Il poliziotto jazzofilo e un invito a sfrucugliare

di Franco Minganti

   La vista su Los Angeles di notte è da mozzare il fiato. Siamo all’ultima scena della quinta stagione di Bosch (2019), ispirata ai romanzi di Michael Connally. Coltrane, dopo un paio di giorni fuori casa, aspetta nel buio che Harry gli apra la porta a vetri. Harry Bosch ha deciso di chiamarlo così dopo averlo adottato: lo ha salvato da morte sicura e il cane gli ha ricambiato il favore, fiutando l’intrusione di alcuni criminali in missione per far fuori il poliziotto jazzofilo. Anzi, probabilmente il detective di LAPD più jazzofilo di sempre.

Ne avevamo fatto la conoscenza nel 1992, all’uscita di The Black Echo, quando dopo poche pagine l’autoradio di Bosch, sintonizzata su una stazione jazz – KJAZZ, maybe? – trasmetteva “Soul Eyes” di John Coltrane. Di lì a poco eravamo entrati in quella piccola casa tutta vetri letteralmente a picco sulla città, in cui avremmo imparato a metter su dischi di bellissmo jazz che il fortunato inquilino centellina con gran gusto e atteggiamento da conoisseur.

Sfidando almeno un po’ i cliché del jazz riambientato entro le serie televisive – dove il più delle volte risuona in sigle ammiccanti e a movimentare pedinamenti e inseguimenti automobilistici decisamente urbani – con Bosch il jazz è innanzitutto source music, ovvero musica diegetica, che si ascolta “dentro il racconto”: dall’autoradio, dal giradischi, nei locali, in strada.

I gusti musicali di Connally paiono essere particolarmente orientati verso il decennio mirabile tra la metà degli anni cinquanta e la metà dei sessanta e anche quando le scelte sono più vicine a noi, dagli anni novanta in poi, si tratta quasi sempre di musica ispirata, se non addirittura palesemente dedicata, ai grandi di quel periodo. Ci sono due belle playlist su Spotify, The Music of Harry Bosch e BOSCH – The Unofficial Harry Bosch Series Soundtrack, a Harry Bosch Jazz Playlist, poi c’è anche Amazon Music che offre Music from Bosch, una compilation di tre ore di brani citati nel corso delle prime cinque stagioni del serial.

Secondo il Burton W. Peretti di Jazz in American Culture (1997), le parole chiave per individuare il periodo sarebbero cool jazz, hard bop, ricchezza e ansia. Il jazz andava trasformandosi in musica di nicchia, sia pure acquisendo nuova energia attraverso gli strettissimi rapporti con le lotte per i diritti civili degli afroamericani. Proprio alla fine degli anni cinquanta il jazz e la cultura americana si sarebbero messi a esplorare nuove strade e nuove modalità d’azione con energie fresche – ad esempio, il bebop e il progressive jazz avrebbero investito più sulla sperimentazione di nuovi linguaggi che sul successo commerciale ad ogni costo.

Il nuovo pubblico – giovanile, studentesco e quello della ricca e acculturata borghesia suburbana – si godeva il jazz anche perché lo trovava espressione delle reali preoccupazioni degli americani, della loro ansia per il futuro, così troppo minaccia atomica & guerra fredda. Addirittura il jazz diventò una specie di ambasciatore culturale, sia pure declinato in vari modi dall’ufficialità del Dipartimento di Stato come da interpreti meno ortodossi e più internazionalisti come per esempio Dizzy Gillespie. Certo, la celebrazione romantica di un mondo di genio & sregolatezza (alcol, droga, sesso) portava inevitabilmente a promuovere l’immagine stereotipata del jazz come della musica di giovani tormentati in preda ad ansie di ogni genere. Bianchi e neri insieme.

Con le tensioni arrivò anche il nuovo benessere postbellico, che interessò largamente la maggioranza bianca, ma non solo. Anche il jazz venne largamente confezionato per il gusto dell’America borghese, per i suoi nuovi atteggiamenti e la sua sensibilità. Come scrive Peretti, la cultura americana si fece “cool”, espressione che coglieva bene l’idea di un certo autocontrollo emotivo in un clima di crisi filosofico-esistenziale, ed entrarono in corto circuito il jazz, appunto, il fumetto sperimentale e innovativo di Mad Magazine, la rinnovata centralità maschilista e consumistica di Playboy, le trasformazioni del detective americano dall’inguaribile romantico degli anni trenta alla quasi spia internazionale degli epigoni di Mickey Spillane, la verve di B-movies in technicolor e serie televisive in bianco & nero.

