Il Nicaragua e la salute del córdoba

di Bái Qiú’ēn

Por el día cocina, lava y plancha ajeno. / Vende lotería, ahí por Metrocentro / y todas las noches al mejor postor / alquila su cuerpo (Luis Enrique Mejía Godoy, 1993).

«Se potessi avere mille lire al mese…». Chi non ha mai sentito questo allegro ritornello di una canzone in voga nella nostra bella Italia del 1939? In pochi sanno che era la colonna sonora del film Mille lire al mese, una tipica “commedia all’italiana” ambientata a Budapest ma girata interamente a Roma. E ancora meno persone, di certo, conoscono la versione di Sergio Endrigo: «Mille lire, almeno mille lire al mese / era un sogno, il sogno piccolo borghese. / Ma per chi ha sempre avuto il culo sul velluto, / era uno scherzo bruciarle in minuto: / mille lire, mille lire e ti saluto» (1980).

Quasi nessuno invece – ne siamo certi – ha avuto in tasca una banconota del valore di 10 milioni… di córdobas.

Questa valuta nacque il 20 marzo 1912, in sostituzione del peso, quando alla presidenza della Repubblica del Nicaragua c’era il conservatore Adolfo Díaz Recinos, ma chi comandava realmente erano i marines che lo proteggevano. Non a caso, nelle monete metalliche era tradotto lo slogan del dollaro: «En Dios confiamos», tuttora presente. E, affinché non esistessero dubbi su chi faceva il bello e il cattivo tempo, nelle banconote si leggeva «National Bank of Nicaragua Incorporated». Il 51% delle azioni della teorica Banca del Nicaragua appartenevano infatti alla Brown Brothers & Co. e alla J. & W. Seligman & Co. Due componenti del Consiglio d’amministrazione erano nominati dal ministro delle Finanze di Managua e il terzo dal Segretario di Stato gringo. Tuttora, il simbolo è C$.

Non a caso, il nome scelto dagli occupanti gringos per la nuova moneta fu quello del conquistador Francisco Hernández de Córdoba. Non sappiamo se per reazione istintiva o altro, la maggior parte dei nicaraguensi continua a chiamarlo «peso» o «pesito». In talune occasioni, utilizzano pure il termine volgare «vara» o «varita» (organo sessuale maschile).

Nel 1941 fu messa in circolazione la banconota da un córdoba con l’immagine di una squaw pennuta e abbigliata alla moda pseudo-precolombiana. Poteva sembrare una rivendicazione del passato anticolonialista, dato che sostituiva nientemeno che Cristoforo Colombo. In realtà, però, la ventenne raffigurata era Lilliam Ada de la Cruz, la primogenita di Anastasio Somoza García. Nel gergo popolare non si diceva un córdoba, bensì un Lilliam: la figlia del Generale valeva un peso, ironizzava la gente comune. I versi della canzone messicana Me he de comer esa tuna ben si adattavano: «El águila siendo animal se retrató en el dinero, para subir al nopal pidió permiso primero». Con l’aggiunta: «Esta, siendo mujer, salió en el dinero sin pedir siquiera permiso primero».

Se tra il luglio 1979 e il 1981 si ebbe un parziale incremento produttivo, sostenuto sia da una politica macroeconomica espansiva sia dalla massiccia solidarietà esterna, tra il giugno del 1986 e il marzo del 1990 il Nicaragua si trovava in una situazione assai simile a quella della Repubblica di Weimar nel primo dopoguerra mondiale (agosto 1922-novembre 1923): vittima di una brutale aggressione economica, di uno spietato blocco commerciale e finanziario, del contrabbando e di attacchi speculativi, oltre alla guerra della contra finanziata e organizzata da Washington. All’epoca ci fu chi calcolò un’inflazione annua del 33mila% e altri, meno catastrofisti, la valutarono all’8mila%. Fosse come fosse, ciò significava che alle 7 di mattina un uovo costava 10, a mezzogiorno 20, alle tre del pomeriggio 30, alle sei di sera 40…

Nello stesso 1986, mentre il cambio medio ufficiale era di 66 córdobas per dollaro, al mercato nero si arrivò ai 1.250. Questa forbice, destinata ad aumentare negli anni successivi, contribuì a creare una crescente distorsione dei prezzi, quindi del costo della vita.

