Il ribelle Omar e il boia di Affile

Il ribelle Omar e il boia di Affile

Come «Il leone del deserto» (il film più osteggiato nella storia italiana) svela i misfatti di Graziani.

di Monica Macchi (*)   

L’Italia repubblicana non ha mai realmente fatto i conti con l’avventura coloniale fascista: resiste ancora il mito degli “italiani brava gente” a cui ha contribuito anche la produzione cinematografica. Infatti film come «Mediterraneo» (1991), «I giorni dell’amore e dell’odio» (1999) e «Il mandolino del capitano Corelli» (2001) presentano un’immagine del soldato italiano costituzionalmente incapace di crudeltà, più incline alla musica, al calcio e all’amore che alla guerra… così antropologicamente diverso dai “cattivi tedeschi”. Ma ci sono anche documentari che affrontano il nodo tra colonialismo italiano e rimozione storica, come «Fascist Legacy» o «La guerra sporca di Mussolini». E poi c’è un film pluripremiato ma semisconosciuto in Italia, «Il leone del deserto», dedicato all’eroe della resistenza libica Omar al-Mukhtar: una mega-produzione da 35 milioni di dollari che dura 3 ore e mezzo con attori del calibro di Antony Queen, Irene Papas, Gastone Moschin, Road Stieger e Oliver Read.

Ecco la personalità e le tattiche di Rodolfo Graziani – a cui è stato dedicato un sacrario ad Affile – nella campagna di Libia come emergono dal film di Mustafa Akkad.

Nessun film ha subìto in italia un ostracismo come «Il leone del deserto»: interrogazioni parlamentari; accuse di «ledere la dignità nazionale italiana», di «danneggiare l’onore dell’esercito», di «vilipendio alle Forze Armate», di «avere un’impostazione anti-italiana di tipo politico propagandistico, che vorrebbe ribaltare attraverso una pellicola cinematografica il giudizio sul soldato italiano che è invece ormai storicamente definito» e addirittura blitz della Digos per sequestrare la pellicola e impedirne la proiezione.

Questa «definizione storica» è in realtà una visione romantica, mitica e auto-assolutoria secondo la quale il colonialismo italiano «usa la vanga e non il fucile» ed il soldato italiano è un homo novus generoso e tollerante prodotto della fede cattolica unita alla dottrina fascista. Insomma un «colonialismo all’acqua di rose», per usare l’espressione di Paola Tabet, che nonostante puntuali studi storiografici continua ancor oggi, come dimostrano i successi cinematografici di «Mediterraneo» e de «Il mandolino del capitano Corelli». L’impresa libica, in particolare, è stata celebrata come un «atto di civilizzazione» per lo sviluppo di una nazione arretrata, con un’economia basata su una agricoltura primitiva e una pastorizia povera. Così nel 1948 il generale Canevari, comandante in Cirenaica, scriveva: «Noi non abbiamo mai creato campi di concentramento in Cirenaica, ma solo delle riserve in campi splendidamente sistemati e forniti di tende di lana di cammello, impianti igienici e servizi idrici… Dopo la permanenza negli accampamenti preparati da Graziani, le popolazioni della Cirenaica tornarono alle loro terre di coltivazione e di pascolo rinnovate dalla scienza e dalla scuola italica».

«Il leone del deserto» inizia con un documentario in bianco e nero che spiega il quadro storico prima del fascismo (infatti fin dal 1911-1912 il governo italiano deve far fronte alla resistenza dei beduini senussi in Cirenaica che si rinfocola quando il nuovo governo fascista cerca di controllare completamente il Paese) e si concentra sulla fase finale della campagna di repressione iniziata con la nomina di Badoglio a governatore di Libia nel 1929 e di Graziani a vicegovernatore della Cirenaica nel 1930.

Mentre Badoglio non è mai nominato nel film, sono numerosissime le scene in cui compare Graziani interpretato dall’attore Oliver Reed, da cui ne emergono la figura, la personalità e la tattica. Il colonialismo italiano è stato caratterizzato da un’assoluta ignoranza del territorio e dalla sottovalutazione delle popolazioni, considerate barbare, inette e militarmente incapaci. All’inizio del film Graziani considera sprezzante: «la Libia è stata la nostra corona di spine, ma d’ora in poi sarà carriera per me ed il mio nome nella pagina militare, gloria per Roma, estensione per l’Impero… un manipolo di beduini non può arrestare il progresso di 40 milioni di italiani e del resto Omar non ha frequentato l’accademia militare», ma deve poi ammettere: «la guerra si è ridotta ad attesa». Infatti la strategia vincente di Omar che con circa 3 mila uomini riesce a tener testa a 20 mila soldati, è quella di tagliare le vie di comunicazione e tendere frequenti imboscate per poi ritirarsi e svanire in un territorio impervio e immenso, creando nell’esercito italiano rabbia e frustrazione.

