Il pantano honduregno

di David Lifodi

In Honduras si registra un morto ogni 74 minuti, il Paese vanta il poco onorevole primato mondiale di omicidi e in 23 mesi di governo Lobo è stata accertata la morte violenta di 12.838 persone, a una media di 19 al giorno.

Questi dati, diffusi dalle Nazioni Unite, fanno rabbrividire, soprattutto perché non si vede una via d’uscita al regime del lupo, quello di Porfirio “Pepe” Lobo, spalleggiato dai big dell’oligarchia terriera quali Miguel Facussé, la cui professione è quella del latifondista dedito a loschi traffici con la licenza di uccidere. Nel solo mese di maggio hanno fatto scalpore l’omicidio di Alfredo Villatoro, trovato morto nei dintorni della capitale Tegucigalpa, e l’eliminazione di Erick Martínez Ávila. Il primo era capo redattore di Radio Hrn e indagava sul traffico di droga a cui si dedicano i boss dell’oligarchia locale, il secondo lavorava per l’Asociación Kukulcán, impegnata attivamente nella difesa della comunità lgbt honduregna, ed era presidente del Movimiento de la Diversidad en Resistencia. Entrambi erano molto vicini a Libre, il Partido Libertad y Refundación, creatura politica nata nello scorso autunno per volere di Manuel Zelaya, il presidente dell’Honduras democraticamente eletto prima del colpo di stato che lo cacciò da Tegucigalpa il 28 giugno 2009. Numerosi dirigenti e attivisti di Libre, il braccio politico del Frente de Resistencia Popular (Frp), ricevono quotidianamente minacce di morte. L’Honduras non si è trasformato solo in un laboratorio delle moderne dottrine golpiste del XXI secolo, ma, fortunatamente, anche in uno spazio di democrazia partecipativa e solidale proprio grazie alla ventata di aria fresca portata da Libre rispetto ai corrotti partiti tradizionali. Le denunce dell’Frp e di Libre puntano il dito sui grandi proprietari terrieri, che vogliono essere liberi di trarre profitto dal traffico di droga, ma contemporaneamente tentano di far apparire il Paese come se fosse sul punto di passare nelle mani dei narcotrafficanti, e per questo invocano gli aiuti da parte degli Stati Uniti. A partire dal golpe del 2009 gli Stati Uniti hanno sempre lautamente foraggiato l’esercito honduregno e Douglas Fraser “casualmente” ha visitato per ben tre volte l’Honduras proprio dalla data del colpo di stato in qualità di comandante del Cosur (il Comando Sur de los Estados Unidos). Da notare che lo stesso Douglas Fraser è uno tra i principali artefici dei piani di destabilizzazione (ancora allo studio) da porre in essere nei Paesi dell’Alba, l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América. E’ in questo contesto che l’11 marzo scorso agenti di sicurezza della Dea (la Drug Enforcement Administration) attaccarono un gruppo di persone del dipartimento di Gracias de Dios, che stava attraversando il fiume Patuca. Ovviamente si trattava di civili disarmati, non di trafficanti di droga, e l’operazione della Dea lasciò un saldo di quattro morti (fra cui due donne incinte e un bambino di 14 anni) e altrettanti feriti. Il governo honduregno su questo episodio ha preferito fare orecchie da mercante, nonostante i feriti nell’operazione della Dea corrano il rischio di rimanere seriamente menomati, mentre Lisa Kubiske, l’ambasciatrice Usa a Tegucigalpa, ha fatto anche peggio, sostenendo che i membri della Drug Enforcement Administration hanno agito secondo i canoni della lotta contro il narcotraffico. In definitiva, commenta amaramente il Comité de Detenidos Desaparecidos en Honduras (Cofadeh), “non si sa chi era incaricato dell’operazione, quali erano le regole d’ingaggio degli agenti della Dea, chi ha dato l’ordine di aprire il fuoco”. Eppure l’Honduras rappresenta una delle rotte preferite per i narcotrafficanti, e lo Stato centroamericano è da tempo infiltrato dai cartelli della droga dell’intero continente, soprattutto quelli colombiani (che fanno affari d’oro con l’oligarchia honduregna). Nel novembre 2011 è stato addirittura un reportage del quotidiano di destra El Heraldo a scoperchiare una rete di connivenze fra narcotrafficanti e polizia, proveniente da un estratto del rapporto della Direzione della lotta contro il narcotraffico, che chiama direttamente in causa un membro della direzione della polizia stessa. Quando il Frente de Resistencia Popular sostiene che parte dell’oligarchia honduregna è legata al narcotraffico non ha torto. Il latifondista Miguel Facussé a più riprese ha messo a disposizione alcune sue proprietà per il traffico e il passaggio di droga, mentre Mauricio Villeda, candidato alle presidenziali del 2013 e appoggiato dalla borghesia agraria honduregna, agirebbe come trait d’union fra i cartelli della droga colombiani e la stessa oligarchia terrateniente che da Tegucigalpa decide i destini dell’Honduras. Inoltre, Villeda è membro di Opus Dei ed elemento di spicco del gruppo fascista delle Camisetas Blancas, una formazione paramilitare che aveva aperto la strada al golpe per spodestare Manuel Zelaya. E’ in questo contesto che la riforma agraria appare un miraggio e un uomo come Miguel Facussé, tra i più ricchi del Paese, può permettersi di scatenare la repressione nella Valle dell’Aguan contro i campesinos del Muca (il Movimiento Unificado Campesino del Aguan): negli ultimi due anni, da quando il legame tra governo e latifondisti è divenuto più stretto, 45 contadini sono stati uccisi. Il mandante, manco a dirlo, Miguel Facussé, proprietario anche della Corporación Dinant Exportadora del Atlántico S.a., multinazionale che opera nel settore dei prodotti agricoli, ed esponente del Club de Coyolito, il ristretto numero di famiglie che condiziona la vita politica e sociale dell’Honduras.

Negli ultimi mesi il Paese centroamericano è stato più volte definito come “ambiente ostile” dalle associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e dai mezzi di comunicazione sociale: negli ultimi tre anni sono stati uccisi almeno 21 giornalisti, oltre agli omicidi quasi quotidiani ai danni di esponenti del Frente de Resistencia Popular: l’Honduras si trova in abissi profondissimi nel silenzio totale della comunità internazionale.

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