il MES del nostro scontento

ne scrivono Francesco Gesualdi, Marco Bersani, Alfiero Grandi

 

MES: ancora il primato della finanza – Francesco Gesualdi

I politici non sempre dicono la verità, ma ogni tanto hanno la capacità di attrarre l’attenzione su tematiche che i cittadini farebbero bene a seguire di più. Un caso del genere si è verificato di recente quando è stato portato alla ribalta ciò che i media hanno battezzato “Trattato salva Stati”, il cui vero nome è “Trattato per il meccanismo europeo di stabilità”, in sigla MES. Un’analisi più dettagliata ci dice che il vero obiettivo del trattato non è la salvezza degli Stati, bensì dell’euro minacciato da crisi di sfiducia ogni volta che gli Stati si sovraccaricano di debiti.

La storia del MES inizia nel 2010, un periodo in cui più di uno Stato europeo dell’area euro, si trova costretto ad accrescere il proprio debito, quale per salvare le proprie banche travolte da gestioni fallimentari, quale per tamponare gli effetti di una crisi economica che si sta trasformando in crisi sociale. È di questi tempi l’emergere degli “Stati maiali”, appellativo attribuito non con l’intento di offendere chicchessia, ma perché il caso ha voluto che i paesi in maggiore difficoltà siano Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, le cui iniziali hanno permesso a qualche giornalista fantasioso di elaborare la sigla PIIGS, un acronimo che in inglese suona appunto come maiali. Il debito, che in condizioni normali attrae gli investitori ansiosi di collocare i propri capitali, può trasformarsi in un potente repellente se diventa così alto da non dare più affidamento di restituzione. E poiché l’afflusso di capitali rafforza le monete, mentre la fuga le indebolisce, questa è la ragione per la quale il debito pubblico è diventato uno dei temi di maggiore attenzione per l’Unione Europea, in particolare per i paesi che condividono l’euro. Attenzione esercitata attraverso due modalità. La prima vigilando affinché nessuno Stato si indebiti oltre misura. La seconda, soccorrendo i paesi in maggior difficoltà affinché la crisi rimanga circoscritta al loro interno. Una sorta di cordone sanitario per evitare che vengano risucchiati nella crisi anche gli altri paesi e soprattutto l’euro.

Nel 2010 i primi Stati a manifestare un gran bisogno di prestiti, ma ormai così decotti da non ricevere più neanche un euro dai privati, furono Irlanda e Grecia, che però trovarono un’Europa non ancora organizzata per intervenire in maniera centralizzata a sostegno dei paesi membri afflitti da crisi finanziarie. Per cui inizialmente la situazione venne tamponata con prestiti bilaterali da parte dei singoli governi. Quello italiano, ad esempio, nel 2010 a titolo unilaterale prestò alla Grecia una decina di miliardi di euro, essi stessi raccolti a debito. Solo più tardi venne formato un fondo comune d’intervento che dopo vari appellativi, nel 2012, assunse il nome definitivo di MES (ESM in inglese). All’inizio, però, il MES non poteva essere considerato un organismo facente parte a pieno titolo all’architettura dell’Unione Europea perché non sussistevano tutti i presupposti giuridici per includerlo. Solo più tardi gli aspetti giuridici mancanti vennero integrati e nel giugno 2019 i governi dell’area euro si sono accordati su una bozza di trattato che dà pieno accoglimento al MES nella casa europea. Il tutto in vista della firma definitiva concordata per una data di dicembre di quest’anno. Ed è stato proprio l’approssimarsi dell’imminente scadenza ad avere riacceso il dibattito attorno al MES.

Il trattato, che per diventare pienamente operativo deve ottenere la ratifica dei parlamenti dei 19 paesi aderenti all’eurozona, oltre a definire compiti, struttura e dotazione del fondo, stabilisce anche a chi può essere offerta assistenza e a quali condizioni. Premesso che il fondo elargisce solo prestiti, per giunta finalizzati anche al salvataggio delle banche, esso divide i possibili paesi richiedenti in due categorie: quelli con un debito moderato e quelli con un debito elevato. Ai primi chiede come contropartita solo l’impegno a proseguire sulla strada della moderazione. Ai secondi invece, impone regole molto più stringenti. Ed è proprio questa differenziazione che alcuni reputano inaccettabile perché è come se i paesi dell’eurozona venissero ufficialmente divisi in buoni e cattivi, creando differenze ancora più marcate fra i paesi a debito moderato e quelli a debito pesante. A detta dei critici, gli investitori privati potrebbero inserirsi in questa crepa per imporre tassi di interesse più elevati ai paesi inseriti nella lista dei cattivi, prendendo a pretesto che la stessa Unione Europea li classifica come inaffidabili. In conclusione si potrebbe andare verso una definitiva conferma del differenziale esistente fra paesi dell’eurozona (il famoso spread), che invece di ridursi potrebbe continuare a crescere portando all’assurdo che i paesi forti paghino interessi bassi e quelli più in difficoltà interesse alti.