Badoglio mette così a disposizione autoblindo, carri armati e aerei da bombardamento, armi chimiche, in particolare iprite e fosgene, gas mortali già allora al bando: in una delle scene iniziali, durante il ricevimento per l’arrivo di Graziani a Bengasi, alla presenza del re e di numerosi cardinali, si assiste a una piena ammissione da parte italiana: «se l’Italia sapesse cosa facciamo… stiamo violando la convenzione di Ginevra» (che l’Italia aveva firmato il 17 giugno 1925 con altri venticinque Paesi).

Graziani, che si è già guadagnato il soprannome di «macellaio del Fezzan», organizza una serie di operazioni tese al «distacco territoriale tra ribelli e popolazione» trasferendo l’intera popolazione del Gebel Akhdar (regione montana) e della Marmarica verso la costa per bloccare il continuo reclutamento di guerriglieri e perché «i beduini muoiono se rinchiusi». Il risultato: 40 mila prigionieri morti durante le marce di trasferimento, per le pessime condizioni sanitario-igieniche dei campi (per i 33 mila reclusi nei lager di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c’era un solo medico), le epidemie di tifo e dissenteria, la scarsa e cattiva alimentazione, le violenze compiute dai guardiani e le esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga.

Nel film vengono utilizzati documentari d’epoca in bianco e nero in cui si vedono campi di concentramento costituiti da fitte tende sporche e reticolati ad ampio raggio in cui i deportati (perlopiù donne, vecchi e bambini) venivano internati senza alcuna assistenza o sussidio, con esecuzioni sommarie per chi si mostrava ostile o cercava di ribellarsi alla situazione. In altre scene viene mostrato l’uso dei gas per combattere i ribelli e in particolare il primo bombardamento aereo su un’oasi nel deserto. Ma oltre all’utilizzo di questi documentari, anche in altre immagini vi sono analogie con il sistema concentrazionario nazista: i prigionieri dietro il filo spinato, le torrette di guardia e i cadaveri dei civili buttati sui camion…

Graziani segue un’altra tattica «solo piegandoli otterremo il loro rispetto» e così sono molte le scene in cui gli italiani, sparano ai feriti, giustiziano i libici senza dar loro neppure il tempo di pregare, li uccidono sotto i cingolati, tolgono il velo alle donne, le violentano, gridano insulti come «figlio di cane» (particolarmente offensivo nell’Islam in quanto il cane è considerato animale impuro), esultano mentre bombardano e fotografano i cadaveri per la propaganda. Inoltre poiché «lo Stato ha priorità che superano le coscienze», il tenente Sandrini, che si rifiuta di eseguire gli ordini dicendo «non mi sono arruolato per impiccare o violentare donne», viene ucciso con una pallottola nella schiena.

Una delle scene più significative della personalità e dell’atteggiamento di Graziani è quella in cui incontra Omar prima del processo: mentre la telecamera zooma su una moneta si sente «l’Italia ha il diritto di colonizzare Paesi con una storia meno gloriosa; del resto l’Africa è già stata spartita e dopotutto l’Italia è solo tornata. Questa moneta appartiene a Cesare» e con uno stacco sugli occhi di Omar la risposta: «Se scavate ci sono monete fenicie e greche… noi abbiamo un passato degno di rispetto. Anche noi vantiamo una civiltà nel Mediterraneo, noi dominavamo ma insegnavamo». A questo punto Graziani ordina di processarlo. Il 15 settembre Omar, con un processo farsa (il suo difensore d’ufficio, il capitano Roberto Lontano, è arrestato per aver interpretato troppo scrupolosamente il suo ruolo «travalicando il suo compito») viene accusato «di alto tradimento per aver capeggiato la resistenza contro il legittimo governo del suo Paese: l’Impero italiano» e condannato a morte.

Per assistere all’esecuzione di Omar al-Mukhtar, – che avviene a Soluch (in Cirenaica) il 16 settembre del IX anno dell’era fascista (1931) – vengono fatti arrivare ventimila libici da Bengasi, da Benina e dai campi di prigionia della Sirtica. Le ultime parole del leone del deserto sono un versetto coranico: Innā li-llāhi wa innā ilayHi rāgiʿūna, «A Dio apparteniamo ed a lui ritorniamo». Quindi sale sul patibolo, gli sistemano il cappio e, con un calcio allo sgabello, gli spezzano il collo e gli cadono gli occhiali: un bimbo corre a raccoglierli. Ebbene quel bimbo è stato identificato in Gheddafi che si è autoproclamato in tal modo continuatore dell’eredità di Omar. Questo è un mero falso, in quanto Gheddafi è nato nel 1942, ma il film contiene alcune inesattezze militari (ad esempio mostra i libici che fanno imboscate con le mine, che in realtà non avevano) e anche questo “falso storico” funzionale alla legittimazione di Gheddafi, finanziatore e ispiratore del film.