Stando ai dati ufficiali del Banco Central, il 1° gennaio 1989 il cambio con il dollaro equivaleva a 920 córdobas, mentre il 31 dicembre si doveva andare in banca con una carriola, poiché era salito a 38.150. Nei primi mesi del 1990 fu ancora peggio: si entrava con cento dollari e si usciva super-milionari: il cambio medio dell’anno fu di 709mila córdobas per dollaro. E i nuovi importi delle banconote, sempre più astronomici, erano ormai stampigliati su quelli precedenti. In un solo giorno si ebbero ben nove svalutazioni consecutive. Abbiamo ancora come ricordo una banconota originariamente da 1.000 con l’immagine di Sandino, trasformata in un milione di córdobas. Inutile dire che la situazione socio-politica era parecchio tesa.

Le cause di quella iperinflazione connessa al crollo costante del cambio furono molteplici e occorrerebbe un trattato di economia per chiarirle tutte nella loro interazione. In ogni caso, essendo del tutto insostenibile e combinata ad altre cause, contribuì alla sconfitta nelle elezioni anticipate del 25 febbraio 1990. Alla quale seguirono anni di lacrime e sangue per applicare i cosiddetti «programmi di adeguamento strutturale» imposti dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale. Per cui, il solo ricordo di quel periodo fa venire la pelle d’oca a parecchi nicaraguensi, siano le alte sfere o sia il semplice popolo che si arrabatta per arrivare alla fine del mese.

Una riforma monetaria nel 1990 parificò il córdoba al dollaro, nel periodo iniziale del governo di Violeta Barrios de Chamorro, avviando più o meno consapevolmente la dollarizzazione dell’economia, e attualmente il cambio è circa 1=35. L’introduzione del córdoba-oro voluta dall’allora presidente del Banco Central, l’economista Francisco Mayorga detto Panchito (poi ironicamente Panchito-Oro), si generarono ulteriori problemi e il 3 marzo 1991 il Governo fu costretto a una svalutazione enorme dal giorno alla notte, portando il cambio a 5 córdobas per un dollaro (equivalente a un’inflazione del 400%). I tecnici si resero conto che quella moneta continuava a essere sopravalutata di oltre il 40% sul vero valore, il quale corrispondeva grosso modo a quello del febbraio 1988, quando il governo sandinista realizzò una riforma economico-monetaria che non riuscì a decollare.

Basandosi su una lettura esclusivamente fondomonetarista del fenomeno, con la «Operación Berta» si puntò tutto sulla ricetta convenzionale della svalutazione e della riduzione della spesa pubblica. Per quanto il Governo sandinista avesse tentato di adeguare il proprio intervento sul mercato a criteri di efficienza sia in senso macro sia microeconomico, proprio a causa della stessa iperinflazione fu praticamente impossibile riarticolare in modo organico ed efficiente i vari settori produttivi attraverso i meccanismi “regolatori” del mercato stesso (la «mano invisibile» teorizzata da Adam Smith nel XVIII secolo). Il risultato non avrebbe potuto essere più disastroso: non solo nessuno dei problemi fu risolto, anzi peggiorarono tutti senza eccezione.

Per questo motivo “storico”, più che per una visione a medio-lungo termine di progresso socio-economico del Paese, il mantenimento di un livello accettabile e stabile di inflazione è stato uno degli obiettivi che fin dal 2007 si è posto il governo di Daniel. Attuando una politica monetaria che non la facesse esplodere oltre il tollerabile, utilizzando il cambio con il dollaro come uno degli strumenti principali. Basandosi sulla stabilità finanziaria e sulla solvibilità a livello internazionale, finora, mediamente si è aggirata sul 3-4% annuo. Con una punta del 5,4% nel 2019.

