconsapevolmente, è straniero a se stesso perché vive «nel solco profondo che hanno tracciato per lui la sua epoca, la sua città, la sua classe, la sua famiglia» e non riesce a distinguere «tra se stesso e il suo ruolo sociale»; il secondo è straniero per l’ordine sociale e, seppur per ragioni diverse da quelle del cittadino medio, non è padrone delle proprie scelte, proprio come il protagonista colombiano Ramiro: il quale viene arrestato per aver bruciato alcuni materassi (a seguito di un equivoco) in un deposito nel quale vive assieme ad altri immigrati e, casualmente, si ritrova in galera con un tipografo erudito che lo istruisce. Finiti gli anni di prigione, quando diventa un uomo libero e determinato a costruire autonomamente il solco in cui vorrebbe vivere, è ancora una volta vittima delle circostanze: muore sul colpo durante un’esplosione avvenuta in un bar di Bogotà.

Anche altre due immigrate, le protagoniste de La badante miracolosa, lontane dai propri affetti e dalla propria cultura, ritrovano se stesse assumendo la “forma” delle persone a cui stanno accanto, proprio come il maestro di tango del primo racconto. L’empatia e l’amore posseduti da Allie e dalla sorella, due badanti straniere che vengono a lavorare in Italia, si trasformano in veri e propri poteri che permettono, a esempio, di predire al paralitico Giorgio, investitore di Borsa, l’andamento delle azioni e di anticipare all’agricoltore Giancarlo le precipitazioni che si sarebbero abbattute sui suoi campi.

Gli studi sociologici, gli interessi e il pensiero di Miguel Angel García emergono anche ne Il malinteso. Qui, attraverso una storia abbastanza semplice e rappresentativa, viene messo in luce dallo scrittore uno dei tanti meccanismi sociali che stanno alla base dell’intolleranza e della discriminazione. Il narratore è un autista di corriera che, grazie al suo lavoro, osserva spesso i diversi gruppi sociali che affollano il suo veicolo (è quindi, in un certo senso, un alter ego dell’autore). Il conducente assiste al generarsi di una maldicenza di cui sono vittime una ragazzina e un signore thailandese, passeggeri abituali. Un gruppo di signore, che l’autista denomina “le lavandaie”, inizia a diffondere una serie di orribili falsità sul conto dell’uomo straniero che, dopo pochi giorni, verrà chiamato e considerato dai passeggeri dell’autobus un “pedofilo cinese”. Le donne organizzano persino una raccolta firme per richiedere l’espulsione della coppia e comprendono l’errore commesso solo quando viene detto loro che i due extracomunitari sono stati vittime di torture nel proprio Paese d’origine e, per tale ragione, l’Italia ha concesso loro asilo politico. Per riparare alla loro cattiva condotta le lavandaie sono pronte a impegnarsi per l’integrazione dei due thailandesi. Tuttavia, dopo poco più di un mese, iniziano a generare nuove maldicenze a danno delle nuove persone che nel frattempo hanno conosciuto, testimoniando a noi lettori quanto sia difficile estirpare quell’istinto maligno e ostile che ogni nucleo sociale riversa sui diversi.

Tale istinto è, in fondo, una forma di difesa per quella paura ancestrale che l’uomo ha per l’altro, come osserviamo nel racconto Il primo immigrato, in cui vengono raccontate le vicissitudini, durante la preistoria, dell’immigrato egiziano Yel che viene respinto e ucciso da alcuni cacciatori nincontrati lungo il cammino. Questo primo immigrato fa da contrappunto al protagonista de L’ultimo immigrato: in un futuro indefinito, i migrati sono benvoluti a causa della crisi demografica e del declino inarrestabile della popolazione che «riduceva le entrate fiscali ad un rivolo». Paolotto, assessore alla crisi demografica al comune di Treviso, manda il suo reclutatore di immigrati Altiero alla ricerca di gente straniera che popoli una città ormai desolata. L’uomo arriva in Somalia e cerca di convincere la tribù dei Buni ad abbandonare la propria terra per trasferirsi in Italia. Tuttavia Alì, uno dei ragazzi della tribù, ricorda ad Altiero le sofferenze che sono state inferte ai suoi avi: il futuro indefinito in cui è ambientato il racconto si ricongiunge così, nel discorso di Alì, al presente in cui noi lettori viviamo. Il ragazzo racconta dell’aggressione che «un gruppetto di teppisti con fazzoletti verdi» compì nei confronti del nonno. L’uomo venne arrestato (nonostante non fosse colpevole) perdendo il permesso di soggiorno e fu espulso. Mentre tentava di tornare a Treviso clandestinamente, per ricongiungersi alla donna da lui amata, la nave sulla quale si trovava per sbarcare in Sicilia ebbe un guasto al motore: «nessun pescatore volle rischiare la galera per salvare i naufraghi alla deriva». Alì chiede, in cambio del suo trasferimento a Treviso con parte della tribù, che nella piazza della città venga costruita una scultura dedicata al nonno e a tutti gli immigrati che in passato persero la vita.