Un’altra critica mossa al Trattato è che i paesi a debito elevato potrebbero ricevere prestiti dal MES solo se fanno un tentativo di ristrutturazione del proprio debito. Che significa ottenere sconti dai creditori sul capitale da restituire. Un’ipotesi che molti vedono come una iattura perché metterebbe in difficoltà banche, assicurazioni e fondi pensione tradizionalmente forti detentori di titoli di Stato. E poiché queste istituzioni gestiscono risparmio dei cittadini, alla fine sarebbero i cittadini stessi a subire i contraccolpi della ristrutturazione. Se le cose dovessero funzionare davvero così è tutto da verificare, ma la critica è infondata perché il Trattato non contempla l’obbligo di ristrutturazione, termine che non è mai citato neanche negli allegati. Ciò che invece è contemplato è che il prestito ai paesi più indebitati sia condizionato alla firma di un accordo (meglio noto come Memorandum of Understanding) in cui siano elencate le riforme che il paese ricevente deve attuare per ridurre il proprio debito. Certo, fra queste può essere compresa anche la ristrutturazione, ma le esperienze passate ci dicono che altre sono le richieste più usuali. Valga come esempio la Grecia che dal MES e suoi antenati ha ricevuto prestiti a più riprese, ogni volta dovendosi impegnare a tagliare salari, pensioni, sussidi ai più poveri, in nome dell’abbattimento del debito.

Il trattato istituzionalizza anche la presenza della Troika, recitando testualmente che il rispetto del Memorandum sarà verificato in collaborazione con la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale.

In conclusione il Trattato sancisce il primato della finanza senza tenere in alcuna considerazione le esigenze sociali, i diritti umani, la salvaguardia della democrazia, concetti che non sono mai citati neanche di sfuggita. L’anima sociale: ecco il vero aspetto che manca al Trattato. Caratteristica che emerge anche dalla decisione di lasciare che ogni Stato risolva i propri problemi arrangiandosi da solo, sollecitando l’intervento degli altri solo quando l’instabilità dell’uno minaccia la stabilità di tutti.

Il MES insomma rappresenta un altro passo avanti verso la costruzione dell’Europa di tipo condominiale dove si sta assieme solo perché si condivide il tetto, le scale e l’ascensore, ma per il resto ognuno è estraneo all’altro, se non nemico. Tutt’un’altra Europa rispetto a quella sognata da Spinelli e gli altri padri fondatori che in tema di debito pubblico avrebbero chiesto soluzioni condivise a partire dall’emissione di titoli europei e di maggiore intervento da parte della Banca Centrale Europea. Da un punto di vista tecnico le modalità per conciliare riduzione del debito e salvaguardia sociale esistono. Ma il loro utilizzo dipende da come batte il cuore.

da qui

 

Fermate il Mes! Voglio scendere… – Marco Bersani

Nel surreale dibattito politico, la questione della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) è precipitata come un copione teatrale con ruoli predeterminati: ecco allora la maschera Salvini erigersi a paladino anti-sistema, con il controcanto delle maschere Governo-Pd sulle magnifiche sorti e progressive dell’integrazione europea.

Pare impossibile, dentro questo scenario, dire parole di verità. Proviamo quindi a sgombrare il campo: il MES non nasce oggi, è attivo dal luglio 2012, come Fondo salva-Stati, ed è l’evoluzione di precedenti meccanismi, il Fesf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) e il Mesf (Meccanismo europeo di stabilità finanziaria), pensati, con l’insorgere della crisi finanziaria globale del 2008, come strumenti per tutelare l’Unione monetaria dall’effetto domino di crisi occorse a singoli Paesi.

Fa parte del medesimo processo che ha visto, sempre nel 2012, l’approvazione del Fiscal Compact, che il nostro Paese ha inserito all’unanimità addirittura in Costituzione.