YouTube – be’, internet in generale – ci regala da un po’ di anni la possibilità di sfrucugliare nel passato mediologico e sfidare il nostro immaginario storico. Con tante ambiguità, parecchio piacere e la frustrazione di non aver potuto accedere a tutto quel ben di Dio di materiali sonori e visivi nel momento in cui avevano luogo e venivano impressi su un qualche supporto materiale. Sarebbe cambiata la Storia? Sarebbe mutata la nostra storia personale, la nostra percezione del mondo?

Quanto a questo, il jazz è un buon ambito. Soprattutto proprio il jazz “mediatizzato” alla fine degli anni cinquanta da tv e fumetti. Prendete due serie tv invisibili da noi in Italia come Peter Gunn, di tanto Blake Edwards con musiche di Henry Mancini, protagonista Craig Stevens (quattro stagioni tra il 1958 e il 1961) e Johnny Staccato, registi vari con musiche di Elmer Bernstein, protagonista John Cassavetes che mette mano anche alla regia di qualche episodio (una sola stagione tra il 1959 e il 1960, per un totale di 26 puntate), e prendete un genio come Harvey Kurtzman, anima di Mad, col suo fumetto Thelonius Violence, Private Eye Like, del 1959, un episodio della raccolta Harvey Kurtzman’s Jungle Book, meritoriamente ristampata nel 1988 dalla Kitchen Sink.

Peter Gunn usa The Mother, locale dove si fa jazz, un po’ come la sua segreteria, la base per le sue indagini da investigatore privato. Il linguaggio televisivo del periodo è piuttosto semplice e persino impacciato, ma a suonare nelle sequenze girate al club c’era gente come Shelley Manne, Larry Bunker (poi nel trio di Bill Evans), John Williams (futura star delle colonne sonore del cinema) e una serie di fior di musicisti, frequentatori delle migliori jazz band americane e turnisti richiestissimi per le incisioni di Hollywood e del miglior jazz della West Coast. E si vede che suonavano per davvero… per dire, non come Paul Newman e Sidney Poitier in Paris Blues (1961).

Johnny Staccato fa il pianista al Waldo’s, locale di jazz del Greenwich Village newyorkese (ma il serial venne girato a Hollywood), ma svolge anche lavoretti da detective privato, sempre pronto a lasciare il posto al pianista sostituto per precipitarsi a raccogliere telefonate e nuovi incarichi. Le ambientazioni sonore sono girate in modo molto convincente, con felice attenzione per la performance e i singoli strumenti, e sul palcoscenico del club compaiono alcuni bei nomi della scena jazz della West Coast, gente come Red Norvo, Barney Kessel, Red Mitchell, poi ancora Shelly Manne e John Williams.

Le sequenze musicali al club catturano quotidianità e “normalità” del jazz, insieme con la sua permeabilità nella società americana, fattori su cui sarebbe bene riflettere, perché a noi, da questa parte dell’Atlantico, questa visione del jazz non è quasi mai filtrata, costretti come siamo stati, per ovvi motivi, a celebrare questa musica attraverso il mito e il collezionismo. Al contrario, la particolare ferocia del segno di Kurtzman è particolarmente brillante nel declinare il dinamismo della vita e della musica del jazzclub attraverso i nuovi gerghi e gli svarioni sonici di jazzisti e bassifondai e movimenti decostruiti alla maniera del Duchamp del ben noto Nudo che scende le scale. E’, la sua, una coolness più cerebrale, non meno efficace però nel rappresentare, sia pure attraverso l’esagerazione del segno, il nuovo che stava avanzando.

Approfittiamo dunque, in occasione dell’International Jazz Day (*) per curiosare tra reperti come questi: non è necessario sdilinquirsi in nostalgia – be’, in quelle serie tv non giravano tanti jazzisti neri… per questo, meglio andarsi a rivedere Shadows, del 1959, del Cassavetes regista e magari quei gloriosi programmi tv come The Sound of Miles Davis, sempre del 1959, della serie The Robert Herridge Theatre – ma forse è possibile riflettere meglio sulla musica che gente come Connally e Bosch ascoltavano quando erano giovani…

(*) Franco Minganti aveva previsto questo testo per la “scordata” in bottega – vedi Un po’ di jazzate per il 30 aprile? – ma (ahia) le nostre clessidre erano sfasate; consideratelo un regalo per il 32 aprile… o quel che più gradite. L’IMMAGINE di Giuliano Spagnul è stata scelta dalla “bottega”.

 

 

Franco Minganti

Un commento

  • L’autore si chiama Connelly, non Connally. Non sarebbe tanto grave se non fosse un articolo sul suo personaggio principale….

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