Miguel Angel García dirige così il nostro sguardo verso le tragiche morti in mare che accadono sotto sguardi inerti e abituati. Infatti, proprio come afferma l’assessore Paolotti alla fine della storia: «noi umani ci adattiamo a tutto; è la nostra debolezza e la nostra forza».

La tematica dell’immigrazione – che, come si è visto, è cara ad Angel García per il suo vissuto esistenziale come per gli studi scientifici – diventa lo spunto narrativo anche nel racconto La macchina per fare romanzi, sicuramente uno dei più interessanti della raccolta per le possibili interpretazioni a cui si presta e per le strategie narrative (come la focalizzazione interna variabile, cioè la presenza di due narratori). L’intreccio ha inizio con la morte di un senzatetto, il polacco Darius Vronsky, di cui nessuno conoscerebbe l’identità se non fosse per la scatola rinvenuta accanto a lui, vero e proprio contenitore della storia e delle aspirazioni dell’uomo. Darius era un matematico e programmatore che desiderava lavorare all’università e che, grazie alle sue doti di informatico, aveva creato un ipertesto scoperto da Pancho, il primo narratore del racconto, e decodificato da Mario e Giorgio Mahade, rispettivamente il secondo narratore e un personaggio che è un matematico di fama internazionale. L’ipertesto è un testo letterario che, grazie al suo formato digitale, riesce a dialogare attivamente con il lettore e a mutare il proprio intreccio sulla base dei gusti di chi sta leggendo. A tal fine, è necessario rispondere ad alcune domande propedeutiche alla creazione di un romanzo in grado di rispecchiare esattamente i gusti dell’utente. L’ipertesto letterario è un campo realmente indagato da Miguel Angel García che, anche in questo racconto, utilizza le proprie competenze specifiche (il funzionamento dell’ipertesto è spiegato con molta minuziosità) per stimolare la nostra riflessione su tematiche attuali. Lo scrittore proietta noi lettori in una dimensione metaletteraria: il racconto estremizza una delle funzioni principali del lettore, ovvero quella di attualizzare (e in un certo senso, di creare) attraverso la propria interpretazione il testo letterario. Infatti, nella storia, il romanzo generato dall’ipertesto assume forme e contenuti diversi a seconda del destinatario.

Ma il programma realizzato dal polacco Darius permette anche di raccogliere indirettamente informazioni sull’utente, registrando ogni azione da lui compiuta: «non solo il classico ‘click’ del mouse, ma anche il passaggio casuale del cursore sopra ogni parte della pagina, il tempo che impiegava nel farlo, la direzione di partenza, quella di arrivo, la velocità e la sua variazione. Tutto ciò in misura quasi impercettibile, fino a registrare la contrazione di un dito; in una parola, le indecisioni, le esitazioni, le distrazioni e le azioni non completate, oltre le azioni completate, il non fare oltre il fare». Come dice lo stesso narratore, il controllo che il programma effettuava sull’ignaro fruitore era assimilabile a quello dei programmi-spia di internet. Così Miguel Angel García apre il suo racconto a più significati: se da una parte l’ipertesto rappresenta il rapporto che si installa fra l’opera letteraria e il lettore, dall’altra descrive bene le strategie speculative che aziende, società, multinazionali etc mettono oggi in atto per intercettare le debolezze e gli istinti più profondi di ogni individuo, al fine di renderlo un potenziale acquirente dei servizi e dei prodotti venduti. Lo scopo finale è proprio quello di creare merci capaci di appagare le pulsioni umane più oscure e sconosciute. Anche nel racconto il prodotto finale, ovvero l’ipertesto, diventa la proiezione dell’inconscio dei personaggi. Alla fine del testo – come detto, Miguel Angel García condensa nei finali la sua ironia – l’amica di Pancho, a cui era stato dato il dischetto generatore di romanzi, manifesta il suo sdegno per i contenuti pornografici della trama rivelando il proprio finto moralismo a noi lettori che abbiamo compreso il meccanismo perverso dell’ipertesto: esso, proprio come le grandi piattaforme informatizzate su cui noi trascorriamo le nostre giornate, è riuscito a scorgere le pulsioni, gli istinti e le debolezze di cui probabilmente neanche la donna possiede consapevolezza.

NOTA DELLA “BOTTEGA”

Per avere il libro (costa 7 euro più le spese di spedizione) scrivere a eksetra@libero.it o andare su www.eksetra.net

 

Redazione
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