Tutte le tappe sinora descritte, compresa l’attuale, hanno visto la condivisione di tutte le forze politiche, che oggi fingono contrasti, avendo solo in testa l’infinita campagna elettorale che caratterizza il nostro Paese.

Il MES è già intervenuto, e ciascuno può intuire in quale direzione, nelle crisi finanziarie di Irlanda, Portogallo, Cipro e naturalmente Grecia, la più grande lezione di pedagogia “austeritaria” sinora realizzata. Perché l’essenza del MES sta nella “condizionalità” dei suoi interventi: se un Paese ne richiede l’aiuto, deve sottoscrivere un Memorandum, ovvero una serie di “riforme” sotto il segno della riduzione del costo del lavoro, dei tagli alla spesa pubblica e delle privatizzazioni.

Se tutto questo è già in campo, di cosa si sta quindi discutendo? Di una riforma del MES, che va verso l’estensione del suo ruolo, tanto in merito alle richieste di aiuto degli Stati, quanto a quelle del sistema bancario.

Nel caso degli Stati, sarà il MES (che, non va dimenticato, agisce per statuto come un creditore privato e non come un’istituzione pubblica) a valutare la sostenibilità del debito pubblico e a proporre la linea di credito Pccl (Precautionary conditioned credit line), senza contropartite, per i Paesi “virtuosi”, o la linea Eccl (Enhanced conditions credit line), con richiesta di pesanti misure d’austerità, per i Paesi con rapporto debito/pil superiore al 60%.

Nel caso delle banche, la novità è che il MES potrà essere utilizzato per finanziare l’attuale Fondo di risoluzione unico, creato dalle banche europee per sostenere gli istituti in difficoltà (misura messa ora in campo non a caso, dato l’attuale rischio di collasso del sistema bancario tedesco).

Due brevi riflessioni ne conseguono.

La prima è relativa al fatto che, con questa riforma, si rinsalda il binomio trappola del debito pubblico/politiche liberiste e di austerità. Fatto un sospiro di sollievo per il mancato successo delle forze sovraniste e nazionaliste alle ultime elezioni europee, le elite politico-finanziarie continentali hanno deciso di rafforzare la gabbia del debito e di inasprire ulteriormente l’architettura iper-finanziarizzata dell’Unione Europea.

La seconda è che chi si oppone alla riforma del MES (appellandosi magari a supremi interessi nazionali), senza mettere in discussione l’intero telaio, che, da Maastricht in avanti, ha costituzionalizzato il liberismo come unica via per il continente europeo, sta mischiando le carte del medesimo mazzo truccato.

Perché una ineludibile domanda ci riguarda tutti: come affrontare la crisi climatica, la diseguaglianza sociale, la questione migratoria e il diritto al reddito senza stracciare il trattato di Maastricht e avviare un nuovo processo costituente europeo?

(Articolo pubblicato anche su il manifesto)

da qui

 

Il Fondo Salvastati così non va – Alfiero Grandi

Fiscal Compact con le connesse direttive, Sistema bancario europeo e Fondo Salvastati (Mes) sono aspetti tra loro legati. Valutarli divisi può portare solo guai. Le sceneggiate e i toni aggressivi della Lega e del resto della destra in Parlamento, da scontro frontale, sono strumentali e servono a coprire i loro stessi errori. La rissa della destra non deve però impressionare e tanto meno spingere a una posizione arroccata, impedendo un esame equilibrato di queste misure. Ci sono già state esperienze negative per avere affrontato con leggerezza e approssimazione le trattative per accordi a livello europeo su materie finanziarie ed economiche. Stracciarsi le vesti solo dopo è un atteggiamento che non ci possiamo permettere.