Ad esempio si distingue il ruolo di Mukhtar dalla confraternita islamica dei senussi, di cui re Idris era la bandiera. Gheddafi, oppositore storico di re Idris e ostile ai senussi, voleva infatti trasformare il grande capo guerrigliero in un cavaliere solitario, per potersene proclamare diretto erede; di contro, l’unico senusso a cui si fa riferimento nel film è un traditore della causa che si è alleato con gli italiani. Nel film si dà anche ad intendere che al-Mukhtar sia stato catturato dalle truppe nazionali italiane, mentre in realtà è stato catturato da uno squadrone di regolari libici a cavallo, inquadrati nell’Esercito italiano. Questo nulla toglie al lavoro di documentazione storica e di denuncia sul ruolo e le tattiche di Graziani, inserite nella splendida fotografia di Jack Hildyard.


(*) Monica Macchi è curatrice della sezione Tahrir Square in
www.formacinema.it; questo post è ripreso da «Corriere dell’immigrazione».

Del boia Rodolfo Graziani e di Omar al-Mukhtar si parlato molte volte in blog. Nel film – che è un classico kolossal hollywoodiano, ben fatto ma senza troppe pretese di rigore storico – c’è un’altra inesattezza: non risulta purtroppo un qualche «tenente Sandrini» ovvero episodi accertati di una dissociazione dei militari italiani nella Libia dei massacri. All’uscita del film – o meglio alla sua “non uscita” in Italia – ne parlai con Angelo Del Boca, il maggiore storico del nostro colonialismo, che in sostanza giudicò il film persino “troppo buono” verso il colonialismo. Va detto invece che in Eritrea, Etiopia e Somalia alcuni italiani si unirono ai ribelli per combattere le truppe fasciste, come del resto – e questo si sa – accadde in Spagna. Purtroppo per quel che riguarda il colonialismo sono spesso ignote sia le pagine dell’infamia che quelle del riscatto: ha ragione Monica Macchi a sottolineare che anche oggi si preferisce credere al mito dell’«italiano brava gente». Così si sono passate sotto silenzio non solo le ricerche di Angelo Del Boca (e di altri storici) ma anche «I gas di Mussolini», un libretto agghiacciante nel quale sono elencate tutte le prove dell’uso di armi vietate; in quell’occasione Del Boca ebbe un permesso “speciale” per accedere ad alcuni documenti negli archivi dell’esercito italiano che normalmente erano – e sono – inaccessibili.

Uno dei responsabili della censura strisciante (nel senso che ufficialmente fu sempre negato che il problema fosse “politico” anche se al sequestro della pellicola provvedeva appunto la Digos) a «Il leone del deserto» fu Giulio Andreotti; proprio lui che, molti anni prima, aveva cercato di bloccare alcuni coraggiosi film italiani, compreso «Umberto D», colpevole di mostrare la durissima vita dei pensionati italiani in epoca democristiana.

Qualche ulteriore informazione su «Fascist legacy». Fu prodotto dalla Bbc, fece scalpore (inoppugnabili i documenti sui massacri italiani in Africa e nei Balcani) e la Rai lo acquistò… per mai trasmetterlo. Dunque per impedire che si vedesse, un altro modo di censurare. Scaduti i “diritti d’autore” ora, grazie alla rivista «Micromega» lo si può vedere, cliccando qui: temi.repubblica.it/micromega-online/fascistlegacy-uneredita-scomoda/

Un’ultima considerazione: non solo il cinema – come osserva Monica Macchi – ma anche la letteratura italiana ha preferito rimuovere il colonialismo in generale e quello fascista in particolare. Fa eccezione «Tempo di uccidere» di Ennio Flaiano, un romanzo impressionante pubblicato nel 1947 e troppo presto dimenticato. (db)

 

Redazione
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2 commenti

  • Per chi vuole seguire la vicenda di Affile segnalo che giovedì 13 Giugno alle ore 18,00 presso la sala conferenze del Museo della Resistenza di Torino si terrà una tavola rotonda sul mausoleo a Graziani con.il prof. Angelo Del Boca e rappresentanti della comunità etiope di Torino.

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