Il padre pianta i noci per i figli

di Massimo M. Greco (*)

Non ho mai avuto e non mi propongo di avere figli e figlie, almeno nel senso biologico del termine, escludendo ovviamente il non-si-sa-mai riservato alla possibilità riproduttiva del maschile. Con tutte le dovute differenze biografiche e intenzionali del caso, mi trovo quindi accomunato con Duccio Demetrio che su ciò ha costruito, insieme a Francesca Rigotti, che invece è madre, il libro «Senza figli. Una condizione umana» per la casa editrice Raffaello Cortina. Grazie a un tempismo perfetto, le parole di questi due filosofi si sono messi a dialogare con altri miei pensieri ed esperienze, fra cui anche il tema del piantare alberi. Poiché, scopro leggendo il loro testo, in Cina e Giappone si dice che si è uomini «dopo che si sia scritto un libro, piantato un albero, fatto un figlio».

È una lista da spuntare, un possibile criterio di realizzazione di sé. Chi è senza figli, suggerisce il libro, si trova comunque a fare un qualche bilancio ogni volta che guarda un padre o una madre alle prese con la propria prole, a esempio domandandosi non solo come sarebbero stati lui o lei in quel ruolo, ma anche cosa è mancato e cosa fa mancare per sé quell’assenza.

Che significato dare al fatto che sempre più uomini e donne scelgono di vivere senza moltiplicarsi, non ritenendo ciò il sintomo di un disordine, biologico, psicologico, sociale, morale? E se, con Hannah Arendt, possiamo considerare l’essere umano non solo come un essere mortale ma soprattutto come un essere natale – poiché «con ognuno di noi “viene al mondo un inizio”» – in che maniera chi è senza figli realizza questa natalità, paternità e maternità?

Per descrivere la condizione dell’essere senza figli (a cui si arriva non avendoli mai avuti, oppure congedandosi dalla coabitazione per raggiunta loro indipendenza o peggio nel lutto) Demetrio propone agli uomini la metafora del pontile deserto, complementare a quella più uterina del nido vuoto. Bisogna incamminarsi su quella penisola artificiale e guardare verso l’orizzonte, in cerca della scia ormai indistinguibile della zattera filiale ormai dipartita, oppure contemplando l’inutilità del molo in mancanza di barche da varare. La paternità, mancata o vissuta e quindi trascesa, rappresenterebbe un compito ineludibile di elaborazione di un particolare tipo di congedo del maschile e dal maschile. Rispetto al congedo dalla madre e soprattutto nei distacchi tra padri e figli, il congedo è reso ancora più difficile dalla lontananza – biologica sempre, esistenziale in senso storicamente e culturalmente determinato e rivedibile – del corpo paterno: lei è per noi inevitabile presenza corporea proprio perché dal suo corpo entriamo nel mondo; in un’altra direzione «ogni padre esprime una incorporeità, nonostante ogni sua eventuale ingombrante presenza» e rischiamo di trovare un accesso al suo corpo solo «quando abbiamo il privilegio dolente di accompagnarlo noi verso la morte», essendosi esso «in incognito trincerato dietro una barriera di pura discrezione», o di violenza verrebbe da aggiungere. Torna come altrove il tema del silenzio del corpo maschile che è uno dei primi apprendimenti, perfezionati dall’educazione virilista, del vivere da uomini. È importante questo rilievo che Demetrio fa dell’esperienza corporea della paternità, nonostante l’attitudine ricorrente di ragionarne solo in termini astrattamente cognitivi, psicologici e quindi simbolici. Anche se in un modo incomparabile rispetto alla relazione corporea con la madre, il corpo del padre e quello del figlio o della figlia sono comunque in una connessione e in una comunicazione molto concreta, nelle cure prodigate o negate, negli insegnamenti del “come si fa” tipici – almeno un tempo – della pedagogia genitoriale maschile, nel gesto accudente o violento o assente, nel controllo disciplinare o nella vigilanza discreta o nell’indifferenza, nell’essere più o meno un modello di liberazione di energie e di realizzazione della propria corporeità o nel sottrarsi a un qualsiasi sguardo filiale.

 

Ho avviato un arboreto da legno in una proprietà agricola di famiglia. Posso inventarmi facilmente il perché di questo investimento, ma ho bisogno di ascolto attento per esplicitare per chi ho piantato i noci e gli altri alberi, non avendo io figli. In questo progetto c’è qualcosa che richiama in me l’esperienza della paternità, ma non credo sia in relazione alla metafora delle radici connessa con la propria genealogia e le proprie origini. Essendo io alla soglia dei cinquant’anni, dare vita a un contesto naturale utilizzando piantine di poco più di un anno vuol dire sapere che per ammirare e godere di un vero e proprio bosco, se non addirittura per sfruttarne le convenienze economiche, bisognerà aspettare la quarta età. L’immaginazione fa le sue moltiplicazioni prospettiche e mi vede, con un certo ottimismo, camminare incerto ottuagenario all’ombra di alti e ombrosi noci, sorbi, cerri, frassini, aceri, peri, ciliegi e qualche ontano sopravvissuto, laddove ora nella spianata appare un reticolo di canne di sostegno con una parvenza di legnetto fronzutello accanto. Si vede nel futuro, che è anche oltre questa nostra presenza, inevitabilmente sperando che il destinatario di questo amore e delle cure, il bosco intendo, ci sopravviva a discapito di siccità, gelate e alluvioni.

Un albero – tanti alberi ancora di più – è quindi una macchina del tempo. Il confronto con l’idea della loro sopravvivenza mi restituisce le energie del desiderio e le cupe inerzie dell’invidia: mi porta a ragionare in termini di cura della prole o almeno dell’esperienza a me più vicina possibile di paternità che non sia per opere immateriali, quali ad esempio i testi.

Perché ho piantato i noci e gli altri alberi? Non per figli che non ho, né come sostituzione o sublimazione di questa assenza, ma forse per realizzarmi un po’ anch’io come essere natale, che dà il via a qualcuno-qualcosa che gli sopravviva. Verificherò se questo mi permetterà di misurarmi meglio con l’evidenza dei miei limiti temporali, nell’esperienza di una cura che è gratuita perché è cura di qualcosa che durerà – si spera – più di me. Questo, mi sembra, mi può aiutare a fare più completamente parte del consesso umano, anzi mi domando come si possa poter ragionare in termini di umanità senza il contatto con questa esperienza di relazione di responsabilità con un vitale che ci sopravviva. Vivo senza figli nell’ipotesi che, se la specie umana sopravvive grazie a chi i figli li fa, l’umanità sta in piedi anche grazie a chi i figli non li fa. E i boschi ci sono sia grazie ai padri che hanno piantato alberi per la progenie, sia grazie agli uomini e alle donne che hanno piantato alberi e basta.

(*) ripreso dalla rivista «Uomini in cammino» (numero 1 del 2013). Per informazioni e invio materiali: la redazione è presso Beppe Pavan, corso Torino 117 – 10064 Pinerolo; carlaebeppe@libero.it oppure 0121/393053, 3391455800.La rivista è inviata a chiunque la chieda, in formato cartaceo o web.

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