 Il Fiscal Compact prevede il rientro nei ranghi dei paesi che non rispettano i parametri del 3% di deficit e hanno un debito pubblico superiore al 60% del Pil. Il debito dell’Italia è al 135% del Pil. Non risulta invece che qualcuno abbia chiesto di aggiungere un altro punto per obbligare i paesi con forte surplus a investire quanto potrebbero, come prevedono le regole in vigore. I tagli sono un obbligo mentre gli investimenti no? Per ora è difficile capire se il vagheggiato strumento di bilancio per convergenza e competitività sarebbe qualcosa di più di un auspicio: con quali risorse, per quali obiettivi? Con Two packs e Six packs, collegati al Fiscal compact, sono stati aggiunti vincoli più severi. Questi provvedimenti (non inseriti finora nel sistema giuridico europeo) hanno ispirato la cura da cavallo riservata alla Grecia. In sostanza dal trattato di Maastricht, 1992, sono state via via irrigidite le regole. La modifica nel 2012 dell’articolo 81 della Costituzione è stata conseguenza di queste regole. Come sappiamo è stata introdotta durante il Governo Monti (con un sostegno rigorosamente bipartisan tanto che il relatore di maggioranza alla Camera fu l’on. leghista Giancarlo Giorgetti) e approvata con i voti di oltre i due terzi del Parlamento sì da non essere sottoponibile a referendum popolare. Solo una nuova modifica della Costituzione approvata da Camera e Senato potrebbe cancellare quella versione dell’articolo 81 della Costituzione, la cui applicazione – per di più – è stata finora rimandata di volta in volta per gentile concessione dei controllori europei. Tornare al precedente art. 81 potrebbe essere fatica inutile se il Fiscal Compact e i suoi collegati divenissero, come ora si vorrebbe fare, parte dei trattati europei (secondo la Corte europea sovraordinati alla Costituzione). Va ricordato che l’obiettivo originario del trattato di Maastricht era “stabilità e crescita”. La stabilità con annesse politiche di bilancio restrittive c’è stata, la crescita è rimasta solo un titolo. Perché una interpretazione restrittiva del trattato di Maastricht dovrebbe ora entrare nei trattati europei? Queste regole dovrebbero essere riviste e finalmente dovrebbe vivere la parte che non c’è (la crescita) degli obiettivi di Maastricht, visto che ora anche la Germania soffre una fase difficile dell’economia. I nuovi strumenti di bilancio a livello europeo rispondono a questa esigenza? È tutto da dimostrare.
La proposta è di inserire queste regole nel sistema giuridico europeo, modificabile solo o uscendo dall’Unione (da evitare come dimostra la Brexit) o modificando i trattati stessi (obiettivo che richiede l’unanimità). Quindi prima di arrivare alla firma è necessario capire bene cosa si sta facendo. Gli atti di fede sono controproducenti e lasciano a una destra becera uno spazio che non dovrebbe avere. Tante volte si sono sentite autocritiche sulla pesante cura imposta alla Grecia, qualcuno ha ammesso che era sbagliata, ma troppo tardi. In realtà continua a prevalere la stessa linea. Evitare che scatti questo irrigidimento senza averne valutato le conseguenze è il minimo necessario.

 Il secondo capitolo è il rafforzamento dell’Unione bancaria. Potrebbe essere un risultato utile, a condizione che non diventi a sua volta una trappola per imporre alle banche di considerare tossico il debito pubblico mentre ci sono grandi banche europee che hanno quantità enormi di veri titoli finanziari tossici in pancia. È evidente che un sistema europeo proteggerebbe meglio le banche dai fallimenti (le banche, non gli azionisti) e i depositi dei correntisti, almeno fino a 100.000 euro come è previsto oggi in Italia. Troppe “distrazioni” quando si discuteva dei fallimenti bancari hanno lasciato passare il bail in, senza neppure un tempo congruo di entrata in vigore. Bail in che obbliga a caricare il fallimento sulle spalle non solo degli azionisti ma anche di chi ha acquistato titoli delle banche e perfino sui correntisti oltre i 100.000 euro, come è accaduto recentemente nelle crisi delle banche venete e popolari. Questo è costato caro a quanti hanno investito risparmi, talora indotti con l’inganno, ma anche allo Stato che è stato spinto a restituire parte dei soldi perduti, vedremo alla fine con quali costi e risultati. Il bail in è stato introdotto all’insegna della parola d’ordine “mai più soldi pubblici nei fallimenti delle banche”. Parola d’ordine velleitaria perché lo Stato non può disinteressarsi degli aspetti sistemici e delle conseguenze sociali ed economiche, come infatti si è visto con i recenti provvedimenti. Semmai il sistema dovrebbe fare i controlli ex ante per evitare i costi successivi.
Anche Bush jr decise di lasciare fallire Lehman Brother ma innescò la crisi finanziaria mondiale, da cui l’Italia dopo oltre 10 anni non è del tutto uscita. Come ha osservato Penati su Repubblica il sistema bancario non è avulso dal contesto economico del paese. Le banche italiane hanno acquistato centinaia di miliardi di titoli di Stato: se dovessero liberarsene in poco tempo, per evitare di partecipare a un eventuale consolidamento del debito pubblico, si aprirebbe un serio problema per il finanziamento del debito pubblico. In alternativa se dovessero vedersi tagliato il credito vantato verso lo Stato per la ristrutturazione del debito (una parte non verrebbe più pagato) si potrebbe creare una situazione ai limiti dell’ingovernabilità. Lo Stato non avrebbe soldi per intervenire, le banche avrebbero parte dei titoli trasformati in carta straccia, con relative perdite e rischio nei conti. Perché l’Italia dovrebbe accettare ora queste regole? Che tra l’altro sono controcorrente rispetto agli acquisti dei debiti pubblici fatti dalla BCE, in gran parte attraverso le banche centrali? Va ricordato inoltre che le garanzie europee sia per i depositi che per le banche in difficoltà entrerebbero in campo solo dopo avere esaurito le risorse nazionali.