All’inizio di ogni anno, il Banco Central stabilisce la percentuale massima di inflazione “programmata” per tenerla sotto controllo attraverso la sua stessa politica di cambio e di coordinamento con le politiche fiscali, approvando il Programa Monetario Anual che prevede l’accantonamento delle riserve necessarie per concretizzarlo. Il che significa che una parte del denaro nelle casse dello Stato non è possibile utilizzarlo per altro che la politica monetaria e il rigido controllo dell’inflazione.

Nonostante i seri problemi economico-finanziari successivi al 2018, finora il sistema ha retto. Sebbene sia rilevante il fatto che sul totale dei depositi bancari, circa il 70% è in dollari, il 90% dei prestiti è concesso in dollari e il 60% della liquidità complessiva è in dollari.

Per fare un piccolo esempio di questa dollarizzazione di fatto, per quanto informale: persino nel negozietto sotto casa si può acquistare una cipolla, una pastiglia antidolorifica di diclofenác, una bottiglia di Ron Plata Especial o un pacchetto di sigarette pagando in dollari. A voler essere realisticamente cattivi, da parecchi anni la moneta nazionale non è più considerata dalla popolazione un valore dell’identità nazionale.

Questa rinuncia alla sovranità monetaria nazionale è sancita addirittura dall’articolo 38 della Legge  738 – “Ley orgánica del Banco Central – del 10 maggio 2018: «In qualsiasi contratto può essere stabilita una clausola con la quale gli obblighi espressi in córdobas manterranno il loro valore in relazione a una valuta estera. In questo caso, se si verifica una variazione del tasso di cambio ufficiale del córdoba rispetto a tale valuta, l’importo dell’obbligazione espresso in córdoba deve essere adeguato nella stessa proporzione della modifica apportata». Ovviamente, la «valuta estera» non nominata è il dollaro. A meno che, ai piani alti, prima o poi si decida di passare al rublo o allo yuan come moneta di riferimento.

Poiché l’obiettivo fondamentale della politica monetaria è la stabilità del tasso di cambio, a tutti gli effetti il Banco Central ha una scarsa capacità per controllare l’inflazione, soprattutto per il fatto che quella nicaraguense è un’economia estremamente «aperta», soggetta a una notevole inflazione importata a causa dei prezzi mondiali delle merci. Per quanto possa sembrare una contraddizione, nonostante l’incremento delle maquilas tessili – delle quali abbiamo parlato di recente in “bottega” – il secondo prodotto importato dopo gli idrocarburi come valore complessivo sono le magliette di cotone (per US$ 314 milioni nel 2019) seguite da manufatti tessili di vario tipo (per US$ 245 milioni sempre nel 2019).

In occasione del centenario della morte di Rubén Darío, quando nel 2016 iniziò a circolare la banconota da 1.000 córdobas in molti si chiesero se fosse un indizio che l’inflazione non era più sotto controllo. Tant’è che, pur essendo tuttora in corso (oggi equivalente a US$ 35), è assai raro vederla circolare. Esattamente come fu con i nostri 500 Euri.

Secondo l’Informe Anual 2021 pubblicato il 31 marzo 2022 dal Banco Central, a causa soprattutto di eventi esterni lo scorso anno l’inflazione è stata del 4,93% (pagina 45).

Dopo due anni di pandemia e con l’attuale situazione internazionale dovuta all’invasione russa in Ucraina – che hanno causato e causano un aumento globale del costo della vita (la canasta básica è passata dai 16.255 córdobas del 1° gennaio a 17.219 di metà maggio), – è necessario tenere sotto controllo uno dei fattori principali che potrebbero causare una spirale inflattiva con la conseguente rapida crescita dei prezzi al consumo. Ci riferiamo al costante aumento del costo dei carburanti, i quali incidono sul prezzo finale di qualsiasi prodotto. Specialmente in un Paese nel quale i trasporti sono esclusivamente su gomma (tra l’altro, i prezzi a Managua sono sempre leggermente inferiori rispetto ad altre località, specialmente sulla Costa Atlantica).

Il Nicaragua necessita al giorno di circa 6.000 barili di benzina super, 2.700 di normale e 13.500 di diesel (in totale tre milioni e mezzo di litri). Il prezzo dei carburanti al consumatore sono decisi ogni settima di comune accordo tra le compagnie private (Puma e UNO) e il governo, attraverso l’Instituto Nicaragüense de Energía (INE), per quanto non vi sia alcuna regolamentazione governativa, vigendo la pura e semplice legge della concorrenza (del tutto fantasiosa, esistendo un oligopolio). Le variazioni entrano in vigore ogni domenica, per cui chi può fulea el tanque il sabato.

Per la cronaca, le imposte sulla benzina corrispondono al 24,5% per la normale, al 23,5% per la super e al 20,6% per il diesel (il carburante più utilizzato per il trasporto di merci e persone). Le entrate complessive corrispondono all’1,3% dell’importo totale delle tasse riscosse dal governo. E, sempre per la cronaca, secondo i dati forniti dal Sistema de Integración Centroamericana (SICA), il prezzo al consumo di qualsiasi combustibile è il più alto dell’America Centrale fin dal marzo 2021: all’inizio del 2022 la benzina super costava al consumatore U$ 4,47 per gallone (3,78 litri), mentre in Honduras era 4,31, in Costa Rica 4,19, in Guatemala 4,10, in El Salvador 3,97 e a Panamá 3,5. In compenso, gli stipendi e i salari nicaraguensi sono i più bassi dell’area.

Se consideriamo che il Nicaragua importa soprattutto benzina già raffinata (il 65-70% del fabbisogno), poiché la raffineria privata ubicata sulla Cuesta del Plomo tra Managua e Ciudad Sandino (appartenente alla Puma Energy) non ha la necessaria potenzialità di trasformazione, è evidente che il problema è assai serio. La nuova raffineria statale ipotizzata nel marzo-aprile del 2007 e la cui prima pietra fu posta nel luglio successivo, è tuttora El Supremo Sueño de Bolívar. Mai nome fu più azzeccato per una classica cattedrale nel deserto, poiché fin dal 2015 il Venezuela ha smesso di pompare dollari per la sua realizzazione, come pure di inviare derivati del petrolio a causa dell’embargo degli USA dal 2018.

Secondo i dati ufficiali resi noti nel novembre del 2020, nel 2019 il 60,43% del fabbisogno di idrocarburi era fornito dagli Stati Uniti, il principale “nemico ideologico” dell’orteguismo (Anuario estadístico de hidrocarburos, p. 3). Un’altra buona parte era acquistata in Colombia e in Ecuador. In compenso, stando sempre ai dati comunicati dal Banco Central, nello stesso 2019 l’importazione di prodotti petroliferi dal Venezuela è stato uguale a zero.

Adesso che siamo di certo riusciti a farvi venire un bel mal di testa con tutti questi numeri, vi suggeriamo di ingoiare una pastiglia analgesica di Panadol extra fuerte (paracetamolo o acetaminofene). Che potete acquistare nel negozietto sotto casa, ovviamente pagandola in dollari: se il commerciante si accontenta la confezione da 16 pastiglie costa solamente US$ 2,24. È vero che in Italia una confezione di paracetamolo costa almeno il doppio, ma contiene trenta pastiglie e il nostro reddito di cittadinanza è due volte il salario minimo di un nicaraguense.

Da alcuni anni il Buon governo ha rilasciato ben sette concessioni per l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi sia nel Pacifico sia nell’Atlantico, su un’area di quasi kmq 60mila. Le compagnie interessate, sgravate di parecchi oneri fiscali ed esonerate da qualsiasi studio sull’impatto ambientale, sono: la statunitense Infinity Energy Resources, la norvegese Statoil (oggi Equinor) e la perfetta sconosciuta Pan American Oil Limited, che secondo il governo britannico risulta costituita da alcuni messicani residenti in Svizzera il 5 giugno 2015 ed estinta il 22 novembre 2016 (la concessione nicaraguense risale al successivo 21 giugno 2017). In base alla Legge 286 approvata il 23 settembre 2014 sia le aree interessate sia i contratti devono essere approvati dalla Presidenza della Repubblica (art. 6). Nonostante che da quasi un secolo si trivellino le coste del Nicaragua alla ricerca del mitico El Dorado, finora, oltre ai notevoli danni ambientali, non si è trovata una goccia di oro nero. Almeno ufficialmente.

Alla fine del 2021 il prezzo pagato per un barile di petrolio era di US$ 77, ma con il conflitto russo-ucraino è schizzato a oltre US$ 100, per poi oscillare nelle settimane seguenti.

All’inizio di maggio di questo 2022 si è svolto un importante incontro a Managua con il ministro iraniano del petrolio Javad Owji Hom, il quale ha promesso un progetto di investimento per la suddetta raffineria solo parzialmente realizzata nei pressi di Puerto Sandino (León): «Il governo del presidente Ebrahim Raisi vede il Nicaragua come un partner strategico nel mondo». Nel frattempo, «In questo momento non abbiamo problemi né difficoltà per l’esportazione di carburante, per cui siamo disponibili a fornire carburanti derivati ​​dal petrolio e altri prodotti chimici al Nicaragua».

Non è dato sapere in quali tempi e con quali costi avverrà la fornitura, né di quanti barili potrà essere. Oltretutto, le sanzioni imposte nel 2018 da Donald Trump a Teheran, hanno finora impedito di esportare la maggior parte della sua produzione (peraltro, a quanto si conosce, quasi totalmente diretta verso la Cina). Con l’invasione militare e la guerra della Russia contro l’Ucraina, per approvvigionarsi l’Occidente è costretto obtorto collo a dialogare sia con il Venezuela sia con l’Iran e, secondo alcune fonti, la prima petroliera iraniana dovrebbe arrivare in Nicaragua a fine maggio. Di certo, possiamo escludere a breve il completamento del Supremo Sueño de Bolívar, che doveva essere operativo entro il 2017 con una capacità di raffinazione equivalente a 150mila barili al giorno (due terzi dei quali per l’esportazione). Al momento, questo complesso industriale è un semplice “magazzino” nel quale conservare i carburanti, fino a un milione di barili. E, a tutti gli effetti, la ripresa di questo faraonico progetto, per usare una espressione locale, sembra essere más hoja que nacatamal. In termini comprensibili, più un accordo geopolitico che economico.

Corrono voci che a El Carmen stiano pure pensando di sostituire le importazioni dagli Stati Uniti con quelle dall’Iran, nonostante manchi la rotta commerciale per coprire la distanza tra i due paesi. Che ciò possa avvenire o meno, sarà comunque in tempi lunghi e non si sa con quali risparmi per i consumatori.

Intanto, per evitare l’immediata ricaduta dell’aumento dei carburanti sui prezzi, che genererebbe una spirale inflattiva non facilmente controllabile, da aprile il Governo ha deciso di calmierarlo (o «sterilizzarlo», per usare un termine in voga). Inizialmente si è trattato di una copertura parziale, la quale riduceva gli aumenti della benzina normale per il 52%, per la super del 57,7% e per il diesel al 100%. A partire da maggio, la copertura è del 100% su tutti i carburanti, con un esborso dalle casse dello Stato equivalente a quattro milioni di dollari ogni settimana. «Che per il Nicaragua sia un peso enorme, quattro milioni di dollari che potremmo mettere in altri Programmi per la Vita, per il Benessere, ma siamo anche convinti che qui sia fondamentale mantenere il carburante, che non aumenti, perché è il motore dell’economia», ha affermato Daniel il 4 maggio in occasione del Día de la Dignidad Nacional.

In tal modo, i prezzi sono stati bloccati a 5,07 dollari al gallone per la benzina normale, a 5,19 per la super e a 4,58 per il diesel.

A parte che nella realtà questi milioni non coprono l’intero aumento e di settimana in settimana il consumatore paga sempre di più il litro di benzina (che si aggira attualmente su 1,40 dollari al litro, a seconda del tipo di carburante), si tratta di una cifra esorbitante se fosse una misura provvisoria, ma è del tutto insopportabile nel medio-lungo periodo. Se dovesse protrarsi sino alla fine dell’anno, significherebbe una cifra di circa 160 milioni di dollari, ammesso che gli aumenti dei prezzi internazionali si mantengano sempre allo stesso livello: alcuni analisti prevedono che con l’embargo al petrolio russo, il barile potrà raggiungere persino i 200 dollari al barile.

Tralasciando l’evidenza che si tratta di una semplice operazione contabile, definibile «partita di giro», poiché questo denaro proviene sempre dalle tasche dei consumatori attraverso le imposte sui carburanti (circa US$ 5,5 milioni a settimana), resta da valutare il possibile impatto sui prezzi dei generi importati, ossia sulla maggioranza dei prodotti non alimentari. Oltre che sulla produzione e distribuzione dell’energia elettrica e dell’acqua, che incidono sul prezzo degli alimentari nazionali. Fin da gennaio hanno subìto un rilevante incremento parecchi generi di uso comune sulle tavole dei nicaraguensi: riso, fagioli, zucchero, olio, manzo, maiale, pesce, latte, formaggio secco, tortillas, pinolillo, pane, ayote, plátano verde e arance.

Per il momento il Banco Centroamericano de Integración Económica (BCIE) ha finanziato con 800 milioni di dollari un programma di sostegno temporaneo ai Paesi dell’area per fare fronte all’aumento del prezzo dei carburanti. Al Nicaragua saranno destinati 220 milioni, sotto forma di credito, che va ad aumentare il già rilevante debito estero pubblico (cresciuto dai 3.415,3 milioni di dollari del 2007 ai 7.142,9 del giugno 2021, con circa 400 milioni di dollari annui per il pagamento degli interessi).

A questo, nell’ottica di limitare sia la svalutazione della moneta sia l’inflazione ed evitare di rispolverare il ricordo del 1989-’90, occorre aggiungere che da vari anni lo Stato sborsa parecchi milioni di dollari per calmierare sia il prezzo della bombola di gas butano per cucinare sia l’energia elettrica nelle abitazioni. I quali, comunque, continuano a salire e per le tasche dei nicaraguensi pochi córdobas in più possono essere un vero salasso. Per cui sempre più famiglie, pure nelle città, scelgono di cucinare con il fuoco a legna, nell’immediato più economico ma a lungo andare devastante per il territorio boschivo.

In marzo il Banco Central ha stimato che l’inflazione del 2022 sarà tra il 5% e il 6% (Nicaragua: Situación macroeconómica y perpectivas 2022, p. 19). Senza però sapere cosa potrà accadere nel mondo da qui al 31 dicembre.

Se è vero che il carburante è il motore dell’economia, come ha affermato Daniel, nessuno è in grado di pronosticare quando si arriverà alla fine di questo conflitto bellico, né quali strascichi potrà avere sul breve periodo. Per quanto i Paesi petroliferi sottoposti a sanzioni economico-commerciali come il Venezuela e l’Iran (entrambi nell’OPEC) abbiano tutto l’interesse che la guerra prosegua il più a lungo possibile, ciò non vale certamente per il Nicaragua. Sia che vi siano un vincitore e un vinto sul terreno militare, sia che si giunga a un compromesso diplomatico e a un armistizio, il Nicaragua rischia di rivivere una situazione se non identica assai simile a quella del 1989-’90. Con conseguenze imprevedibili a livello sociale, che non è detto possano essere evitate semplicemente aumentando gli stipendi ai poliziotti e ai militari. Forse, neppure con le reiterate e isteriche minacce della Regina di Cuori che regna sul Paese delle meraviglie: «Tagliategli la testa!».

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