 Infine il terzo caposaldo delle decisioni europee è il Fondo Salvastati (MES). Non basta sottolineare che nei documenti è scritto che il Fondo “può” anziché “deve” chiedere la ristrutturazione del debito pubblico prima di intervenire per concedere prestiti. Il MES ha un finanziamento mutualistico: ogni Stato partecipa pro quota, l’Italia fino a un massimo di 125 miliardi di euro, terzo contribuente dopo Germania e Francia. La parte più preoccupante è nel meccanismo di decisione del MES. Viene costruita in sostanza una istituzione separata, finanziata dagli Stati ma resa del tutto autonoma. Tanto che nemmeno la Commissione europea avrebbe un ruolo di indirizzo e controllo; tanto meno il Parlamento europeo. Quando lo Stato in difficoltà si rivolgesse alla tecnostruttura del MES sarebbe di fronte a una scelta: o subisce le condizioni poste o niente intervento salvastati. Infatti non è previsto un organo politico di appello, perché tutto è concepito come una tecnostruttura indipendente, al punto che il suo comportamento viene sottratto alle leggi ed è esente da responsabilità. Sarebbe una tecnostruttura indipendente, potentissima perché avrebbe a disposizione le munizioni conferite dagli Stati che però sarebbero esclusi da qualunque indirizzo e controllo. Attaccarsi alla differenza tra “deve” e “può” è molto meno delle garanzie necessarie. Ha ragione chi afferma che già al momento della richiesta di intervento ci sarebbero rischi per gli Stati. Perché potrebbe partire la speculazione nel momento stesso della notizia della richiesta, creando con ciò stesso un’emergenza. Le banche verrebbero coinvolte con il rischio di perdere parte importante dei crediti verso lo Stato e di fatto diventerebbe impossibile trovare gli spazi per interventi pubblici a favore delle aree sociali più colpite perché il fondo Mes porrebbe le sue condizioni (Grecia docet).

 Chi ha concepito questi strumenti aveva ben presente la loro coerenza: criteri derivanti dal Fiscal compact e annessi, sistema di intervento europeo nelle crisi bancarie, Fondo salvastati i cui orientamenti probabilmente sarebbero ispirati al Fiscal compact. Penati conclude il suo intervento su Repubblica ricordando che il treno è ormai partito. Buttarla in rissa come vuole la Lega è pericoloso, bisognerebbe invece negoziare duramente le contropartite e si dovrebbero aggiungere le garanzie che tutto il percorso resti guidato dalle istituzioni democratiche, senza scivolamenti tecnocratici. Tuttavia, se non fosse possibile ottenere risposte adeguate meglio rinviare la firma e pensarci ancora: troppo rilevanti le conseguenze per il nostro paese. Se un giorno dovesse finire la “comprensione europea” per il bilancio pubblico italiano, se dovesse esserci un impazzimento dello spread, l’Italia potrebbe, in linea ipotetica, essere costretta a chiedere aiuto al Fondo MES e a quel punto va ricordata la spiegazione che diede Monti sulla durezza dei provvedimenti che adottò il suo Governo. Voleva rispettare i parametri ma non voleva cedere sovranità al Fondo salvastati. Quindi scelse di decidere autonomamente i tagli della spesa pubblica, ad esempio con la normativa Fornero sulle pensioni, ma evitò di chiedere aiuto al Fondo salvastati per non cedere sovranità. Se non l’ha fatto Monti…

da qui

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *